Nel
Silicon Wadi con le tecnologie del domani
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La
nazione start up. Israele, dagli anni Novanta in avanti, si è affermata
gradualmente come uno dei poli dell’high-tech mondiale. Il numero
complessivo delle società israeliane quotate al Nasdaq, l’indice dei
mercati tecnologici della borsa americana, supera quello dell’intera
Europa messa assieme. Attualmente in Israele, lungo la Silicon Wadi
(riferimento in arabo al letto prosciugato di un torrente), sorella
minore della più celebre Silicon Valley californiana, sono attive sul
mercato circa 4mila start up.
Un breve riassunto che spiega perché la
Innovation Lab, associazione impegnata nel settore tecnologico e
rivolta soprattutto al mondo universitario, ha deciso lo scorso
novembre di portare in Israele una delegazione di studenti di tre
università italiane (nella foto). Otto giovani che, grazie a due
progetti start up, sono potuti entrare in contatto con il know how
israeliano, confrontarsi con alcuni degli imprenditori e delle menti
più brillanti della Silicon Wadi nonché promuovere i propri progetti.
Il Technion, l’istituto Weizmann così come le sedi israeliane di
Yahoo!, Intel e Ibm, sono state alcune delle mete di questo
pellegrinaggio hightech o meglio dello “Startup Nation InnovAction
Tour”, titolo dell’iniziativa. In collaborazione con l’Ambasciata
d’Israele a Roma e con l’associazione Amici del Technion, il progetto
della Innovation Lab ha coinvolto 240 studenti provenienti dall’Emilia
Romagna, dal Lazio e dalla Puglia. Da questa rosa di pretendenti sono
emersi gli otto vincitori, affiancati in questo viaggio da una decina
tra docenti universitari, imprenditori e ricercatori.
Colonna portante
dell’economia israeliana, il settore High-tech è uno dei fiori
all’occhiello del Paese. E per questo ingenti somme statali vengono
destinate ogni anno al settore dell’innovazione. Ma un impulso
altrettanto forte per il rinnovamento arriva in questo campo
dall’esercito israeliano. Possiamo infatti considerare l’Idf un vero e
proprio laboratorio per la sperimentazione tecnologica e per la
formazione delle nuove leve imprenditoriali del Paese. Almeno secondo
quanto sostengono nel loro libro Start-up Nation: The Story of Israel's
Economic Miracle, diventato ben presto un bestseller, gli scrittori Dan
Senor e Saul Singer. “La capacità di leadership, il lavoro di squadra,
l’abilità a portare a termine missioni e l’accumulo di esperienze in
breve termine” sono i punti cardine per la rivoluzione High-tech
israeliana secondo Senor e Singer. Altri ingredienti di questo piccolo
miracolo sono, sempre stando alla teoria dei due autori, la stretta
vicinanza di università fortemente impegnate nel campo della ricerca e
in continua competizione fra loro; una cultura imprenditoriale che
unisce all’individualismo, capitalismo e uno sfumato egualitarismo. Una
ricetta articolata, dunque, che gli studenti italiani vogliono, con le
dovute reinterpretazioni e differenze, portare nel Belpaese. Il senso
del viaggio della delegazione italiana di novembre come di quelle
future infatti si muove sull’idea di creare relazioni con aziende,
investitori e i famosi "incubatori" (uffici universitari che
patrocinano le idee dei giovani laureati o dei ricercatori israeliani
aiutandoli ad affacciarsi sul mercato con i loro progetti e
facilitandone l’ingresso nelle grandi imprese nel settore, in Israele e
non solo). Studenti, professori e ricercatori hanno avuto la
possibilità di confrontarsi con le metodologie con cui gli alter ego
israeliani si muovono nel complicato reticolo dell’innovazione.
“Apprendere come valutare il potenziale innovativo di un’idea di
impresa – si legge nel comunicato dell’iniziativa Startup Nation
InnovAction Tour – e come tale potenziale possa essere presentato agli
investitori privati, alle aziende, alle istituzioni e portato nella
società”. L’universo delle start up e dell’- high-tech israeliano non è
chiaramente perfetto. Ci sono delle problematiche rispetto alla
questione della manodopera, i disequilibri sociali e altre difficoltà.
Ma per un paese come l’Italia, in cui la fuga di cervelli non è più una
notizia, è un ottimo esempio su come non far scappare e anzi investire
sull’intraprendenza e la genialità dei laureandi, ricercatori, giovani
italiani.
Daniel
Reichel, Pagine Ebraiche, gennaio 2011
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Qui
Trieste – Centotrent'anni, tredici parole
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La
prima pagina del quotidiano della Venezia Giulia “Il Piccolo” cedeva
ieri il passo alla riproduzione della prima pagina del primo numero che
segnò l'inizio nella storia del glorioso giornale. Centotrent'anni e un
giorno fa, il 29 dicembre del 1881, un ragazzo ebreo di 19 anni
chiamato Theodor Mayer mandava in stampa il primo numero di un giornale
quotidiano che avrebbe scritto molta storia della sua città, Trieste,
del grande impero dove allora si trovava e dell'Italia intera. Decise
di chiamarlo “Il Piccolo” perché la sua impresa era fragile, incerta e
azzardata e si lanciava su un mercato sovraffollato per affrontare
giornali quotidiani autorevoli, potenti, cosmopoliti e plurilingui. Da
allora, nel bene e nel male, il suo giornale (che gli fu portato via
dalle leggi razziste del 1938) è più volte risorto dalle ceneri delle
guerre e delle dittature, ha conquistato la leadership
dell'informazione in un lembo d'Europa dove si intersecano tutti i
confini e tutte le culture del continente e in una città che fra mille
traumi, sempre pagando di persona, ha continuato a rivendicare il
proprio ruolo di capitale delle minoranze e di finestra italiana sul
mondo. Il suo giornale inaugurava uno stile concreto, asciutto,
tagliente. Denunciava già dalla prima colonna i pogrom antiebraici in
Polonia del Natale 1881. L'editoriale di presentazione che scrisse il
giovanissimo direttore si componeva di tredici parole. Non una di più,
non una di troppo. Il suo programma continua a costituire un punto
d'arrivo per i giornalisti, ebrei e non ebrei, che credono in
un'informazione serena, dignitosa, efficace e professionale. Eccone il
testo: “Compendiamo in poche parole il nostro programma. Saremo
indipendenti, imparziali, onesti. Ecco tutto”.
gv
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Auguri globalizzati
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Tra
gli auguri natalizi che le organizzazioni di vario genere mandano via
e-mail a tutti gli iscritti ne ho ricevuto uno curioso: intorno
all’inconfondibile albero addobbato si legge la scritta “Buon Natale”
in tutte le lingue, compresi cinese, coreano, giapponese, hindi e turco
(ma non arabo). E in ebraico? In modo una posizione abbastanza
evidente, nell’angolo in alto a destra troviamo scritto “Hag Hanukkah
sameach”, con sopra (unica tra tutte ad avere una traduzione inglese ad
hoc) “Happy Hanukkah”. Chi ha inventato il biglietto pensava davvero
che Hanukkah fosse il nome ebraico del Natale? In tal caso la cartolina
dimostrerebbe quanto sia maldestra talvolta la mentalità del
politically correct, che credendo trasmettere un messaggio universale
si trova costretto ad ignorare e appiattire le differenze culturali.
Forse però l’origine probabilmente americana della cartolina suggerisce
la possibilità che chi l’ha inventata sapesse benissimo che Hanukkah
non è il Natale e abbia avuto l’intenzione sincera (anche se declinata
in modo un po’ rozzo e ingenuo) di fare a ciascuno gli auguri
appropriati; in effetti - albero a parte - devo riconoscere che con me
ci sono riusciti: è la prima volta che un’organizzazione non ebraica mi
fa gli auguri per Hanukkah!
Comunque si debba interpretare la
cartolina, rimane il fatto che di fronte agli auguri globalizzati, a un
messaggio che vuole essere unico per tutti i popoli del mondo, noi
ebrei, con la nostra festa diversa che richiede auguri distinti,
diventiamo il simbolo dell’esigenza di rispettare tutte le culture
nella loro molteplicità e ricchezza. In fin dei conti la storia di
Hanukkah è proprio questo: la difesa della propria specificità di fonte
a una cultura egemone globalizzata (per allora) ricca, pervasiva,
affascinante e talvolta anche attraente per gli stessi ebrei.
Anna
Segre, insegnante
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Benvenuta Aileen Ginevra
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Quando chiede in via del
tutto eccezionale di “saltare il turno”, in redazione dilaga
l'inquietudine. E non solo per il valore dei suoi contributi, ma anche
perché immancabilmente molti, fra il grande pubblico che la segue
attentamente, non mancano di farsi vivi con messaggi e telefonate di
preoccupazione. La storica Anna Foa è stata fra i primi collaboratori a
dare vita a questo notiziario e continua, oggi che i collaboratori sono
oltre 120, con dinamismo a intervenire e a insegnare la storia degli
ebrei in molti atenei italiani e internazionali, a pubblicare, a
intervenire in sedi prestigiose, a scrivere per le maggiori testate
giornalistiche e per il giornale dell'ebraismo italiano Pagine
Ebraiche. In questi giorni Anna, nel pieno della sua attività
accademica, ha
accolto con gioia la nascita di Aileen Ginevra Giacalone, una splendida
bimba che l'ha resa bisnonna. A lei, a tutti i suoi cari, e in
particolare alla mamma Viviana Marinucci e al papà Gabriele, le
congratulazioni e l'affetto di tutta la redazione.
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Israele
- Economia in crescita
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Leggi la rassegna |
Nel 2011
l’economia israeliana ha mantenuto il proprio tasso di crescita: la
crescita del Pil pro capite dovrebbe assestarsi attorno al 3% alla fine
del 2011. Israele è inoltre riuscito a far diminuire il suo tasso di
disoccupazione ad un minimo storico del 5,5% nel secondo trimestre, e
al 5,6% nel terzo trimestre del 2011.
Da Tel
Aviv a Gerusalemme
Per una grossolana svista, in una notizia d'agenzia in breve pubblicata
ieri è sfuggita alla redazione la ridicola espressione "il Parlamento
di Tel Aviv" là dove avrebbe dovuto figurare ovviamente "il Parlamento
di Gerusalemme". Una redazione che pubblica circa 10 mila articoli
l'anno compie inevitabilmente molti errori, ma questo ci è
particolarmente dispiaciuto, perché ha involontariamente trasportato
sui nostri notiziari un frammento del distorto e tendenzioso modo di
vedere Israele che spesso esprimono i media della cultura dominante. Il
nostro compito resta quello di correggere queste distorsioni e ogni
volta che non riusciamo a colpire nel segno, assieme alle scuse che
porgiamo al lettore, si presenta una nuova occasione per riaffermarlo.
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Fine
dell’anno civile senza troppe vicende degne di nota, dopo 365 giorni
trascorsi nel nostro paese all’insegna di quella che è divenuta la
parola più ricorrente, «crisi», e in un Mediterraneo e un Medio Oriente
dove la cosiddetta «primavera araba» ha avviato processi di transizione
ben lontani dall’essersi risolti.
Claudio Vercelli
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