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30 ottobre 2011 - 2 Cheshvan 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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Il Minchat
Shemuel dice, a nome di rabbi Chaim di Volozhin, che parole troppo dure
non penetrano in chi le riceve e non hanno alcun impatto positivo;
generano piuttosto contrasto e ribellione.
I genitori dovrebbero dunque parlare con i figli con gentilezza e
tranquillamente se vogliono essere da loro ascoltati.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Stamani a
Milano è iniziato il primo modulo del progetto di formazione del Centro
studi e formazione del Dec UCEI. Un progetto impegnativo.
Perché
si fa un corso per formare dirigenti? Suppongo che questa decisione
discenda dalla convinzione che la buona volontà non basti o che sia
necessaria una competenza fondata anche su una sensibilità culturale
che non nasce dal “fai da te”. Dunque abbiamo bisogno di tecnici, di
manager, non solo perché occorrono competenze, ma forse anche come
risposta a leadership carismatiche che non si sa quanto dureranno e se
saranno in grado di proporre la successione a se stesse.
Se noi
oggi ci troviamo a discutere e a preoccuparci di una formazione di una
leadership comunitaria è perché gli ebrei in Italia sono cambiati.
Questo non riguarda solo il fatto che ci sono edoth che 40 anni fa non
c’erano, ma anche il fatto che i figli o i nipoti di chi c’era 60 anni
fa (ovvero il mondo ebraico che era maggiorenne al momento del rientro
nella società italiana una volta chiusa la stagione della legislazione
razziale) non hanno fatto le stesse scelte dei loro genitori, sia in
termini di stili di vita che in relazione ai luoghi dove vivere. Ovvero
non sono più qui: talora culturalmente, talora geograficamente. La
crisi del mondo ebraico in Italia non è così diversa da quella della
società italiana più in generale.
Noi oggi ci poniamo un problema di leadership non solo perché la
situazione che occorre governare è più complicata –
forse si potrebbe dire più differenziata dal punto di vista della
composizione umana – ma anche perché questo tempo ci obbliga a essere
meno pigri. A non ritenere che siccome siamo ancora qui e ce l’abbiamo
fatta, per questo ce la faremo ancora. Come tutti gli italiani, appunto.
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Qui Milano - La sfida della formazione |
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"Questo
progetto è diretto ai leader comunitari, presenti e futuri, che
vogliono imparare e sono disposti ad ascoltare gli altri. Vogliamo
dare, nel nostro piccolo, un contributo alle comunità perché guardino
al futuro con speranza”. Parole del rav Roberto della Rocca in
occasione della presentazione, questa mattina a Milano, dell’ambizioso
progetto di formazione del neonato Centro studi e formazione del
dipartimento Educazione e Cultura (Dec) dell’UCEI. Un’iniziativa
dedicata a formare la nuova leadership ebraica così come rivolta a
operatori e dirigenti comunitari con l’intento di creare sinergie tra
le diverse realtà del mondo ebraico italiano. “Come la struttura a
semicerchio del Sinedrio – spiega in apertura rav Della Rocca,
direttore del Dec – la comunità e i suoi dirigenti devono essere aperti
e non autoreferenziali; un organo decisionale deve conoscere e capire
cosa vuole l’utenza”. L’appuntamento milanese, città sede del
nuovo Centro studi e formazione, è il primo di una serie di incontri,
seminari e approfondimenti che si svolgeranno in diverse comunità
italiane (Trieste, Napoli, Torino, Firenze) e coinvolgeranno presenti e
futuri leader, operatori e rabbanim con ospiti di primo piano del mondo
rabbinico come professionisti della comunicazione. Al centro
dell’evento di oggi, gli interventi dello psicologo Daniel Segre,
esperto di dinamiche istituzionali e comunicazione interpersonale, e
Elio Limentani, da anni impegnato nella formazione del personale e
nella gestione delle risorse umane, sul rapporto tra Comunità e
gestione manageriale diretto ai dirigenti comunitari. Stesso argomento,
ma con il pubblico dei più giovani, è affrontato da Dan Wiesenfeld,
psicologo specializzato in comportamento organizzativo ed executive
coaching. Rav Dov Maimon, docente dell’Università Ben Gurion, affronta
con gli altri rabbini le questioni legate alla “Psicologia e la
Comunità” e la mediazione dei conflitti famigliari. “L’idea di
questo lavoro – spiega Alan Nacacche, tra i responsabili del progetto –
è quello di insegnare ai futuri leader comunitari come diventare i
prossimi Roberto Jarach e Riccardo Pacifici. Ma è anche quella di
creare un network tra gli operatori e i dirigenti delle realtà ebraiche
italiane in modo che si confrontino sulle problematiche delle singole
Comunità e condividano la propria esperienza”. Aperta a tutta la
comunità, la lectio magistralis pomeridiana del professor Gavriel Levi,
docente di psichiatria, su “Il Talmud di Avraham Avinu”. A chiudere
l’intensa giornata milanese il convegno “I valori comuni di una
Comunità” con gli interventi del presidente UCEI Renzo Gattegna, del
presidente della Comunità di Milano Roberto Jarach, del rabbino capo di
Milano rav Alfonso Arbib, dello storico David Bidussa e del professor
Gavriel Levi. Ad introdurre la serata rav Roberto Della Rocca.
Daniel Reichel
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Così si apprende la
difficile arte di mediare conflitti |
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Ha
maturato una lunga esperienza sul campo lavorando nelle Comunità di
Torino, Milano, Trieste, Firenze. Ha conosciuto i volontari e i
dipendenti – dagli insegnanti agli amministrativi agli operatori
culturali. E in ciascuna realtà ha potuto toccare con mano le
diffidenze reciproche e le crisi, i problemi e le motivazioni dei
singoli, leggendone, con la serenità possibile solo a chi non è
coinvolto in prima persona, i meccanismi e le possibilità di soluzione.
Daniel Segre, psicologo sociale, porta anche questo bagaglio
d’esperienza nel nuovo progetto del Centro studi e formazione del Dec
che lo ha avuto fra i protagonisti del gruppo di lavoro che ne ha
definito i contenuti e lo vedrà quale docente di mediazione dei
conflitti comunitari (...)
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Daniela Gross
(Pagine Ebraiche, novembre 2011)
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Quella sofferenza che
ho sentito anche mia |
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È
stato presentato venerdì mattina, in occasione della giornata
inaugurale della grande rassegna internazionale Lucca Comics &
Games, il dossier di approfondimento che Pagine Ebraiche di novembre in
distribuzione dedica al fumetto e all’identità ebraica. Tra i vari
ospiti che hanno accompagnato la redazione, i disegnatori Vittorio
Giardino, Sarah Glidden e Giorgio Albertini. Di seguito la recensione
che Miriam Camerini ha fatto di Capire in 60 giorni (e anche meno),
opera d'esordio della giovane cartoonist statunitense Sarah Glidden. Un
lavoro fresco e curioso che racconta la complessità di una realtà non
riducibile al semplice bianco e nero.
Israele
vista con gli occhi di un americano. Potrebbe essere questo il
sottotitolo del racconto a fumetti Capire Israele in 60 giorni (e anche
meno) di Sarah Glidden, pubblicato in Italia pochi mesi fa da Rizzoli
Lizard. Oppure si potrebbe mettere una bella croce su quel “capire”, o
inserirvi a forza un “non”. Non capire Israele in 60 giorni, e nemmeno
in 60 anni, di vita nostra o del Paese. Naturalmente, non si tratta di
capire Israele, quanto di dipanare alcuni dei nostri intricati
sentimenti verso la putativa patria.
Sarah, autrice della graphic
novel, è una ventiseienne ebrea americana, laica, artista e di
sinistra, la quale visita Israele per la prima volta grazie al
programma Taglit, un viaggio che viene offerto gratuitamente agli
studenti che non hanno ancora mai messo piede nella Terra dei padri.
Nel racconto a fumetti, la protagonista parte per convincersi di avere
ragione, vuole verificare che tutte le idee che ha accumulato sono
giuste: Israele è uno Stato prepotente che ha usurpato la terra
cacciando coloro che la occupavano prima e ai quali spetta ancora di
diritto. L’esercito israeliano è colpevole di ogni sorta di violenze e
prevaricazioni e i palestinesi sono vittime innocenti e inermi. Sarah
appartiene però alla poco fortunata minoranza incapace di avere
certezze e ben presto si rende conto che la situazione è più complessa
di così (...)
continua
>>
Miriam
Camerini (Pagine Ebraiche, novembre 2011)
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Davar acher - Ebrei, eretici,
selvaggi |
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Un
libretto appena uscito di Adriano Prosperi ("Il seme dell'intolleranza
– Ebrei, eretici, selvaggi: Granada 1492", Laterza Editore, pp. 179, €
12) prova a ragionare sulla coincidenza dell'espulsione ebraica dalla
Spagna con l'inizio del viaggio di Colombo verso "le Indie" che portò
alla scoperta dell'America (di qui arriveranno i "selvaggi") e con
l'affermazione dell'Inquisizione spagnola, destinata, almeno
inizialmente alla lotta contro l'eresia. Il tutto, secondo Prosperi,
sarebbe motivata dalla contemporanea conclusione della "Reconquista"
spagnola della penisola iberica, che avrebbe portato al progetto dello
Stato moderno, forte e insofferente di differenza, e dunque in qualche
modo alla modernità. Su molti punti dell'analisi di Prosperi, per
esempio sulla continuità dell'antisemitismo razziale dell'Otto e
Novecento dalla nozione ispanica della limpieza de sangre, o sulle
motivazioni machiavelliche e per nulla mistiche di re Ferdinando,
individuato come l'anima nera della cacciata, non posso che concordare.
Altre cose sono note, come la violenza subitanea dell'espulsione e le
terribili conseguenze che ne sortirono. La differenza fra i luoghi in
cui l'Inquisizione bruciava vivi i convertiti a forza sospetti di
mantenere le cuore il loro ebraismo e Auschwitz è nella quantità e
nelle tecniche, non certo nel giudizio morale. Lo stesso va detto fra
il razzismo del cristianesimo spagnolo e quello nazista, entrambi
ricchi di "volonterosi carnefici". Su altri temi trovo Prosperi
piuttosto ideologico, in particolare nell'idea che Granada 1492 sia
l'origine della modernità occidentale, che sarebbe caratterizzata dal
peccato originale dell'intolleranza per il diverso. In realtà l'inizio
delle stragi di ebrei risale piuttosto alle prime crociate, dunque tre
secoli prima, e anche le cacciate dall'Inghilterra e dalla Francia
precedono quella dalla Spagna, seppure questa sia stata assai più vasta
e tragica. Né l'intolleranza fu solo europea, perché episodi di
violenza antiebraica si ripeterono abbastanza spesso in quei secoli
anche nel mondo islamico.
Una riflessione che tocca solo
marginalmente il libro, ma che è essenziale per noi riguarda il destino
degli emigrati dalla Spagna, la loro difficilissima collocazione. C'è
il fatto che essi, come le vittime della Shoah, furono sorpresi senza
preparazione dalla tempesta improvvisa, ebbero pochissimo tempo per
cercare di salvarsi, e non seppero dove andare. Prosperi racconta delle
navi respinte dai numerosi Stati che avevano già espulsi i loro ebrei e
non ne volevano degli altri: per esempio Genova. Esattamente come per i
fuggitivi dalla Germania e dall'Est europeo di settant'anni fa, anche
per i sefarditi i rifugi erano difficilissimi, talvolta illusori come
lo fu il Portogallo e i respingimenti la norma. Mezzo mondo era loro
proibito, tutta la parte occidentale del continente europeo, fino a
quando (quasi un secolo dopo) si aprirono rifugi come quelli di Livorno
e dei Paesi Bassi. Molti luoghi che in seguito avrebbero ospitato
comunità numerose e in qualche tempo integrate, erano allora
particolarmente inospitali: Venezia aprì il primo ghetto nel 1516, in
Germania Lutero predicava apertamente l'antisemitismo. A proposito, è
appena uscita da Einaudi la nuova traduzione italiana di "Degli ebrei e
delle loro menzogne" (pp. 246, € 19), pubblicato nel 1543. Ancora
Prosperi, nell'introduzione a questo libro, commenta che "Lutero non è
responsabile della Shoah", il che è ovvio, perché nessuno può essere
colpevole di quel che avverrà mezzo secolo dopo la sua morte. Ma è vero
anche che la diffusione dell'odio e della persecuzioni non è meno larga
in quel momento e nei secoli successivi in ambiente protestante che
cattolico o islamico.
Riflettere su queste cose, sulle strette
della storia che improvvisamente travolgono situazioni consolidate e
sulla corrente secolare dell'antisemitismo che riemerge a tratti con
forza devastante, è particolarmente urgente oggi. A meno di
settant'anni dalla Shoah, dobbiamo prendere atto che l'idea che la
memoria del genocidio e i principi liberali della democrazia ci
avrebbero preservato dalla ripetizione dell'antisemitismo era
illusoria. Le ricerche che mostrano la ripresa dell'antisemitismo si
ripetono con desolante monotonia in tutto il mondo: in Argentina come
in Belgio come in Italia (la meritoria inchiesta promossa da Fiamma
Nirenstein). I pretesti per l'antisemitismo sono i più vari, essere
cosmopoliti o nazionalisti, non avere una patria o averne una quando
non va più di moda, essere padroni del mondo o rivoluzionari,
capitalisti o socialisti. Oggi riguardano Israele e i suoi "crimini"
(essenzialmente quello di esistere). Quel che dobbiamo sapere è che un
cinico Ferdinando d'Aragona o un invasato nazista o un patriottico
iraniano o un religioso Lutero non mancheranno mai a sanzionare
l'espulsione o magari a assistere compunti ai roghi.
Ugo
Volli
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Appuntamento questo pomeriggio al Palazzo della Cultura per
Identità e Memoria, evento organizzato congiuntamente dalle
associazioni Music Theatre International-MThI e Prospettive
Mediterranee, in collaborazione con l’Ufficio d’informazione in Italia
del Parlamento Europeo e la Comunità ebraica di Roma (...) continua
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