L`ondata di progetti di
legge che sta innondando la Knesset rischia di far saltare la stessa
coalizione governativa, se non sarà modificata. Il Ministro
dell’Educazione Ghidon Saar ha criticato con forza il progetto di legge
per modificare la composizione della Commissione, formata dall’Ordine
degli Avvocati, per la nomina di nuovi giudici. La Knesset non deve
creare un precedente modificando nomine già avvenute nell’Ordine. Saar
chiede di rimandare il progetto ai Ministri poichè è importante salvare
le regole del gioco democratico. In ogni caso per le nomine dei giudici
dell’Alta Corte sono necessari i voti di sette su nove membri della
Commissione di nomina. Il deputato laburista Herzog ha messo in guardia
contro l’intenzione di bocciare le elezioni dell’Ordine dopo che queste
sono già avvenute. Aspettiamo con ansia che la mini crisi si risolva
per capire in che modo i partiti al Governo vogliono salvaguardare la
democrazia.
Sergio Minerbi, diplomatico
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Qui
Roma
- Dietro le
quinte con Mario Piazza
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Torna in scena questa sera
all'Auditorium della Conciliazione di Roma Lo Schiaccianoci di
Cajkovskji rivisitato in chiave contemporanea da Riccardo Reim con
coreografie di Mario Piazza. Lo spettacolo sarà nella Capitale fino a
sabato 7 gennaio. Nel ritratto di Rachel Silvera, le impressioni
seguite all'incontro con uno degli interpreti più estrosi,
creativi e tenaci del
moderno panorama artistico italiano.
Mani
affusolate che intrecciano delicatamente nastri di raso. Musica che si
spande in lontanananza e profuma di teatri viennesi con un pesante
sipario di velluto rosso. Una sbarra di legno che trasuda ore di
esercizio, bocca serrata, la tentazione di cedere e cadere a terra. Poi
arriva una enorme fata confetto, personaggio chiave dello
Schiaccianoci, che ci fa approdare in una dimensione magica e giocosa.
Mosse buffe, saltelli, faccia stizzita, un enorme copricapo a
punta. E tanti saluti alle eteree ballerine di Degas. Con
questa immagine si può riassumere il personaggio di Mario Piazza,
coreografo di fama internazionale che ha reinventato il modo di
concepire la danza. Per nulla impaurito da quell'aura di timore e
rispetto che questa disciplina esercita sui profani, come uno scultore
tenta di tirar fuori l'arte, modellando i corpi e calandoli in una
atmosfera onirica fatta di oggetti fuori misura e giocattoli incantati.
In tanti anni di lavoro non ha perso la dimensione fanciullesca che gli
permette di nutrirsi di immagini e di bellezza, di poter cogliere
l'amonia dei movimenti nei film di Fellini e di Totò. Gli fornisce un
appetito insaziabile di conoscenza, che lo porta a continuare a
studiare pur arrivato in cima al cursus honorum nel quale si ripartisce
la vita del ballerino. Incontrando Mario Piazza, lo sfondo comincia a
prendere un ritmo singolare, sembra quasi che i cucchiaini con i quali
si rigirano i caffè facciano piccole piroette e che i camerieri
avanzino con la leggiadria di Roberto Bolle. Perché tutto può diventare
altro, diventare arte.
Mario ci fa accomodare intorno a un tavolino dove per un'ora e mezzo ci
introduce nel suo mondo con una spontaneità e genuinità che raramente
ci si aspetta dalla temuta categoria dei coreografi. La sua è
una storia di passione, coraggio e indipendenza. "Sono andato via di
casa giovanissimo. Il mio impulso? Perseguire l'attitudine che fremeva
febbrilmente per uscire". Mario inizia con la strada del canto ma la
danza soppianta ogni altra priorità. "Mi sono presentato davanti alla
commissione della scuola – racconta – e nonostante la selezione ferrea,
nonostante alcuni ostacoli apparentemente insormontabili, li ho
convinti del fatto che avevano bisogno di me". Così partono i
titoli di testa di un sogno americano fatto di soddisfazione, cadute,
prime posizioni e tanti sacrifici nascosti, come solo un ballerino sa
fare, da un sorriso accennato. Così con qualche dollaro in tasca e una
valigia di sogni, Mario lascia il Canada e parte alla volta della città
che non dorme mai. A New York studia presso la Alvin Ailey School e la
Martha Graham School. è ospite di una anziana signora con la passione
per la danza. Apprende la nobile arte di arrangiarsi: “Avevo l'alloggio
e l'abbonamento alla metro, per il resto dovevo pensare a tutto io".
Nella luminosa Parigi si perfeziona invece con Peter Gross. Bisogna
puntare sempre al massimo, raggiungere il livello di professionisti.
Questo è ciò che il ballerino, orgoglioso ebreo romano (“sono un
giudio”), auspica per la comunità ebraica nella quale vede molti
talenti inespressi e che non si prendono abbastanza sul serio. "La
competitività è molto alta ma non deve scoraggiare" afferma convinto
con gli occhi ancora accesi sulle emozioni della notte della Cabala di
cui è stato uno dei grandi protagonisti. Se a ogni balletto Mario
lascia un pezzo del suo cuore, il pezzo più grande va sicuramente a
"Ghetto". Premiato dal Performing Arts dalla European Association for
Jewish Culture di Londra e rappresentato a Sofia, "Ghetto" è formato da
una successione di quadri che rappresentano i momenti salienti della
vita ebraica. Un mescolarsi di gioia e dolore. "Il dolore però si
avverte in ritardo – dice – un flash di un attimo che scompare con
l'avanzare del quadro successivo". Proprio questo è il tratto che il
coreografo predilige della filosofia tipicamente ebraica. Una vis che
aiuta nelle tante avversità, una incontenibile voglia di vivere che
permette di ridere dopo aver pianto e di rialzarsi dopo essere caduti,
come solo un fiero e dignitoso ballerino sa fare. La scelta di iniziare
dalla città di Sofia non è casuale. Si tratta infatti, spiega, di un
luogo “ricco di professionisti, ma non in luce quanto dovrebbe". La
platea ha accolto con commozione la storia di due innamorati che vivono
in un ghetto sospeso dallo spazio e dal tempo, quasi uno stato d'animo.
Il balletto purtroppo non ha ancora calcato i palchi italiani anche se
in molti vorrebbero vedere uno spettacolo sperimentale e del tutto
inedito come il suo. Ma Mario Piazza, parafrasando il titolo di un
libro della Bignardi, non ci lascerà orfani: a gennaio l'appuntamento è
all'Auditorium della Conciliazione per uno Schiaccianoci, dedicato al
nipotino Devid Jair, che continua a riempire le sale di spettatori che
non vogliono lasciarsi sfuggire una atmosfera rosea e incantata.
C'era chi da piccolo diceva di voler fare l'austronauta, chi si metteva
la cravatta del papà e annunciava che sarebbe diventato Donald Trump e
avrebbe avuto una stanza solo per i videogiochi. Poi chi indossava i
tacchi della mamma e affermava che avrebbe fatto la moglie casalinga
(non ce ne voglia Simone de Beauvoir) o impiastricciandosi il vestito
pulito credendo di essere la futura Artemisia Gentileschi. Ma in fondo
abbiamo sognato in tanti di essere danzatori, ballando alla faccia
delle nostre paure e insicurezze. Allora ecco che il tanto temuto mondo
diventa una battaglia con il Re Topo che termina in un meraviglioso
Valzer.
Rachel
Silvera, Pagine Ebraiche gennaio 2012
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Israele e il blocco
emotivo |
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Vorrei esprimere un paio di
parole di commento su questa breve annotazione pubblicata il 27
dicembre, sulla newsletter, da Dario Calimani: “Un amico di lunga
data
mi chiede, da Israele, perché l'ebraismo italiano veda le
cose israeliane in modo così monolitico, sempre sulla difensiva. La
cosa non dà di Israele una visione oggettiva e non lo aiuta a
riflettere su se stesso, anzi, lo lascia nel suo isolamento. Io
gli rispondo chiedendogli perché gli israeliani che la
pensano 'diversamente' non ci aiutino a chiarirci le idee esponendo
sulla nostra stampa la loro prospettiva, facendoci uscire dal nostro
isolamento e dal nostro blocco emotivo”.
La mia impressione, francamente, non coincide con quella riferita da
Calimani. I pareri su Israele, formulati nell’ambito dell’ebraismo
italiano, non mi paiono affatto monolitici, né mi sembra che siano
sempre improntati a una difesa acritica dell’operato dei vari governi
israeliani. Mi pare, anzi, che i giudizi critici abbondino, tanto da
essere, probabilmente, prevalenti rispetto a quelli di tipo
eminentemente difensivo. Né, d’altronde, mi sembra che gli israeliani
“che la pensano diversamente” non facciano sentire la loro voce. Anche
in questo caso, mi sembra, anzi, che accada esattamene il contrario,
nel senso che i nostri giornali ospitano con grande frequenza i
commenti di artisti e intellettuali israeliani, quasi sempre (ma metto
il ‘quasi’ per mero scrupolo) impostati su posizioni di dissenso,
spesso con toni fortemente polemici, rispetto alle politiche
governative. Si tratta, per carità, di commentatori di elevata statura,
le cui opinioni leggo sempre con la massima attenzione e il più grande
rispetto, ma non posso non notare un effetto deformante
sull’informazione determinato da una scelta dei commenti così
orientata, giacché il lettore comune è inevitabilmente spinto a farsi
l’idea di un governo israeliano sempre nel torto. Se lo dicono tutti i
migliori intellettuali del Paese, non può non essere vero. Niente di
grave, d’accordo: sempre meglio delle critiche intelligenti piuttosto
che degli apprezzamenti sciocchi.
Quanto all’atteggiamento difensivo, io credo che, in tutto il mondo,
tra ebrei e gentili, amici e nemici di Israele o gente del tutto
indifferente alle sue sorti, non ci sia nessuno che possa negare che
Israele corra dei pericoli. Di apprestare una difesa contro questi
pericoli, ovviamente, i nemici e gli indifferenti non si prendono cura,
mentre gli amici, giustamente preoccupati, si dividono sostanzialmente
in due grandi gruppi. Al primo si possono ascrivere quelli che
ritengono che i pericoli abbiano un’origine essenzialmente ‘esterna’,
per cui Israele (possibilmente, con a fianco i propri amici) dovrebbe
soprattutto impegnarsi, appunto, a difendersi, sul piano politico,
diplomatico e, purtroppo, militare. Al secondo gruppo appartengono
invece coloro che reputano che almeno buona parte dei problemi derivi
da errori, passati o presenti, fatti proprio dai governanti israeliani,
per cui sarebbe opportuna e necessaria una correzione di rotta, in modo
da determinare delle modifiche positive sul territorio. Personalmente,
mi iscriverei al primo gruppo, ma, sia chiaro, unicamente nel senso che
non credo affatto che possano essere eventuali miglioramenti di
condotta da parte di Israele a determinare un cambiamento di posizione
dei suoi avversari: gli atti di prevaricazione e intolleranza, da parte
di alcuni esponenti del mondo ortodosso, recentemente denunciati, per
esempio, sono certamente gravi, da condannare e, per il futuro,
prevenire. Ma nessun nemico di Israele lo è per questo motivo, o
cesserà di esserlo per un più corretto comportamento dei religiosi o
delle autorità israeliane.
Se, poi, l’opinione pubblica ebraica nella diaspora appare,
complessivamente, più “filoisraeliana” di quella interna a Israele, ciò
è facilmente spiegabile. Israele è una forte e vivace democrazia, ed è
giusto e naturale che l’operato del governo sia costantemente posto
sotto pressione dal severo giudizio della cittadinanza. Ma questo è un
compito che spetta, appunto, ai suoi cittadini, non ad altri.
Pienamente da sottoscrivere, sul punto, mi sembra l’invito formulato da
Amos Oz, e raccolto dall’Ambasciatore Gideon Meir, nell’intervista di
commiato apparsa sul numero di dicembre di Pagine Ebraiche: “Vorrei
fare mio questo appello a chi sente il bisogno di commentare le scelte
e i problemi di Israele nei dettagli: venite in Israele, fate sentire
la vostra opinione in Israele, e non da lontano”.
Francesco
Lucrezi, storico
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rassegna
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Gerusalemme
- Il governo israeliano investe sul mondo delle Università
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110 milioni di shekel (circa 22 milioni di euro). E' la cifra stanziata
dal governo israeliano per favorire lo sviluppo delle istituzioni
accademiche a Gerusalemme. L'idea è di rafforzare e incrementare,
attraverso un investimento spalmato in cinque anni, il ruolo delle
università e delle accademie nel centro della Capitale con la
realizzazione, ad esempio, di campus per studenti. La prima ad aderire
al progetto governativo è stata la prestigiosa Accademia d'Arte
Bezalel, spostatasi dal Monte Scopus alla sede originaria, situata in
una zona più centrale.
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Si è svolto ad Amman il primo
incontro "ufficiale" tra palestinesi ed israeliani dal settembre 2010
(senza considerare gli incontri "clandestini" dei quali ha parlato il
presidente Peres) e, nonostante le tre ore e mezza di colloqui i
risultati sembrano essere scarsi. Chiarissima la dichiarazione che
questo incontro "non significa la ripresa dei negoziati". (...)
Emanuel
Segre Amar
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