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4 gennaio 2012 - 9 Tevet 5772
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David Sciunnach,
rabbino


“Ed andarono anche i fratelli e si buttarono dinnanzi a lui e dissero: Ecco noi siamo tuoi schiavi ...” (Bereshìth  50, 18). Il grande commentatore italiano Rabbì Moshè David Valle, conosciuto con il suo acronimo come Ramdù, di cui proprio ieri ricorreva l’anniversario della morte avvenuta nel 1777, commenta questo verso dicendo: Ecco che Yosèf capì che questa grande umiliazione era per il loro timore verso di lui e per paura del Giudizio Divino, per ciò che avevano fatto vendendolo come schiavo. Quindi Yosèf li tranquillizzò immediatamente che non gli sarebbe accaduto nulla né da parte sua  né da parte divina. Dicendo loro nel verso successivo “Yosèf disse loro: non temete sono forse io al posto del Signore?…”.
 
 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
Ho letto con grande interesse l'intervento di Guido Vitale apparso sul notiziario di ieri ("Chi ha sbagliato paghi, ma la modestia è un valore") e vi ho trovato molti elementi di verità, anche a partire da vicende personali recentemente capitatemi. Comprendo del resto anche le ragioni espresse da Anna Foa in questa rubrica lo scorso lunedì. Si tratta di uno spunto di riflessione importante su cui sarebbe bene aprire un dibattito serio nell'ambito di un mondo ebraico italiano poco abituato a confrontarsi sui problemi reali. Proprio perché le parole del direttore hanno toccato il mio animo, devo però confessare anche un certo senso di disagio. Se anche dalla parte degli ebrei ortodossi ci sono buoni argomenti da far valere, avrei forse preferito che un messaggio del genere provenisse dai rabbini italiani, da cui, ma sarà senz'altro colpa mia, ho raramente (più corretto sarebbe dire mai) ascoltato argomenti che fondassero eticamente le scelte comportamentali ebraiche. Così facendo si rischia di alimentare l'immagine di un rabbinato che sembra il primo a non credere nel proprio ruolo.


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Crisi di governo e salvaguardia della democrazia
Sergio MinerbiL`ondata di progetti di legge che sta innondando la Knesset rischia di far saltare la stessa coalizione governativa, se non sarà modificata. Il Ministro dell’Educazione Ghidon Saar ha criticato con forza il progetto di legge per modificare la composizione della Commissione, formata dall’Ordine degli Avvocati, per la nomina di nuovi giudici. La Knesset non deve creare un precedente modificando nomine già avvenute nell’Ordine. Saar chiede di rimandare il progetto ai Ministri poichè è importante salvare le regole del gioco democratico. In ogni caso per le nomine dei giudici dell’Alta Corte sono necessari i voti di sette su nove membri della Commissione di nomina. Il deputato laburista Herzog ha messo in guardia contro l’intenzione di bocciare le elezioni dell’Ordine dopo che queste sono già avvenute. Aspettiamo con ansia che la mini crisi si risolva per capire in che modo i partiti al Governo vogliono salvaguardare la democrazia.

Sergio Minerbi, diplomatico

Qui Roma - Dietro le quinte con Mario Piazza
SchiaccianociTorna in scena questa sera all'Auditorium della Conciliazione di Roma Lo Schiaccianoci di Cajkovskji rivisitato in chiave contemporanea da Riccardo Reim con coreografie di Mario Piazza. Lo spettacolo sarà nella Capitale fino a sabato 7 gennaio. Nel ritratto di Rachel Silvera, le impressioni seguite all'incontro con uno degli interpreti più estrosi, creativi e tenaci del moderno panorama artistico italiano.


Mario PiazzaMani affusolate che intrecciano delicatamente nastri di raso. Musica che si spande in lontanananza e profuma di teatri viennesi con un pesante sipario di velluto rosso. Una sbarra di legno che trasuda ore di esercizio, bocca serrata, la tentazione di cedere e cadere a terra. Poi arriva una enorme fata confetto, personaggio chiave dello Schiaccianoci, che ci fa approdare in una dimensione magica e giocosa. Mosse buffe, saltelli, faccia stizzita, un enorme copricapo a punta.  E tanti saluti alle eteree ballerine di Degas. Con questa immagine si può riassumere il personaggio di Mario Piazza, coreografo di fama internazionale che ha reinventato il modo di concepire la danza. Per nulla impaurito da quell'aura di timore e rispetto che questa disciplina esercita sui profani, come uno scultore tenta di tirar fuori l'arte, modellando i corpi e calandoli in una atmosfera onirica fatta di oggetti fuori misura e giocattoli incantati. In tanti anni di lavoro non ha perso la dimensione fanciullesca che gli permette di nutrirsi di immagini e di bellezza, di poter cogliere l'amonia dei movimenti nei film di Fellini e di Totò. Gli fornisce un appetito insaziabile di conoscenza, che lo porta a continuare a studiare pur arrivato in cima al cursus honorum nel quale si ripartisce la vita del ballerino. Incontrando Mario Piazza, lo sfondo comincia a prendere un ritmo singolare, sembra quasi che i cucchiaini con i quali si rigirano i caffè facciano piccole piroette e che i camerieri avanzino con la leggiadria di Roberto Bolle. Perché tutto può diventare altro, diventare arte.
Mario ci fa accomodare intorno a un tavolino dove per un'ora e mezzo ci introduce nel suo mondo con una spontaneità e genuinità che raramente ci si aspetta dalla temuta categoria dei coreografi.  La sua è una storia di passione, coraggio e indipendenza. "Sono andato via di casa giovanissimo. Il mio impulso? Perseguire l'attitudine che fremeva febbrilmente per uscire". Mario inizia con la strada del canto ma la danza soppianta ogni altra priorità. "Mi sono presentato davanti alla commissione della scuola – racconta – e nonostante la selezione ferrea, nonostante alcuni ostacoli apparentemente insormontabili, li ho convinti del fatto che avevano bisogno di me".  Così partono i titoli di testa di un sogno americano fatto di soddisfazione, cadute, prime posizioni e tanti sacrifici nascosti, come solo un ballerino sa fare, da un sorriso accennato. Così con qualche dollaro in tasca e una valigia di sogni, Mario lascia il Canada e parte alla volta della città che non dorme mai. A New York studia presso la Alvin Ailey School e la Martha Graham School. è ospite di una anziana signora con la passione per la danza. Apprende la nobile arte di arrangiarsi: “Avevo l'alloggio e l'abbonamento alla metro, per il resto dovevo pensare a tutto io". Nella luminosa Parigi si perfeziona invece con Peter Gross. Bisogna puntare sempre al massimo, raggiungere il livello di professionisti. Questo è ciò che il ballerino, orgoglioso ebreo romano (“sono un giudio”), auspica per la comunità ebraica nella quale vede molti talenti inespressi e che non si prendono abbastanza sul serio. "La competitività è molto alta ma non deve scoraggiare" afferma convinto con gli occhi ancora accesi sulle emozioni della notte della Cabala di cui è stato uno dei grandi protagonisti. Se a ogni balletto Mario lascia un pezzo del suo cuore, il pezzo più grande va sicuramente a "Ghetto". Premiato dal Performing Arts dalla European Association for Jewish Culture di Londra e rappresentato a Sofia, "Ghetto" è formato da una successione di quadri che rappresentano i momenti salienti della vita ebraica. Un mescolarsi di gioia e dolore. "Il dolore però si avverte in ritardo – dice – un flash di un attimo che scompare con l'avanzare del quadro successivo". Proprio questo è il tratto che il coreografo predilige della filosofia tipicamente ebraica. Una vis che aiuta nelle tante avversità, una incontenibile voglia di vivere che permette di ridere dopo aver pianto e di rialzarsi dopo essere caduti, come solo un fiero e dignitoso ballerino sa fare. La scelta di iniziare dalla città di Sofia non è casuale. Si tratta infatti, spiega, di un luogo “ricco di professionisti, ma non in luce quanto dovrebbe". La platea ha accolto con commozione la storia di due innamorati che vivono in un ghetto sospeso dallo spazio e dal tempo, quasi uno stato d'animo. Il balletto purtroppo non ha ancora calcato i palchi italiani anche se in molti vorrebbero vedere uno spettacolo sperimentale e del tutto inedito come il suo. Ma Mario Piazza, parafrasando il titolo di un libro della Bignardi, non ci lascerà orfani: a gennaio l'appuntamento è all'Auditorium della Conciliazione per uno Schiaccianoci, dedicato al nipotino Devid Jair, che continua a riempire le sale di spettatori che non vogliono lasciarsi sfuggire una atmosfera rosea e incantata.
C'era chi da piccolo diceva di voler fare l'austronauta, chi si metteva la cravatta del papà e annunciava che sarebbe diventato Donald Trump e avrebbe avuto una stanza solo per i videogiochi. Poi chi indossava i tacchi della mamma e affermava che avrebbe fatto la moglie casalinga (non ce ne voglia Simone de Beauvoir) o impiastricciandosi il vestito pulito credendo di essere la futura Artemisia Gentileschi. Ma in fondo abbiamo sognato in tanti di essere danzatori, ballando alla faccia delle nostre paure e insicurezze. Allora ecco che il tanto temuto mondo diventa una battaglia con il Re Topo che termina in un meraviglioso Valzer.

Rachel Silvera, Pagine Ebraiche gennaio 2012

pilpul
Israele e il blocco emotivo
Francesco LucreziVorrei esprimere un paio di parole di commento su questa breve annotazione pubblicata il 27 dicembre, sulla newsletter, da Dario Calimani: “Un amico di lunga data mi chiede, da Israele, perché l'ebraismo italiano  veda le cose israeliane in modo così monolitico, sempre sulla difensiva. La cosa non dà di Israele una visione oggettiva e non lo aiuta a riflettere su se stesso, anzi, lo lascia nel suo isolamento. Io gli  rispondo chiedendogli perché gli israeliani che la pensano 'diversamente' non ci aiutino a chiarirci le idee esponendo sulla nostra stampa la loro prospettiva, facendoci uscire dal nostro isolamento e dal nostro blocco emotivo”.
La mia impressione, francamente, non coincide con quella riferita da Calimani. I pareri su Israele, formulati nell’ambito dell’ebraismo italiano, non mi paiono affatto monolitici, né mi sembra che siano sempre improntati a una difesa acritica dell’operato dei vari governi israeliani. Mi pare, anzi, che i giudizi critici abbondino, tanto da essere, probabilmente, prevalenti rispetto a quelli di tipo eminentemente difensivo. Né, d’altronde, mi sembra che gli israeliani “che la pensano diversamente” non facciano sentire la loro voce. Anche in questo caso, mi sembra, anzi, che accada esattamene il contrario, nel senso che i nostri giornali ospitano con grande frequenza i commenti di artisti e intellettuali israeliani, quasi sempre (ma metto il ‘quasi’ per mero scrupolo) impostati su posizioni di dissenso, spesso con toni fortemente polemici, rispetto alle politiche governative. Si tratta, per carità, di commentatori di elevata statura, le cui opinioni leggo sempre con la massima attenzione e il più grande rispetto, ma non posso non notare un effetto deformante sull’informazione determinato da una scelta dei commenti così orientata, giacché il lettore comune è inevitabilmente spinto a farsi l’idea di un governo israeliano sempre nel torto. Se lo dicono tutti i migliori intellettuali del Paese, non può non essere vero. Niente di grave, d’accordo: sempre meglio delle critiche intelligenti piuttosto che degli apprezzamenti sciocchi.
Quanto all’atteggiamento difensivo, io credo che, in tutto il mondo, tra ebrei e gentili, amici e nemici di Israele o gente del tutto indifferente alle sue sorti, non ci sia nessuno che possa negare che Israele corra dei pericoli. Di apprestare una difesa contro questi pericoli, ovviamente, i nemici e gli indifferenti non si prendono cura, mentre gli amici, giustamente preoccupati, si dividono sostanzialmente in due grandi gruppi. Al primo si possono ascrivere quelli che ritengono che i pericoli abbiano un’origine essenzialmente ‘esterna’, per cui Israele (possibilmente, con a fianco i propri amici) dovrebbe soprattutto impegnarsi, appunto, a difendersi, sul piano politico, diplomatico e, purtroppo, militare. Al secondo gruppo appartengono invece coloro che reputano che almeno buona parte dei problemi derivi da errori, passati o presenti, fatti proprio dai governanti israeliani, per cui sarebbe opportuna e necessaria una correzione di rotta, in modo da determinare delle modifiche positive sul territorio. Personalmente, mi iscriverei al primo gruppo, ma, sia chiaro, unicamente nel senso che non credo affatto che possano essere eventuali miglioramenti di condotta da parte di Israele a determinare un cambiamento di posizione dei suoi avversari: gli atti di prevaricazione e intolleranza, da parte di alcuni esponenti del mondo ortodosso, recentemente denunciati, per esempio, sono certamente gravi, da condannare e, per il futuro, prevenire. Ma nessun nemico di Israele lo è per questo motivo, o cesserà di esserlo per un più corretto comportamento dei religiosi o delle autorità israeliane.
Se, poi, l’opinione pubblica ebraica nella diaspora appare, complessivamente, più “filoisraeliana” di quella interna a Israele, ciò è facilmente spiegabile. Israele è una forte e vivace democrazia, ed è giusto e naturale che l’operato del governo sia costantemente posto sotto pressione dal severo giudizio della cittadinanza. Ma questo è un compito che spetta, appunto, ai suoi cittadini, non ad altri. Pienamente da sottoscrivere, sul punto, mi sembra l’invito formulato da Amos Oz, e raccolto dall’Ambasciatore Gideon Meir, nell’intervista di commiato apparsa sul numero di dicembre di Pagine Ebraiche: “Vorrei fare mio questo appello a chi sente il bisogno di commentare le scelte e i problemi di Israele nei dettagli: venite in Israele, fate sentire la vostra opinione in Israele, e non da lontano”.

Francesco Lucrezi, storico

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notizieflash   rassegna stampa
Gerusalemme - Il governo israeliano investe sul mondo delle Università
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110 milioni di shekel (circa 22 milioni di euro). E' la cifra stanziata dal governo israeliano per favorire lo sviluppo delle istituzioni accademiche a Gerusalemme. L'idea è di rafforzare e incrementare, attraverso un investimento spalmato in cinque anni, il ruolo delle università e delle accademie nel centro della Capitale con la realizzazione, ad esempio, di campus per studenti. La prima ad aderire al progetto governativo è stata la prestigiosa Accademia d'Arte Bezalel, spostatasi dal Monte Scopus alla sede originaria, situata in una zona più centrale.
 

Si è svolto ad Amman il primo incontro "ufficiale" tra palestinesi ed israeliani dal settembre 2010 (senza considerare gli incontri "clandestini" dei quali ha parlato il presidente Peres) e, nonostante le tre ore e mezza di colloqui i risultati sembrano essere scarsi. Chiarissima la dichiarazione che questo incontro "non significa la ripresa dei negoziati". (...)

Emanuel Segre Amar










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