Le sfide di Israele tra
Occidente e Oriente, il segreto dei Giusti, storia e memoria ebraica,
ebrei e fascismo. Molti i filoni ricchi di interesse affrontati nel
corso della seconda giornata della Festa del libro ebraico di Ferrara.
Incontri con l’autore, inaugurazione di mostre, dibattiti serrati sui
grandi temi dell’ebraismo: ampia e articolata la programmazione
domenicale di questa seconda edizione del festival, gratificato da una
significativa presenza di appassionati accorsi da tutta Italia nella
città emiliana. Appassionati che hanno popolato sin dalle prime ore del
mattino il Chiostro di San Paolo e le altre strutture coinvolte
nell’iniziativa tra cui il Palazzo dei Diamanti dove è stata
inaugurata, alla presenza di molte centinaia di addetti ai lavori e
comuni cittadini, la mostra Meis: architetture per un museo in cui sono
esposte tutte le proposte progettuali realizzate per il nascituro Museo
Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah che avrà sede nell’ex
comprensorio carcerario di via Piangipane.
Ad animare il dibattito e proporre al pubblico argomenti di grande
interesse una serie di incontri con l’autore coordinati da Shulim
Vogelmann. Tra gli ospiti David Meghnagi, Franco Perlasca, Luca Zevi e
Gabriele Nissim, che ha presentato il suo nuovo "La Bontà insensata. Il
segreto degli uomini giusti". Shemuel Lampronti, Sharon Reichel e
Victor Robiati Bendaud dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia hanno invece
invitato alla lettura di Zakhor, Storia ebraica e memoria ebraica,
capolavoro della storiografia ebraica per lungo tempo scomparso dagli
scaffali e adesso nuovamente in libreria grazie a Giuntina. Grande
partecipazione poi al dibattito Ebrei e fascismo che nel pomeriggio ha
visto confrontarsi sui molti risvolti del tema Simon Levis Sullam,
Mario Avagliano, Alberto Burgio, Valerio De Cesaris e il segretario
generale dell’UCEI Gloria Arbib con il suo fraschissimo di stampa
"Italiani assieme agli altri" dedicato agli ebrei italiani che
combatterono per la libertà nelle fila della Resistenza. Lungo tutta la
giornata momenti di confronto sulle sfide di una identità e tradizione
millenaria, ciclopedalate nei luoghi del Ghetto e di Giorgio Bassani,
sessioni di intrattenimento musicale e artistico, hanno scandito una
grande giornata di festa dedicata alle mille declinazioni della cultura
ebraica.
Oggi, per l'ultima giornata di festival, fra i numerosissimi
appuntamenti in programma anche lo straodinario incontro con Arnoldo
Foà e Teddy Reno. Entrambi protagonista di una grande stagione di
spettacolo e di musica ed entrambi lungamente intervistati per i
lettori del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche.
Teddy Reno: “Ero braccato, la voce mi ha salvato la vita”
Una chiamata fuori dalla
cella poteva essere il segno della fine. Fuggito nel Ferrarese dalla
sua città, braccato come ebreo, rinchiuso nel penitenziario di Codigoro
nel dicembre del 1944, la confusione dei mesi che precedettero lo
sfondamento da parte degli Alleati della linea Gotica aveva fatto
finire quel ragazzo alla soglia dei 18 anni fra i detenuti comuni. Ma
quanto sarebbe durata? In quel giorno freddo e cupo la differenza fra
la vita e la morte era un soffio e infatti si rivelò tale. Spinto nei
corridoi dai brigatisti neri, cacciato in uno stanzone, quel ragazzo
capì allora che cantare può segnare una vita e anche salvarla. Su un
palcoscenico improvvisato e malamente illuminato gli dissero di
intonare qualcosa. Di fronte a lui giovani feroci e disperati, ormai
consapevoli di come sarebbe finita la guerra sbagliata che avevano
combattuto e di come molti sarebbero stati chiamati a pagare per i
crimini commessi sulla popolazione civile. Se siamo qui a parlarne,
sospesi quasi settant’anni dopo nella luce sfavillante del monte
Generoso e della valle di Muggio, in un sereno rifugio elvetico
arrampicato sopra Chiasso, subito al di là del confine con l’Italia, è
perché quella di Teddy Reno, divo degli anni ruggenti della
ricostruzione, cantante, industriale discografico e scopritore di
talenti, fu una storia a lieto fine.
Cosa si prova
a passare dal terrore alla salvezza?
Evidentemente sollievo – risponde serio – ma vorrei dire che in quei
giorni vidi giovani della mia età cui vennero da un momento all’altro i
capelli bianchi. Eravamo ricercati, sfuggiti da Trieste e rifugiati in
campagna grazie alle conoscenze di mio padre, l’ingegner Giorgio Merk,
direttore generale delle industrie Arrigoni che da quelle parti avevano
uno dei tanti stabilimenti. In quei mesi terribili si doveva solo
sparire e attendere. Mia madre, ebrea, era ammalata e miracolosamente
scampò alle ricerche. Mio padre e io infine fummo tratti in arresto
come sospetti. I brigatisti neri mi costrinsero a cantare quello che
potevano ascoltare i giovani nella Repubblica sociale, Lili Marlene,
Camerata Richard, Vento portami via con te. Ero terrorizzato, non so
dove ho trovato le forze. Il mio debutto fu la mia salvezza, mi salvò
la vita. E da allora salire su una scena non mi ha più fatto paura.
Perché le
chiesero di cantare?
Mi avevano sentito durante l’ora d’aria, quando i detenuti potevano
allontanarsi un minimo dalla cella. Cantavo per ingannare il tempo, per
non impazzire. Mi mancava da morire la radio clandestina che usavo per
imparare l’inglese e per sapere cosa accadeva nel mondo libero. Quando
vennero a prenderci ero riuscito per miracolo a far sparire tutti i
miei appunti sugli orari dei programmi preferiti. E in carcere gli
altri detenuti, molti erano dei semplici delinquenti comuni fra i quali
cercavamo di mimetizzarci, mi battevano le mani. Pochi giorni dopo
eravamo miracolosamente liberi, nella confusione generale eravamo
riusciti a tornare nel nostro rifugio in campagna. Tornai a cantare
solo quando vidi il primo soldato inglese. La fine della guerra offrì
ai sopravvissuti l’occasione di partecipare a una stagione densa di
speranze. Finito il conflitto rientrammo a Trieste. La città che aveva
lungamente sofferto ed era rimasta sotto la diretta dominazione tedesca
tornava alla vita, affrontando un incredibile decennio di
amministrazione angloamericana e tornava ad essere un vulcano, un luogo
di incontro di genti diverse e ricche di progetti. Ma soprattutto i
militari inglesi e americani con le loro band portavano fra la gioventù
un nuovo modo di vedere la musica e il divertimento. Teddy Reno naturalmente è un nome
d’arte che nacque in quegli anni. Qual’è il suo vero nome?
Da bambino il mio nome era Ferruccio Merk, poi il cognome divenne
Ricordi. Oggi sono Ferruccio Merk-Ricordi.
Perché questa
mutazione?
Il fascismo decise, ancora prima di varare le leggi razziste del 1938,
di italianizzare il cognome dei cittadini che portavano cognomi di
origine non italiana. La famiglia di mio padre proveniva da un’antica
stirpe dell’impero austroungarico. Da Merk il cognome fu tradotto in
Ricordi. Mia madre, Paola Sanguinetti, veniva da una famiglia ebraica
romana di industriali che possedevano le fabbriche di conserve
alimentari Arrigoni, dove mio padre lavorava come direttore. Il cognome
originario è tornato alla luce quando nel 1968 mi sono trasferito in
Svizzera. Le autorità elvetiche hanno voluto vedere tutti i documenti e
hanno cancellato gli effetti di quel provvedimento che negli anni
Trenta ci aveva tolto il nostro vero cognome.
Lei da oltre
quarant’anni risiede in svizzera. Perché?
Sono arrivato in Svizzera mentre infuriavano le polemiche per la mia
relazione con Rita Pavone. Lei era molto più giovane di me e io ero già
sposato. Volevo sposarmi nuovamente con Rita e a Lugano è stato
possibile. Da allora ci siamo fermati in Canton Ticino, un luogo pieno
di fascino e di tranquillità, solo a un passo dal confine con l’Italia.
Qui sono nati i nostri figli Alex, giornalista radiofonico alla Radio
della Svizzera italiana e Giorgio, musicista (dal matrimonio con la mia
prima moglie Vania Protti era nato precedentemente l’altro mio figlio,
l’attore e regista Franco Ricordi).
E Teddy Reno?
Teddy Reno è nato quando dopo la guerra ho cominciato a cantare nei
locali e a Radio Trieste. Avevo ormai deciso di fare il cantante e il
musicista. Ma la vera svolta è stata quando sono riuscito a convincere
Lelio Luttazzi a venire a Milano con me per fondare assieme una casa
discografica. Lo conoscevo appena e lui mi rispose semplicemente: “Sì,
andemo”. Era il 1947, avevamo appena vent’anni e tutti ci presero per
matti.
E a Milano
come andò?
Quando prendemmo un ufficio nella mitica Galleria del Corso, dove
avevano sede tutte le case musicali di allora, credevano che fossimo
due ragazzini allo sbaraglio. Ma la Compagnia Generale del Disco che
avevo fondato con pochi accorgimenti divenne in breve uno dei
protagonisti del mercato discografico italiano. Mi aiutò lo spirito
imprenditoimprenditoriale ereditato dalla famiglia e anche una certa
attenzione per quello che avveniva oltre le frontiere. Quando i dazi
tenevano ferme anche per anni le novità discografiche americane noi
eravamo rapidissimi a lanciare l’edizione pubblicata in Italia delle
stesse canzoni. Cui aggiungevamo composizioni nostre e di nostri amici
e repertorio tradizionale italiano.
Com’era
l’industria musicale di allora?
Fra il 1948 e il 1961 mi sono affermato come interprete del genere
confidenziale con canzoni di grande successo come Addormentarmi così,
Trieste mia, Muleta mia, Aggio perduto o’ suonno, Accarezzame, Na voce
na chitarra e o’ poco e’ luna, Chella lla, Piccolissima serenata.
Nacquero nuove amicizie, alleanze con personaggi straordinari, come
l’imprenditore musicale di origine ungherese Ladislao Sugar e
innumerevoli altri protagonisti di allora. Mia madre, sulle prime
disperata di avere un figlio cantante di musica leggera, fu infine
conquistata dalla fama che mi ero guadagnato e a un certo punto l’ho
colta vantarsi con qualche amica: “Sono la mamma di Teddy Reno”.
Oltre ai
successi personali e in seguito a quello, travolgente, di Rita Pavone
lanciata da un concorso per voci nuove inventato da Teddy Reno, lei ha
messo assieme una folgorante carriera di attore, di showman radiofonico
e televisivo concentrandosi infine sulla sua sulla capacità di scoprire
i talenti dei più giovani. Una passione che dura ancora
oggi. Sia Rita che io stiamo organizzando iniziative che rilancino la
canzone italiana. Fra pochi giorni, all’inizio di maggio, in migliaia
di scuole italiane prende avvio la Festa di Gian Burrasca. Io sto
lavorando anche su “Forza canzone d’Italia nel mondo”, un tour di 20
capitali mondiali per trovare nel mondo dei milioni di italiani che
vivono all’estero l’ispirazione che faccia rinascere la grande musica
leggera italiana.
La musica
italiana è in crisi?
Chi si trova all’estero e accende una radio può facilmente constatare
che oltre il 90 per cento della musica italiana trasmessa risale a
molti anni fa. Evidentemente abbiamo perso terreno. Alla soglia degli 85 anni, ha
ancora voglia di cantare?
Altro che. Anzi, non so come, ma mi sembra che
mi sia anche migliorata la voce.
E alla festa
del Libro ebraico di Ferrara, dove il 9 maggio è ospite d’onore assieme
all’attore Arnoldo Foà, canterà?
Se mi hanno invitato forse se l’aspettano. Cantare mi ha salvato la
vita, mi ha aiutato a superare gli anni difficili della mia gioventù,
mi ha regalato il successo. Perché mai dovrei farne a meno?
Guido Vitale,
Pagine Ebraiche, maggio 2011
Arnoldo
Foà: “Siamo tutti uguali, anche se abbiamo pensieri differenti”
Sulla scena, fra le
centinaia di personaggi cui ha dato voce e vita, non si è fatto
problemi a vestire le sottane di quattro diversi pontefici. “E non è
tutto – ricorda divertito – perché una volta mi è toccato dare voce
persino al Creatore. Per un ateo mi sembra una bella soddisfazione”. Ad
ascoltarla, sulla soglia del suo novantacinquesimo compleanno, quella
voce calda, profonda che ha fatto rabbrividire e commuovere intere
generazioni di italiani, quella voce che ha lanciato dai microfoni
della radio Alleata di Napoli il segnale della riscossa e della
liberazione, quella voce che per tutti ha significato magistrale
recitazione, profondità, silenzio, poesia, quella voce che ha
attraversato un secolo non è appannata. L’immancabile pipa non l’ha
irruvidita, gli anni non l’hanno incrinata. Fra nuovi progetti di
lavoro e qualche momento di riposo, ci aspetta nel suo appartamento
romano, accogliente ma per nulla pretenzioso, ornato delle sue
multiformi creazioni, disegni, dipinti, sculture, ricordi del lavoro di
attore e degli innumerevoli viaggi che hanno accompagnato un’esistenza
segnata dall’irrequietudine. Accanto ad Annamaria, che ama teneramente
ricambiato, Arnoldo Foà non può fare a meno di cedere al vecchio vizio
e di restare perennemente sotto i riflettori. Fissa la punta delle
scarpe di Giorgio Albertini che cerca di ritrarlo e lo stuzzica, tenta
l’impossibile, cercando di fargli perdere la pazienza (“Accidenti, che
piedi grandi che ha lei...”). Giorgio ride e non ci casca, lo lascia
sbirciare volentieri nel blocco di appunti dove allinea uno dopo
l’altro non solo i tratti, ma anche i pensieri, le anime degli
intervistati di questi primi numeri di Pagine Ebraiche. “Ah, lei
disegna. Anch’io lo faccio, sa? Guardi qui, questo è mio fratello
Piero, che le pare? Quanto l’ho amato questo mio fratello...”. Ora che
Piero non c’è più, che decine di colleghi, amici appassionati e tanta
parte del suo pubblico se ne sono andati in punta di piedi, Arnoldo Foà
porta il peso immenso dei grandi vecchi che hanno amato troppo la vita.
Migliaia di ore sul palcoscenico, tanti amori, quattro matrimoni,
l’affetto di milioni di italiani che hanno amato la sua voce e la sua
arte, un’identità ebraica contraddittoria, difficile e combattuta, ma
mai negata, sempre portata a testa alta, con fierezza, come spesso
avviene agli ebrei italiani.
Negli scorsi
giorni ha regalato al lettore italiano un libro di memorie
(Autobiografia di un artista burbero, Sellerio, 212 pagg). E’ venuto il
momento di quietarsi, di tirare i remi in barca, di concedersi un
momento di riposo?
Mah, veramente sarebbe il caso di rimettersi a fare le valigie.
Verso dove?
Verso l’America, questa volta, per un viaggio che dovrebbe portarmi da
New York, a Washington a Miami per raccontare alla gente di un italiano
che sulle due sponde dell’Oceano è stato molto amato.
A chi si
riferisce?
Questa primavera vorrei ancora una volta dare voce ad Arturo Toscanini,
portando negli Usa il testo che al grande direttore d’orchestra ha
dedicato lo storico Piero Melograni (Toscanini, la vita, le passioni,
la musica). E’ un monologo lungo e fisicamente molto impegnativo, uno
sforzo mnemonico non indifferente... Per un artista è una bellissima
sfida. Soprattutto per uno come me, che ha sempre molto amato la musica
e la libertà.
Insomma, ha
voglia di partire.
Sì, e quando ho voglia di fare una cosa, se posso la faccio. Tutto qui.
Torniamo
indietro nel tempo. La sua identità di ebreo italiano, quando ha
cominciato a percepirla?
Me l’hanno gettata addosso le leggi razziste del 1938, così come a
molti altri. Ero giovane, e noi eravamo come tanti altri: dei cittadini
come tanti altri. Quando sono stato costretto a lasciare l’Accademia
d’arte drammatica ho capito che le cose non stavano così.
Cosa la colpì
di più, allora? La privazione dei diritti, la negazione di un’eredità
ancestrale? L’odio razzista?
Quello che mi impressionò molto, per la verità, fu l’enorme divario fra
quello che dicevano le leggi discriminatorie e la realtà quotidiana.
Restai amico delle stesse persone, continuai a coltivare gli stessi
affetti. E la gente comune fece molto per non dare peso a qualcosa che
sembrava del tutto incomprensibile. La gente che conoscevo non era
razzista, e questa storia la chiamavamo una stronzata. Così, nonostante
le continue ingiustizie e l’arte d’arrangiarsi per continuare e
studiare e lavorare, la vita è andata avanti, bene o male.
E il rapporto
con suo fratello?
Piero ha avuto la capacità di essere sempre molto più ispirato e
religioso di me. Non abbiamo mai affrontato in un confronto diretto le
nostre due diverse sensibilità. Ma nonostante questo, o forse proprio
per questo, l’ho tanto amato. Ho sofferto molto quando è morto, e i
ritratti che gli ho dedicato li tengo sempre davanti a me.
Cosa ha
imparato da quell’esperienza e dagli anni della guerra?
Che tutti gli uomini sono uguali, anche se hanno pensieri differenti.
Questa casa è piena di ricordi, e di libri.
Lei non ha
perso la voglia di leggere. Cosa tiene aperto sul tavolo in questo
momento?
Le mie memorie, perché voglio continuare a sapere chi sono. Ho milioni
di ricordi, tanti che qualche volta non te li ricordi più.
E basta?
No, certo, c’è dell’altro. Cervantes, ma soprattutto i poeti, tutti i
poeti che ho amato leggere nella mia vita di uomo e di attore, quelli
cui ho cercato di dare voce e di cui ho realizzato delle registrazioni
nella speranza che il loro messaggio fosse ascoltato da tanta gente.
Quali sono i
poeti che porta sempre con sé?
Anche solo Leopardi, tanto per cominciare, e per citare un solo nome di
cui oggi si parla poco ma che non mi ha mai lasciato solo.
E a teatro,
ci va ancora?
Mica tanto. Forse perché sono diventato vecchio, ma non sono più capace
di vedere tante cose interessanti. I mostri sacri di un tempo che hanno
calcato la scena assieme a lei, non hanno avuto eredi? Non so, non è
facile rispondere. Temo di no. Ho visto da vicino tanti colleghi di
valore, ora non ritrovo quella dimensione sulla scena italiana.
Sente ancora
la presenza dei suoi colleghi accanto a lei?
Molti erano dei prodigi di bravura e di professionalità. E continuo a
sentirli come fossero ancora vivi. Tanti nomi che dal mio personale
teatro non usciranno mai.
Uno fra
tutti?
Vittorio Gassman, per esempio, era certamente qualcuno. Anche se credo
abbia sofferto di essere sempre, immancabilmente, troppo se stesso.
Lei ha amato
molte donne e vive ora, nonostante gli anni, una quarta, appassionata
unione.
Vorrei essere così bravo e così coraggioso da imporre il nome di
Annamaria alla storia d’Italia, come l’Anita di Garibaldi, o nella
letteratura come la Beatrice di Dante, la Laura del Petrarca, la
Fiammetta del Boccaccio. Sono continuamente combattuto dal dubbio che
sia la sua straordinaria dedizione a legarmi così intensamente a lei, o
il mio amore per lei, a prescindere dalla sua dedizione. Passo da
una convinzione all’altra in continuazione, finché la tenerezza
reciproca, le risate che ci facciamo per gli stessi motivi, anche
quelli stupidi (sono importanti quelli stupidi, perché sono quelli più
sinceri), e il fatto che non resti in noi alcuna traccia di rancore
dopo un inevitabile scontro di opinione o di comportamento, non mi
convincono della realtà del mio sentimento per lei. La differenza di
più di quarant’anni fra noi non esiste: o la sua età mi ha ringiovanito
o io ho fatto crescere lei. Grazie, questo non è teatro, ma il suo modo
di amare e di intendere la vita. L’ultima domanda cade in un silenzio.
Alla considerazione finale dell’intervistatore, le regole vogliono
segua una risposta conclusiva. Ma questa volta la voce di Arnoldo Foà
ha circondato di silenzio uno sguardo intenso, un silenzio eloquente
che non è facile da raccontare al lettore. Ci siamo congedati con un
sorriso.
Guido Vitale,
Pagine Ebraiche, marzo 2010
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