Voci a confronto

Fine dell’anno civile senza troppe vicende degne di nota, dopo 365 giorni trascorsi nel nostro paese all’insegna di quella che è divenuta la parola più ricorrente, «crisi», e in un Mediterraneo e un Medio Oriente dove la cosiddetta «primavera araba» ha avviato processi di transizione ben lontani dall’essersi risolti. In Egitto – laddove la stampa italiana è ben poco attenta a quanto succede, sia pure oggi con l’eccezione di Paolo Mastrolilli su la Stampa, quotidiano che dedica una riflessione a più voci sui fatti arabi – le seconda fase elettorale (le scandenze previste sono tre e si ultimeranno solo con il mese entrante) ha visto il consolidamento dei consensi espressi nei riguardi sia del partito Giustizia e Libertà, espressione della Fratellanza musulmana, che delle forze salafite. I gruppi laici ancora una volta hanno raccolto uno scarso numero di voti, scavalcati dal forte seguito che i gruppi a matrice islamista raccolgono nelle zone rurali e nei quartieri più poveri delle grandi città, nonché dalla scarsa credibilità politica, prodotto sia dell’insufficiente radicamento tra la popolazione sia della presenza nelle loro liste di uomini compromessi con il regime di Mubarak. Insomma, l’esito dei sommovimenti che stanno ancora attraversando i paesi arabi sembra essere connotato da due opzioni: l’ancoraggio temporaneo ad una precaria stabilizzazione conservatrice, che si manifesta con la vittoria nei processi elettorali di quelle forze che si rifanno, a vario titolo, all’islamismo (in Tunisia, Marocco e, per l’appunto, Egitto; prevedibilmente anche della Libia, se si votasse, e in quest’ultimo caso si veda l’articolo di Giovanni Cerruti, sempre su la Stampa), o la perduranza di una lunga fase di turbolenza e di instabilità (come nel caso della Siria, della quale si può leggere nella scheda di Claudio Gallo, ancora su la Stampa, dello Yemen e, in misura meno accentuata della Giordania e di altri paesi ancora). Nell’uno come nell’altro caso la fase apertasi con l’intervento americano e alleato in Afghanistan e in Iraq una decina d’anni fa non ha agevolato la nascita e la crescita di forze laiche, riconducibili, a vario titolo, a modelli politici e culturali capaci di interagire con l’Occidente. Peraltro la forza dei diversi fondamentalismi, da quello più tradizionalista dei Fratelli musulmani a quello ben più aggressivo e militante dei gruppi salafiti, si nutre della crisi della presenza occidentale, nel mentre nuovi interlocutori politici e futuri partner commeriali, come la Russia, la Cina, il Brasile ma anche le piccole potenze latinoamericane, avanzano la loro candidatura in sostituzione delle figure declinanti. Per un quadro d’insieme, che parte dall’Iran, si veda allora l’articolo di Antonio Picasso su Liberal. Non meno interessante è quanto riporta Maurizio Stefanini per Libero, ricordandoci che il re è nudo, ovvero che non pochi dei «combattenti per la libertà» in terra libica altri non sono che gruppi mercenari al soldo dei signori della guerra (finché questa c’è, motteggiava sarcasticamente qualcuno, sussiste una qualche speranza, ossia quella di fare soldi), in perenne trasferta da un fronte all’altro. Questa “mobilità” già la si era registrata, peraltro, nella guerra antisovietica in Afghanistan, tra il 1979 e il 1989, con le truppe dei mujaheddin e, a seguire, nelle infinite vicissitudini della guerre jugoslave negli anni Novanta. Giulio Meotti su il Foglio completa questo quadretto poco idilliaco, dove i ruoli e le funzioni risultano intercambiabili, riportandoci alla vicenda, non ancora conclusa, del criminale nazista Alois Brunner, l’ultimo dei grandi carnefici ricercati probabilmente ancora in vita, per il quale è arrivata a Damasco la richiesta di estradizione, formulata dalla magistratura tedesca. Sullo stato del Medio Oriente, risparmiandoci per una volta il prosieguo di analisi e disquisizioni geopolitiche, rinviamo alla lettura degli articoli di Roberta Zunini per il Fatto e del Foglio (con un azzeccato titolo su «botte da (urbi et) orbi»), dove si dà notizia dell’ennesima puntata della «guerra delle scope» (risoltasi in una serie di scazzottate tra chierici di rito apostolico armeno e greco ortodosso), che coinvolge la gestione dei luoghi sacri ai cristiani, in primis la Basilica della Natività di Betlemme e il Santo Sepolcro nella città vecchia di Gerusalemme. Siamo all’inverosimile e, soprattutto, all’indecoroso, ma certi scenari ci hanno abituato oramai da tempo alle immarcescibili manifestazioni della irosità umana. A tale riguardo, per rasserenarci sullo stato dei nostri portafogli (mischiando la sacertà di un match pugilistico tra preti e frati alla profanità del denaro) Stefano Carrer su il Sole 24 Ore ci informa debitamente che il prezzo del petrolio (e quindi quello della benzina, lievitato quest’ultimo a cifre mai raggiunte) è destinato a rimanere sopra i cento dollari a barile per l’anno entrante. Le minacce iraniane sullo stretto di Hormuz, delle quali ci dice Michele Pignatelli sempre su il Sole, e l’instabilità della regione peseranno di più di eventuali cali nella domanda. Sulla querelle relativa alle politiche pubbliche della memoria, che in queste ultime due settimane ha visto la Francia protagonista per via dell’approvazione della legge sulla perseguibilità penale della negazione del genocidio armeno, torna Mario Cervi su il Giornale, commentando la controversa natura del dispositivo legislativo e, soprattutto, l’opinabilità della sua ratio politica. Se Parigi val bene una messa, come soleva dire Enrico di Borbone (e si ripete Sarkozy, alla ricerca di voti purchessia), Ankara può tranquillamente costare una legge, frettolosamente votata da una cinquantina di distratti e imprecisi deputati dell’Assemblea nazionale. Meno prosaicamente, invece, Maurizio Ciampa per Liberal si interroga sul senso della memoria nell’età della «crisi», la parola dalla quale siamo partiti e con la quale chiudiamo questo rassegna stampa, la ultima del 2011.

Claudio Vercelli