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3 ottobre 2011 - 5 Tishri 5771
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Riccardo Di Segni Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

Alla vigilia dei giorni di Tesciuvà, in cui tutti devono autocriticarsi come singoli e come istituzioni, e i rabbini per primi dovrebbero dare l'esempio, è arrivata l'ennesima critica al rabbinato. Questa volta originata dalla dichiarazione dei vescovi italiani che “hanno richiamato il paese e le istituzioni a un maggior rigore morale”; sono le parole di Dario Calimani, che davanti al silenzio dei rabbini su questi temi si chiede perché questi “non parlino mai di ciò che accade nel paese. Perché si accontentano sempre delle  piccole metafore omiletiche del dvar Torah a fini interni”. È decisamente una  domanda importante, ma bisognerebbe staccarla dal fatto che l'ha sollevata: che è apparso chiaramente ricco di implicazioni politiche, legato a una storia  complessa di rapporti tra poteri (ai quali siamo estranei o marginali), allusivo  ma reticente, e presto ridimensionato dal segretario generale della stessa organizzazione. Forse i rabbini fanno bene a non mescolare la morale con la politica quotidiana, di qualsiasi parte, e non a farsi trascinare da ondate  mediatiche in cui, ferma restando la gravità di certi comportamenti, i codici morali non sono del tutto sovrapponibili e coerenza vorrebbe che di tutto si parlasse. La lista delle regole noachidi, quelle che secondo la nostra  tradizione dovrebbero guidare la società generale, non si identifica con le norme etiche di Repubblica e nemmeno con quelle dell'Avvenire. L'autorevolezza deriva dalla conoscenza e dalla fedeltà alla tradizione, dal comportamento  coerente ed esemplare, ma non si acquista rincorrendo o precedendo le altrui esternazioni. Ma che si debba essere presenti nella società, sì, ha ragione Calimani. Bisogna vedere come. 

Anna
Foa,
 storica

   
Anna Foa
In questi giorni di meditazione e di bilancio, mi piace avvicinarmi a Kippur con questa riflessione di Emanuele Artom, scritta nei suoi diari poco prima di morire assassinato dai nazisti: "Sono contento di aver fatto il digiuno di Kippur, perché abbandonare l'ebraismo è sempre impoverirsi. Esistono sistemi etici superiori all'ebraismo, come quello che Kant esprime nella Critica della ragion pratica, ma essi sono inattuabili: la Bibbia rappresenta il massimo a cui possano giungere oggi gli uomini, non la si deve abbandonare perché oggi non è ancora un punto di partenza, ma un punto di arrivo".

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davar
Qui Ancona - Vittorio e il sogno Tel Aviv
Avere diciotto anni, un momento della vita in cui ci si confronta, forse per la prima volta seriamente, con il proprio futuro e con le proprie aspettative. Le domande sono poi ancora più pressanti se le decisioni impongono scelte radicali. Come nella vita di un giovane calciatore che, alle soglie del professionismo, si interroga se investire a tempo pieno (o quasi) sul pallone oppure propendere per altri lidi e speranze. Vittorio Lanternari viene da Ancona, ha 18 anni ed è una grande speranza del calcio marchigiano. Quest’anno, oltre a disputare un torneo da esterno d’attacco titolare nel Montegranaro in Eccellenza, taglierà – ci si augura – il traguardo della maturità al liceo linguistico. La sua è una vita come quella di tanti ragazzi. Lezioni sui banchi di scuola, amori e musica. Con un impegno quotidiano in più, quello degli allenamenti col club. Un impegno che, nonostante i molti sacrifici in termini di tempo sottratto ad altri impieghi, è comunque un momento di gioia. “Sono nato col pallone tra i piedi, giocare e stare in campo è la mia vita” dice Vittorio. Un novello Oliver Hutton, insomma, che abitando in campagna sfrutta ogni singolo momento di buco per palleggiare e dribllare. L’obiettivo, ambizioso, è quello di arrivare in Serie A. “E qualora non dovessi riuscirci, raggiungere comunque la prima serie in un altro campionato”. Chi l’ha visto dal vivo dice che ha delle potenzialità enormi. Ma anche in video rende bene. Rapido, veloce nelle verticalizzazioni, è caparbio e quando sembra in procinto di perdere un contrasto ecco che frega l’avversario con una mossa a sorpresa. Le sue doti sono finite sul taccuino di alcuni importanti talent scout come il ds Giuseppe Pavone e l’ex preparatore atletico del Milan Vincenzo Pincolini. Perfino Zdenek Zeman, vedendolo durante uno stage al Foggia, si era convinto a investire su di lui. Poi, con il repentino salto di categoria dell’allenatore boemo – dalla Lega Pro alla serie cadetta con il Pescara – tutto era saltato. “Ma io non mollo” prosegue Vittorio. Anche se poi ammette che districarsi nel mondo delle categorie inferiori è spesso un inferno. Pochi i soldi che girano e poche le società che hanno serie intenzioni di investire mentre la competizione si fa sempre più accesa. Così negli ultimi tempi ha iniziato a guardarsi attorno allargando l’orizzonte delle vedute. “Per il calcio andrei ovunque” è il suo mantra. Ed inizia così a sciorinare una lunga lista di tornei, alcuni piuttosto esotici, dove sarebbe più facile sfondare. Sul finire di chiacchierata, confessa l’ultimo dei sogni: “Vorrei giocare in Israele”. Una possibilità che, grazie alla consapevolezza di potersi avvalere della Legge del Ritorno, si è fatta sempre più largo nella sua testa. “Non ho contatti con quella realtà calcistica ma mi piacerebbe provarci”. E in quale squadra? “Se possibile di Tel Aviv, da quello che ho letto e dai racconti di chi c’è stato deve proprio essere una città magnifica”.

Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, ottobre 2011


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La responsabilità di Israele
Donatella Di Cesare«Kol Israel arevim ze la-ze». Tutti in Israele sono responsabili gli uni per gli altri. È uno dei principi classici dell’etica ebraica. Nel bene e nel male quello che accade in un punto di Israele, riguarda tutto il resto di Israele. Sta qui una differenza decisiva rispetto al mondo circostante dove ciascuno sembra stabile nel proprio ego, separato dagli altri, in una irresponsabilità verso il tutto.
Essere l’uno per l’altro vuol dire che tutti devono rispondere per gli altri e davanti agli altri. È questo il senso del patto. Nessuno può sostituirmi nella responsabilità che devo assumermi e che è il luogo stesso della mia esistenza. Ma vuol dire anche che io mi devo prendere sempre una responsabilità in più rispetto all’altro: sono responsabile perfino della sua responsabilità verso di me – «en ladavar sof», cioè all’infinito. Che le comunità ebraiche nel nuovo anno possano perseguire questo ideale.
Chatima tovà a tutti

Donatella Di Cesare, filosofa

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