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1 febbraio
2012 - 8 Shevat 5772 |
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David Sciunnach,
rabbino
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Nella
nostra Parashà è scritta la Shirat ha-yam – la cantica del mare. La
Torà sottolinea la differenza tra la cantica degli uomini e quella
delle donne, facendoci notare che quella delle donne era molto più
allegra. Poiché è scritto: (Shemòt 15, 20) “ … e tutte le donne la
seguirono con tamburelli e danze”. Il Midrash (Shemoth Rabbà) ci
racconta che anche gli angeli erano desiderosi di elevare una cantica a
Dio. Ma il Signore li fermò fino a che i figli d’Israele non ebbero
finito. Secondo un’opinione del Midrash questi avrebbero potuto
iniziare la loro cantica solo dopo che le donne avessero finito. Ed è
per questo che è scritto: “Vattà’an lahem Miriam – Miriam faceva loro
ripetere …”. “Lahem” e non “Lahen” con un termine maschile e non
femminile per indicare: “A loro gli angeli, e non a loro le donne”,
“Shiru la-Hashèm – cantate ad Hashèm”.
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Davide
Assael,
ricercatore
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Spesso
l’Occidente sembra operare un’azione di imperialismo simbolico,
riducendo la simbolica di altre civiltà al proprio sistema valoriale. È
ciò che, ad esempio, la cultura cristiana ha fatto con la Torah e che
assume dimensioni ancor più evidenti nel confronto con culture al di
fuori del recinto occidentale, come ben ci insegnano gli antropologi.
Un pregiudizio che può avere conseguenze non minori anche sul piano
politico, rischiando di fraintendere il significato di determinate
azioni. Mi pare sia ciò che è successo con tutte le rivoluzioni (se il
termine è corretto) osservate in questi anni: da quella arancione in
Ucraina, a quella dei cedri in Libano, fino a quelle arabe dell’ultimo
anno. In tutti questi casi si è sprecata la retorica occidentale della
libertà, dando per scontato che il fine di tutte queste sommosse fosse
l’affermazione dei diritti individuali. Si dice che W. Bush avesse sul
comodino il celebre libro di Nathan Sharansky, Il vantaggio della
democrazia, dal quale estraeva la tesi che il fine dell’uomo in quanto
tale fosse la libertà. Bastava dunque togliere di mezzo il dittatore e
tutti i popoli si sarebbero adeguati a questo ideale superiore. Le cose
sono poi andate un po’ diversamente. Forse erano ben altre le sfide che
avremmo dovuto affrontare dopo l’11 settembre. E sono ancora lì che
aspettano.
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“Memoria come coscienza della Storia”
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Fra
le tante affermazioni, i tanti spunti di riflessione che ci ha lasciato
questo giorno della Memoria, sono numerosi, come ha ricordato Anna Foa
nell'aleftav di qualche giorno fa, gli elementi vivi che ci restano non
sono pochi. Perché la Memoria autentica, come ricorda uno dei massimi
studiosi della Shoah Georges Bensoussan nell'intervista su Pagine
Ebraiche attualmente in distribuzione, è materia viva e non rito.
Proprio in questa intervista Bensoussan tocca con coraggio i temi
scottanti della Memoria viva. Nelle sue risposte sottolinea i
gravissimi rischi di rendere la Memoria e i luoghi di memoria
componenti di una religione civile. Indica il pericolo di assecondare
la falsata immagine di un popolo vittima predestinata. Demolisce il
velenoso luogo comune secondo cui la creazione dello Stato di Israele
sarebbe una conseguenza della Shoah. Riafferma i valori del sionismo
come ideale anticolonialista. Spiega come e perché la Shoah sia una
tragedia non sovrapponibile ad altre nel corso della storia, come
l'antisemitismo non possa essere confuso con una qualunque forma di
razzismo. Accusa l'Islam radicale di preparare nuovi genocidi. Lancia
un segnale di speranza sugli esiti ancora molto incerti di una guerra
civile interna al mondo islamico fra chi vuole opporsi al terrore e
alla sopraffazione e chi vuole prevalere con il terrore e la
sopraffazione. Non è possibile e non è necessario che le sue idee
facciano l'unanimità, ma vale sicuramente la pena di ascoltarlo con
attenzione.
Si fa presto a ripetere la parola
Memoria. Scritta, scolpita, insegnata, negata, riaffermata; risuona
sulla bocca di tutti, ma ognuno vi attribuisce significati e sfumature
differenti. Storico dall’immensa autorevolezza e contemporaneamente
lontano dalle strettoie dell’accademia, Georges Bensoussan ha dedicato
alla ridefinizione della Memoria gli studi fondamentali di questi
ultimi anni. Sua e di altri colleghi coraggiosi l’affermazione che la
Memoria ebraica in ogni caso non può essere ridotta a rito. Sua la
strenua difesa delle ragioni di Israele e la confutazione chiara della
pericolosa interpretazione che l’esistenza di uno Stato ebraico sarebbe
giustificata unicamente con l’avvenimento della Shoah. Sua l’apertura
di nuove prospettive di didattica e di ricerca lontane dalla meccanica
ripetizione e attenta a rafforzare gli strumenti interpretativi. Eccoci
ancora, professore, agli ultimi giorni di gennaio. L’appuntamento con
il Giorno della Memoria cosa significa per uno studioso che alla
Memoria si dedica ogni giorno dell’anno? La Memoria della
Shoah è oggi di fronte a molte sfide e a molte minacce. I
fraintendimenti non si contano e così le strumentalizzazioni. Quali sono le piste da seguire? I
rischi che ci stanno davanti vanno ben al di là delle grottesche
attività dei negazionisti che cercano di cancellare le tracce di
un’evidenza storica. Assistiamo a una banalizzazione della Memoria, a
un culto della Memoria, alla costituzione, soprattutto in Europa, di
una religione civile. E a gravissimi, minacciosi fraintendimenti
riguardo all’identità e alla legittimità di Israele. Cominciamo a sgombrare il campo da questo ultimo punto. Che relazione corre fra Israele e la Memoria della Shoah? Bisogna
fare tutto il possibile per smontare il mito velenoso di una
interdipendenza fra la legittimità dello Stato di Israele e la Shoah.
Lo Stato di Israele è nato da un movimento politico di liberazione
sociale e nazionale, la ferita della Shoah non ne ha né giustificato,
né tanto meno favorito la creazione. Non è possibile capire il sionismo
e non è possibile capire la Memoria se non si fa chiarezza su questo
punto. Che cosa intende quando parla di religione civile dell’Europa? Stiamo
assistendo a una preoccupante avanzata del culto della Memoria e di un
culto dei luoghi della Memoria. Il rischio è la costituzione di una
religione civile in cui l’Europa, in una stagione cupa si rinchiuda,
una stagione dove si respira la perdita di fiducia nei confronti del
presente e l’incapacità di progettare l’avvenire. Il passato diviene un
rifugio del pensiero e ritorna in quanto struttura museale dove portare
al riparo i nostri sentimenti. In questa regressione la Memoria,
infine, diviene impropriamente un fatto religioso e un dovere. Ammettiamo che la Memoria non possa essere una religione, ma perché non dovrebbe costituire un dovere civile? Questo
processo rappresenta una pericolosissima regressione. Ci si immerge
nella storia prescindendo dalla funzione della ricerca che porta
all’analisi del futuro, si prescinde da una conoscenza della realtà
ebraica. Si afferma infine un dovere, ma la memoria non può essere un
dovere, perché è in effetti una funzione naturale. Se fosse ridotta a
un processo artificiale, finirebbe allora per costituire la prova
dell’oblio. Immagino quello che sta per dire... Proprio
così, se vissuto in modo fisso e ritualistico, se circoscritto in una
specifica occasione segnata sul calendario, il Giorno della Memoria
rischia di divenire la migliore maniera di dimenticare. Quali altri rischi vede all’orizzonte? Il
rischio di costituire uno stimolo alla trasgressione, perché la
religione civile, in quanto nuovo conformismo, suscita automaticamente
in alcuni il desiderio di farsi notare, di dimostrarsi a poco prezzo
fuori norma. Cosa può essere fatto, insegnato, per recuperare il significato autentico? Cominciamo
a chiarire che la Shoah non coinvolge in primo luogo la concezione di
essere ebrei, ma riguarda soprattutto un ragionamento sulla condizione
umana di tutti gli esseri umani. La Shoah non è “un” massacro, ma la
trasgressione assoluta della regola umana. Equivale a un’irradiazione
atomica, a una contaminazione irreparabile dell’animo umano. La Shoah
non è una dose di odio e distruzione, è un fenomeno che va ben al di là
di questo. Auschwitz non è il luogo da cui dovrebbe ripartire la lotta al razzismo? L’antisemitismo non è esattamente una forma di razzismo e Auschwitz non può essere il simbolo autentico della Shoah. E quale sarebbe questo simbolo autentico? Soprattutto
Treblinka, il prototipo organizzativo del campo di sterminio, il luogo
univoco dove solo la morte senza alcuna altra possibile, remota,
eventuale soluzione, neppure, per pochi privilegiati, la prigionia e il
lavoro forzato, poteva essere praticata. Lì l’antisemitismo ha
raggiunto la sua coerenza, poiché gli esseri umani vi venivamo
eliminati come fossero dei rifiuti. Ma l’antisemitismo è il prototipo di tutti i razzismi... Il
razzismo è un’odiosa ingiustizia, una concezione gerarchica della vita
che tende ad affermare la supremazia dei più prepotenti, l’asservimento
di altre categorie ritenute inferiori. L’antisemitismo è qualcosa di
diverso. Al di là della superficie, agli occhi dell’antisemita l’ebreo
non è un essere inferiore, qualcuno che deve essere asservito,
piuttosto costituisce un’entità da negare alla radice, da eliminare.
Sappiamo anzi bene che in un certo senso nella mente dell’antisemita
l’ebreo costituisce un’entità superinfluente, superpotente,
superintelligente. In un certo senso una sorta di superuomo pericoloso
e quindi da eliminare. Qui c’è ben di più dell’odio, del generico
desiderio di distruzione. L’antisemita in realtà non predica
l’asservimento degli ebrei, ma la loro distruzione. Per questo mi
sembra molto ipocrita e molto buffo, prima ancora che inesatto, parlare
di “antisemitismo moderato”. L’antisemitismo, al di là delle maschere,
non può contenere alcuna moderazione. La logica paranoide
dell’antisemita, la subcultura che vede complotti dappertutto, la
logica del “noi o loro”, non porta a qualche forma di razzismo, ma
direttamente allo sterminio. Cosa altro dobbiamo cercare, allora... Se
possiamo tenere da un canto i ragionamenti di comodo, cominciamo con
ammettere che l’antisemitismo è profondamente radicato nelle religioni
monoteiste... Lei vuole affermare
che studiare la Shoah non può ridursi a una tranquillizzante
distribuzione di responsabilità, all’identificazione di buoni da
salvare e di cattivi da neutralizzare... Stiamo trattando
evidentemente di una materia molto pericolosa. La Shoah non è una
storia di vittime e di carnefici, così come la si potrebbe intendere
nella comune semplificazione. La storia del popolo ebraico non può
essere ridotta all’icona del popolo vittima per eccellenza. E non solo
perché questo non corrisponde alla realtà storica. Ma anche perché
costituire l’immagine delle vittime per eccellenza significa preparare
nuovi stermini. Lei è uno dei massimi esperti di didattica della Shoah. Cosa dovrebbe essere insegnato, e come? E’
soprattutto molto importante lavorare sulla formazione degli
insegnanti. Far comprendere loro che la Shoah non è la storia di una
persecuzione come un’altra. Non sta nelle pagine commoventi di Anna
Frank, non si può risolvere limitandosi a predicare la pietà e la
tolleranza. Ma con la volontà di studiare la Storia. Torniamo a Israele. E’ per questi motivi che lei ritiene importante scindere chiaramente le vicende del sionismo e la Shoah? Il
sionismo non ha in alcun modo beneficiato della Shoah, ma al contrario,
ne è stato la prima vittima. I sionisti sono stati i primi a capire che
gli ebrei non devono preoccuparsi esclusivamente di essere amati, ma
prima ancora devono preoccuparsi di vivere, di essere se stessi, di
testimoniare della propria esistenza e dei propri valori. Che cos’è davvero, allora, il sionismo? Un movimento di decolonizzazione. Un movimento di liberazione delle intelligenze e dei destini politici e nazionali. La
Memoria della Shoah deve occuparsi di conoscere un capitolo della
storia umana o di prevenire un rischio sempre in agguato? Il nazismo
può tornare? E’ troppo comodo archiviare i nazisti e i
fascisti come mostri del passato, come un brutto sogno ormai svanito.
In quanto individui non erano dotati di poteri sovrannaturali o di
caratteristiche che li rendessero radicalmente diversi da tanti altri
comuni esseri umani. La loro negazione della vita e la loro carica
distruttiva può ripetersi. Ed è questo che dobbiamo combattere. Cosa, chi può rappresentare un nuovo nazismo? L’islamismo
militante, con la sua intolleranza nei confronti della varietà umana,
il suo irrispetto per le donne, il suo delirio purificatore, la sua
attesa della fine dei tempi. Mi sembra che costituisca un buono spunto. Lei pensa a Ahmadinejad? No,
penso a casa nostra. Di ritorno da un viaggio ad Auschwitz uno studente
francese di religione islamica ha scritto una bellissima poesia che ha
vinto il primo premio di un importante concorso. Al momento della
premiazione ufficiale, quando si è trattato di proclamarla in pubblico,
ha però dovuto rinunciare. La poesia conteneva una parola che non
poteva da lui essere pronunciata in pubblico. La parola “ebreo”. Le primavere arabe annunciano nuovi orrori? E’
una tragica eventualità, non un destino. Nel mondo islamico è in corso
una guerra civile e le primavere costituiscono un fenomeno
contraddittorio, ma non necessariamente negativo. C’è spazio per la
speranza e per l’impegno. C’è motivo di essere vigili, ma anche
ottimisti. E il dovere degli ebrei è quello di vivere la propria vita e
di testimoniare il proprio impegno senza lasciarsi piegare dal
pessimismo e dalla disperazione.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, febbraio 2012
(nell'immagine Georges Bensoussan disegno di Giorgio Albertini)
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Qui Roma - Tra memoria e responsabilità
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Si
chiude tra i ragazzi del liceo scientifico Isacco Newton, nell'aula
magna della sezione di via Manzoni, la densa settimana di impegni
legata alla Memoria che ha visto protagonista l’Unione Giovani Ebrei
d’Italia. “Mai dimenticherò, tra memoria e responsabilità” il titolo
dell'incontro, organizzato in collaborazione con il Forum Nazionale
Giovani e con la partecipazione di studenti non solo del Newton ma
anche dal classico Pilo Albertelli e dal liceo ebraico Renzo Levi. Ad
aprire la tavola rotonda i saluti di Raffaele Naim, responsabile
relazioni esterne Ugei e del preside Mario Rusconi. Protagonisti della
tavola rotonda il presidente Ugei Daniele Regard, Gianluca Melillo del
Forum Nazionale Giovani, il blogger di Metilparaben Alessandro
Capriccioli e il presidente dell’Associazione Romà Onlus Graziano
Halilovic. Moderatore, il consigliere Ugei Benedetta Rubin. Numerose le
domande dal pubblico – sulla Shoah, sul razzismo oggi in Italia e
nel mondo, su Israele – che hanno sollecitato l’intervento dei relatori. “Sono
stati giorni molto intensi che ci hanno visto impegnati con grande
successo sia a Roma che a Milano. Il lavoro di quest’anno – spiega
Regard, tracciando un bilancio dell’esperienza – è stato rivolto
soprattutto ai giovani, ai ragazzi delle scuole, a quelle nuove
generazioni che sono chiamate a prendere il testimone della Memoria e
alle quali dobbiamo quindi prioritariamente rivolgerci”. “L’invito che
faccio a voi ragazzi – aveva affermato in precedenza Naim – è di non
avere mai paura di esprimere la vostra opinione e di non considerare la
vostra diversità un problema. Le diversità sono ciò che ci rende unici
e autentici. Le sfumature, in un mondo che tende a volerci tutti
uguali, le cose più belle”.
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Qui Venezia - "Ritorno a scuola"
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La
storia della scuola ebraica di Venezia e le vicende umane dei bambini e
delle maestre sono oggi raccontate nel libro-catalogo “Ritorno a scuola”
l’educazione dei bambini e dei ragazzi ebrei a Venezia tra leggi
razziali e dopoguerra, opera curata da Laura Voghera Luzzatto, Maria
Teresa Sega e Renata Segre, presentato ieri nella sala Montefiore della
Comunità Ebraica di Venezia alla presenza del presidente della Comunità
Ebraica di Venezia, Amos Luzzatto, dell’assessore comunale alle
Politiche educative, Andrea Ferrazzi e delle maestre Lia e Alba Finzi. Tra
il pubblico in sala anche una delegazione di studenti del Liceo
Raimondo Franchetti di Mestre, vincitori della decima edizione del
concorso nazionale I giovani ricordano la Shoah, che nel corso
dell'anno scolastico, hanno approfondito attraverso una serie di
incontri seminariali con insegnanti ed esperti, aspetti storici e
metodologici legati alla storia della Shoah e dell'educazione in
Italia: dalle presunte basi biologiche delle leggi razziali
all'interpretazione psicologica del disegno infantile. Gli stessi
studenti sono poi diventate le guide della mostra allestita presso il
Franchetti in occasione della Giornata della Memoria 2012, riguardante
proprio l'educazione dei bambini e dei ragazzi ebrei a Venezia tra
leggi razziali e dopoguerra. Il volume racconta attraverso
disegni, immagini e parole le storie di coloro, che, ancora bambini,
furono emarginati, cacciati dalle scuole pubbliche in seguito alla
promulgazione delle leggi razziali negli anni Trenta: un excursus
storico che dal 1938 al 1943 racconta le espulsione, l’istituzione
della Scuola ebraica e il ritorno a scuola dopo la fine della guerra. La
Scuola ebraica di Venezia riprese a funzionare in Ghetto vecchio a
poche settimane dalla Liberazione, in una situazione di grave
difficoltà: gli ebrei veneziani sopravvissuti alla Shoah erano appena
usciti da un anno e mezzo di clandestinità, segnata da privazioni e
persecuzioni, che aveva lasciato in loro un forte sentimento di
diffidenza. La Comunità ebraica affrontò da subito il problema di
raccogliere i bambini privati della loro infanzia, che avevano vissuto
nascosti, spesso lontani dai genitori, senza poter frequentare la
scuola, fornendo loro, oltre a un pasto caldo, il recupero degli anni
scolastici perduti. L'attività didattica e creativa dei bambini
della Scuola, funzionante fino alla fine degli anni Cinquanta, è
testimoniata in questo libro da fotografie, quaderni, disegni e
giornalini realizzati dagli alunni e conservati dalle maestre Alba
Finzi e Lia Finzi, che vi hanno insegnato tra il 1946 e il 1953. Alba
e Lia Finzi espulse da scuola in applicazione delle Leggi razziali
hanno frequentato le scuole ebraiche veneziane negli anni Trenta e
Quaranta. II 1 dicembre 1943, per sfuggire alla deportazione, fuggirono
in Svizzera col padre; la madre, cattolica, rimasta a Venezia perché
non in grado di affrontare il viaggio, morì pochi giorni dopo.
Rientrate a Venezia nel 1945, Alba si iscrissero alla facoltà di
medicina di Padova mentre Lia, più giovane di cinque anni, scelse
l'indirizzo magistrale. Entrambe insegneranno nel dopoguerra alla
scuola ebraica, con passione e dedizione, salvando le sorti educative
di quei bambini che anche nel dopoguerra erano costretti a diffidare
della società in cui vivevano, la stessa società che solo pochi anni
prima gli avrebbe voluti cancellare dalla coscienza.
Michael Calimani
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Giorno della Memoria - Tempo di bilanci |
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Trarre
un consuntivo delle avvenute celebrazioni del Giorno della Memoria è
senz’altro difficile. Complessivamente, sembra di poter dire che la
partecipazione generale all’evento, in tutta Italia, è stata altamente
diffusa e, almeno apparentemente, sinceramente sentita, da parte della
cittadinanza, delle Istituzioni, dei docenti, e, soprattutto, di
tantissimi giovani, che, con la loro attiva presenza, hanno
rappresentato un forte segnale di fiducia nel il futuro. Le note
sgradevoli, ovviamente, non sono mancate (interpretazioni della Shoah
in senso riduttivo, banalizzante, fuorviante, se non peggio), ma, a
quel che si può constatare, si è trattato di fenomeni alquanto
minoritari, non in grado di alterare il chiaro significato corale delle
celebrazioni. Si è riproposta, naturalmente, la delicata
questione del ‘come’ ricordare, della possibilità data alla parola
umana di rendere testimonianza, di fronte a un evento che, per la sua
assoluta radicalità, si pone al di là di ogni possibilità di racconto,
di espressione, di rappresentazione. E particolarmente significativo,
da questo punto di vista, mi pare essere stato l’apporto dato dalla
musica, che, in diverse occasioni e località, è stata utilizzata per
sollecitare, fra i presenti alle celebrazioni, un momento di intimo
raccoglimento. Della perdurante attualità della famosa frase di
Teodoro Adorno, secondo cui, con la Shoah, sarebbe venuta meno la
possibilità di fare poesia, già si è detto. La parola, certamente,
continuerà a essere pronunciata. Ma sarà sempre accompagnata, d’ora
innanzi, da una parola muta, dalla “non parola” dei sommersi, che siamo
chiamati a ricordare e a commemorare. Nel loro silenzio, col nostro
silenzio. Può la musica assolvere a questo compito? Marguerite
Yourcenar, nel suo Alexis, scrive che il compito della musica sarebbe
appunto quello di esprimere il mistero del silenzio. E André Neher
spiega che il silenzio non è un vuoto, una mancanza, ma può essere uno
spazio denso di suoni, di voci. Le voci degli scomparsi, certo. Ma
anche la voce di chi, vissuto dopo, non si vuole arrendere al male,
all’assurdo, e vuole continuare a testimoniare, nonostante tutto, la
propria fiducia nella vita. Esprimere questa fede, questa speranza, con
le parole, non è facile. Noi adulti, almeno, non ci riusciamo. Ci si
può provare, forse, con la musica, da sempre chiamata, come spiega
Vladimir Jankélevitch, a esprimere l’ineffabile. E, forse, i ragazzi,
più degli adulti, possono cimentarsi con questo compito impossibile e
doveroso. Particolarmente commoventi, da questo punto di
vista, due manifestazioni svolte in provincia di Napoli, nelle quali la
testimonianza della memoria è stata affidata alle note eseguite, con
grande maestria, da alcuni giovanissimi esecutori, che hanno commosso i
numerosi ascoltatori, strappando loro anche, letteralmente, delle
lacrime. La prima si è svolta il 25 gennaio presso la Sala Teatro del
Liceo Musicale Margherita di Savoia di Napoli, dove, prima e dopo una
conferenza tenuta dallo scrittore israeliano Nir Baram, un gruppo di
allievi del Liceo e di alcune scuole medie, di età compresa tra i 12 e
i 15 anni, guidati dalla violinista Angela Amato Yael, ha eseguito una
serie di brani di tradizione ebraica. La seconda ha avuto luogo il 27
gennaio, presso il Liceo Antonio Gramsci di Miliscola, Bacoli, dove a
tenere una lezione sulla memoria non è stato chiamato un austero
professore, ma il violinista ebreo quindicenne, italo-croato, David
Glavaš, che, dopo avere parlato della tragedia del suo popolo, ha
eseguito, col consueto talento, alcuni brani musicali. I giovani,
si sa, tendono spesso a respingere, o a guardare con diffidenza, le
lezioni dei ‘grandi’. Come scrisse Shakespeare, corrono dagli
innamorati con la stessa velocità con cui fuggono dai libri. Ma, se
diffidano delle parole degli adulti, ascoltano con attenzione quelle
dei loro coetanei. Specie quando, in forma di note musicali, toccano
direttamente le corde del loro cuore. Credo che questi giovani
musicisti abbiano dato un tributo alla memoria e un messaggio di
speranza superiori a quelli che sarebbero venuti da cento conferenze
accademiche. Di ciò, non possiamo che ringraziali, sperando che ci
lascino almeno un po’ del loro coraggio e del loro ottimismo.
Francesco
Lucrezi, storico
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Israele e Cipro, nuovi accordi
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Israele
e Cipro hanno firmato due nuovi accordi che prevedono la cooperazione
degli Stati nei settori della difesa e dello scambio di informazioni.I
nuovi accordi permetteranno
ai due Paesi di portare avanti, congiuntamente,
i progetti sulle trivellazioni avviate qualche mese fa, in condizioni di maggiore sicurezza.
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Il
Giorno della Memoria è appena passato, ma merita ancora tutta la nostra
attenzione l'articolo di Bernard Henry Levy che riporta sul Corriere
quanto è avvenuto a Vienna lo scorso 27 gennaio.
Emanuel Segre Amar
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