|
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma
|
Alla
vigilia dei giorni di Tesciuvà, in cui tutti devono autocriticarsi
come singoli e come istituzioni, e i rabbini per primi
dovrebbero dare l'esempio, è arrivata l'ennesima critica al
rabbinato. Questa volta originata dalla dichiarazione dei
vescovi italiani che “hanno richiamato il paese e le istituzioni a un maggior rigore morale”; sono le parole di Dario
Calimani, che davanti al silenzio dei rabbini su questi temi
si chiede perché questi “non parlino mai di ciò che accade nel paese.
Perché si accontentano sempre delle piccole metafore
omiletiche del dvar Torah a fini interni”. È
decisamente una
domanda importante, ma bisognerebbe staccarla dal fatto che l'ha
sollevata: che è apparso chiaramente ricco di implicazioni
politiche, legato a una storia complessa di rapporti tra
poteri (ai quali siamo estranei o marginali), allusivo ma
reticente, e presto ridimensionato dal segretario generale della
stessa organizzazione. Forse i rabbini fanno bene a non
mescolare la morale con la politica quotidiana, di qualsiasi
parte, e non a farsi trascinare da ondate mediatiche in cui,
ferma restando la gravità di certi comportamenti, i codici morali
non sono del tutto sovrapponibili e coerenza vorrebbe che di
tutto si parlasse. La lista delle regole noachidi, quelle che
secondo la nostra tradizione dovrebbero guidare la società
generale, non si identifica con le norme etiche di Repubblica
e nemmeno con quelle dell'Avvenire. L'autorevolezza deriva
dalla conoscenza e dalla fedeltà alla tradizione, dal
comportamento coerente ed esemplare, ma non si acquista
rincorrendo o precedendo le altrui esternazioni. Ma che si
debba essere presenti nella società, sì, ha ragione Calimani.
Bisogna vedere come.
|
|
Anna
Foa,
storica
|
|
In questi giorni di
meditazione e di bilancio, mi piace avvicinarmi a Kippur con questa
riflessione di Emanuele Artom, scritta nei suoi diari poco prima di
morire assassinato dai nazisti: "Sono contento di aver fatto il digiuno
di Kippur, perché abbandonare l'ebraismo è sempre impoverirsi. Esistono
sistemi etici superiori all'ebraismo, come quello che Kant esprime
nella Critica della ragion pratica, ma essi sono inattuabili: la Bibbia
rappresenta il massimo a cui possano giungere oggi gli uomini, non la
si deve abbandonare perché oggi non è ancora un punto di partenza, ma
un punto di arrivo".
|
|
Avere
diciotto anni, un momento della vita in cui ci si confronta, forse per
la prima volta seriamente, con il proprio futuro e con le proprie
aspettative. Le domande sono poi ancora più pressanti se le decisioni
impongono scelte radicali. Come nella vita di un giovane calciatore
che, alle soglie del professionismo, si interroga se investire a tempo
pieno (o quasi) sul pallone oppure propendere per altri lidi e
speranze. Vittorio Lanternari viene da Ancona, ha 18 anni ed è una
grande speranza del calcio marchigiano. Quest’anno, oltre a disputare
un torneo da esterno d’attacco titolare nel Montegranaro in Eccellenza,
taglierà – ci si augura – il traguardo della maturità al liceo
linguistico. La sua è una vita come quella di tanti ragazzi. Lezioni
sui banchi di scuola, amori e musica. Con un impegno quotidiano in più,
quello degli allenamenti col club. Un impegno che, nonostante i molti
sacrifici in termini di tempo sottratto ad altri impieghi, è comunque
un momento di gioia. “Sono nato col pallone tra i piedi, giocare e
stare in campo è la mia vita” dice Vittorio. Un novello Oliver Hutton,
insomma, che abitando in campagna sfrutta ogni singolo momento di buco
per palleggiare e dribllare. L’obiettivo, ambizioso, è quello di
arrivare in Serie A. “E qualora non dovessi riuscirci, raggiungere
comunque la prima serie in un altro campionato”. Chi l’ha visto dal
vivo dice che ha delle potenzialità enormi. Ma anche in video rende
bene. Rapido, veloce nelle verticalizzazioni, è caparbio e quando
sembra in procinto di perdere un contrasto ecco che frega l’avversario
con una mossa a sorpresa. Le sue doti sono finite sul taccuino di
alcuni importanti talent scout come il ds Giuseppe Pavone e l’ex
preparatore atletico del Milan Vincenzo Pincolini. Perfino Zdenek
Zeman, vedendolo durante uno stage al Foggia, si era convinto a
investire su di lui. Poi, con il repentino salto di categoria
dell’allenatore boemo – dalla Lega Pro alla serie cadetta con il
Pescara – tutto era saltato. “Ma io non mollo” prosegue Vittorio. Anche
se poi ammette che districarsi nel mondo delle categorie inferiori è
spesso un inferno. Pochi i soldi che girano e poche le società che
hanno serie intenzioni di investire mentre la competizione si fa sempre
più accesa. Così negli ultimi tempi ha iniziato a guardarsi attorno
allargando l’orizzonte delle vedute. “Per il calcio andrei ovunque” è
il suo mantra. Ed inizia così a sciorinare una lunga lista di tornei,
alcuni piuttosto esotici, dove sarebbe più facile sfondare. Sul finire
di chiacchierata, confessa l’ultimo dei sogni: “Vorrei giocare in
Israele”. Una possibilità che, grazie alla consapevolezza di potersi
avvalere della Legge del Ritorno, si è fatta sempre più largo nella sua
testa. “Non ho contatti con quella realtà calcistica ma mi piacerebbe
provarci”. E in quale squadra? “Se possibile di Tel Aviv, da quello che
ho letto e dai racconti di chi c’è stato deve proprio essere una città
magnifica”.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche, ottobre 2011
|
|
|