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1 febbraio 2012 - 8 Shevat 5772
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sciunnach
David Sciunnach,
rabbino


Nella nostra Parashà è scritta la Shirat ha-yam – la cantica del mare. La Torà sottolinea la differenza tra la cantica degli uomini e quella delle donne, facendoci notare che quella delle donne era molto più allegra. Poiché è scritto: (Shemòt 15, 20) “ … e tutte le donne la seguirono con tamburelli e danze”. Il Midrash (Shemoth Rabbà) ci racconta che anche gli angeli erano desiderosi di elevare una cantica a Dio. Ma il Signore li fermò fino a che i figli d’Israele non ebbero finito. Secondo un’opinione del Midrash questi avrebbero potuto iniziare la loro cantica solo dopo che le donne avessero finito. Ed è per questo che è scritto: “Vattà’an lahem Miriam – Miriam faceva loro ripetere …”. “Lahem” e non “Lahen” con un termine maschile e non femminile per indicare: “A loro gli angeli, e non a loro le donne”, “Shiru la-Hashèm –  cantate ad Hashèm”. 

 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
Spesso l’Occidente sembra operare un’azione di imperialismo simbolico, riducendo la simbolica di altre civiltà al proprio sistema valoriale. È ciò che, ad esempio, la cultura cristiana ha fatto con la Torah e che assume dimensioni ancor più evidenti nel confronto con culture al di fuori del recinto occidentale, come ben ci insegnano gli antropologi. Un pregiudizio che può avere conseguenze non minori anche sul piano politico, rischiando di fraintendere il significato di determinate azioni. Mi pare sia ciò che è successo con tutte le rivoluzioni (se il termine è corretto) osservate in questi anni: da quella arancione in Ucraina, a quella dei cedri in Libano, fino a quelle arabe dell’ultimo anno. In tutti questi casi si è sprecata la retorica occidentale della libertà, dando per scontato che il fine di tutte queste sommosse fosse l’affermazione dei diritti individuali. Si dice che W. Bush avesse sul comodino il celebre libro di Nathan Sharansky, Il vantaggio della democrazia, dal quale estraeva la tesi che il fine dell’uomo in quanto tale fosse la libertà. Bastava dunque togliere di mezzo il dittatore e tutti i popoli si sarebbero adeguati a questo ideale superiore. Le cose sono poi andate un po’ diversamente. Forse erano ben altre le sfide che avremmo dovuto affrontare dopo l’11 settembre. E sono ancora lì che aspettano.

davar
“Memoria come coscienza della Storia”
Fra le tante affermazioni, i tanti spunti di riflessione che ci ha lasciato questo giorno della Memoria, sono numerosi, come ha ricordato Anna Foa nell'aleftav di qualche giorno fa, gli elementi vivi che ci restano non sono pochi. Perché la Memoria autentica, come ricorda uno dei massimi studiosi della Shoah Georges Bensoussan  nell'intervista su Pagine Ebraiche attualmente in distribuzione, è materia viva e non rito. Proprio in questa intervista Bensoussan tocca con coraggio i temi scottanti della Memoria viva. Nelle sue risposte sottolinea i gravissimi rischi di rendere la Memoria e i luoghi di memoria componenti di una religione civile. Indica il pericolo di assecondare la falsata immagine di un popolo vittima predestinata. Demolisce il velenoso luogo comune secondo cui la creazione dello Stato di Israele sarebbe una conseguenza della Shoah. Riafferma i valori del sionismo come ideale anticolonialista. Spiega come e perché la Shoah sia una tragedia non sovrapponibile ad altre nel corso della storia, come l'antisemitismo non possa essere confuso con una qualunque forma di razzismo. Accusa l'Islam radicale di preparare nuovi genocidi. Lancia un segnale di speranza sugli esiti ancora molto incerti di una guerra civile interna al mondo islamico fra chi vuole opporsi al terrore e alla sopraffazione e chi vuole prevalere con il terrore e la sopraffazione. Non è possibile e non è necessario che le sue idee facciano l'unanimità, ma vale sicuramente la pena di ascoltarlo con attenzione.

Si fa presto a ripetere la parola Memoria. Scritta, scolpita, insegnata, negata, riaffermata; risuona sulla bocca di tutti, ma ognuno vi attribuisce significati e sfumature differenti. Storico dall’immensa autorevolezza e contemporaneamente lontano dalle strettoie dell’accademia, Georges Bensoussan ha dedicato alla ridefinizione della Memoria gli studi fondamentali di questi ultimi anni. Sua e di altri colleghi coraggiosi l’affermazione che la Memoria ebraica in ogni caso non può essere ridotta a rito. Sua la strenua difesa delle ragioni di Israele e la confutazione chiara della pericolosa interpretazione che l’esistenza di uno Stato ebraico sarebbe giustificata unicamente con l’avvenimento della Shoah. Sua l’apertura di nuove prospettive di didattica e di ricerca lontane dalla meccanica ripetizione e attenta a rafforzare gli strumenti interpretativi.
Eccoci ancora, professore, agli ultimi giorni di gennaio. L’appuntamento con il Giorno della Memoria cosa significa per uno studioso che alla Memoria si dedica ogni giorno dell’anno?
La Memoria della Shoah è oggi di fronte a molte sfide e a molte minacce. I fraintendimenti non si contano e così le strumentalizzazioni.
Quali sono le piste da seguire?
I rischi che ci stanno davanti vanno ben al di là delle grottesche attività dei negazionisti che cercano di cancellare le tracce di un’evidenza storica. Assistiamo a una banalizzazione della Memoria, a un culto della Memoria, alla costituzione, soprattutto in Europa, di una religione civile. E a gravissimi, minacciosi fraintendimenti riguardo all’identità e alla legittimità di Israele.
Cominciamo a sgombrare il campo da questo ultimo punto. Che relazione corre fra Israele e la Memoria della Shoah?
Bisogna fare tutto il possibile per smontare il mito velenoso di una interdipendenza fra la legittimità dello Stato di Israele e la Shoah. Lo Stato di Israele è nato da un movimento politico di liberazione sociale e nazionale, la ferita della Shoah non ne ha né giustificato, né tanto meno favorito la creazione. Non è possibile capire il sionismo e non è possibile capire la Memoria se non si fa chiarezza su questo punto.
Che cosa intende quando parla di religione civile dell’Europa?
Stiamo assistendo a una preoccupante avanzata del culto della Memoria e di un culto dei luoghi della Memoria. Il rischio è la costituzione di una religione civile in cui l’Europa, in una stagione cupa si rinchiuda, una stagione dove si respira la perdita di fiducia nei confronti del presente e l’incapacità di progettare l’avvenire. Il passato diviene un rifugio del pensiero e ritorna in quanto struttura museale dove portare al riparo i nostri sentimenti. In questa regressione la Memoria, infine, diviene impropriamente un fatto religioso e un dovere.
Ammettiamo che la Memoria non possa essere una religione, ma perché non dovrebbe costituire un dovere civile?
Questo processo rappresenta una pericolosissima regressione. Ci si immerge nella storia prescindendo dalla funzione della ricerca che porta all’analisi del futuro, si prescinde da una conoscenza della realtà ebraica. Si afferma infine un dovere, ma la memoria non può essere un dovere, perché è in effetti una funzione naturale. Se fosse ridotta a un processo artificiale, finirebbe allora per costituire la prova dell’oblio.
Immagino quello che sta per dire...
Proprio così, se vissuto in modo fisso e ritualistico, se circoscritto in una specifica occasione segnata sul calendario, il Giorno della Memoria rischia di divenire la migliore maniera di dimenticare.
Quali altri rischi vede all’orizzonte?
Il rischio di costituire uno stimolo alla trasgressione, perché la religione civile, in quanto nuovo conformismo, suscita automaticamente in alcuni il desiderio di farsi notare, di dimostrarsi a poco prezzo fuori norma.
Cosa può essere fatto, insegnato, per recuperare il significato autentico?
Cominciamo a chiarire che la Shoah non coinvolge in primo luogo la concezione di essere ebrei, ma riguarda soprattutto un ragionamento sulla condizione umana di tutti gli esseri umani. La Shoah non è “un” massacro, ma la trasgressione assoluta della regola umana. Equivale a un’irradiazione atomica, a una contaminazione irreparabile dell’animo umano. La Shoah non è una dose di odio e distruzione, è un fenomeno che va ben al di là di questo.
Auschwitz non è il luogo da cui dovrebbe ripartire la lotta al razzismo?
L’antisemitismo non è esattamente una forma di razzismo e Auschwitz non può essere il simbolo autentico della Shoah.
E quale sarebbe questo simbolo autentico?
Soprattutto Treblinka, il prototipo organizzativo del campo di sterminio, il luogo univoco dove solo la morte senza alcuna altra possibile, remota, eventuale soluzione, neppure, per pochi privilegiati, la prigionia e il lavoro forzato, poteva essere praticata. Lì l’antisemitismo ha raggiunto la sua coerenza, poiché gli esseri umani vi venivamo eliminati come fossero dei rifiuti.
Ma l’antisemitismo è il prototipo di tutti i razzismi...
Il razzismo è un’odiosa ingiustizia, una concezione gerarchica della vita che tende ad affermare la supremazia dei più prepotenti, l’asservimento di altre categorie ritenute inferiori. L’antisemitismo è qualcosa di diverso. Al di là della superficie, agli occhi dell’antisemita l’ebreo non è un essere inferiore, qualcuno che deve essere asservito, piuttosto costituisce un’entità da negare alla radice, da eliminare. Sappiamo anzi bene che in un certo senso nella mente dell’antisemita l’ebreo costituisce un’entità superinfluente, superpotente, superintelligente. In un certo senso una sorta di superuomo pericoloso e quindi da eliminare. Qui c’è ben di più dell’odio, del generico desiderio di distruzione. L’antisemita in realtà non predica l’asservimento degli ebrei, ma la loro distruzione. Per questo mi sembra molto ipocrita e molto buffo, prima ancora che inesatto, parlare di “antisemitismo moderato”. L’antisemitismo, al di là delle maschere, non può contenere alcuna moderazione. La logica paranoide dell’antisemita, la subcultura che vede complotti dappertutto, la logica del “noi o loro”, non porta a qualche forma di razzismo, ma direttamente allo sterminio.
Cosa altro dobbiamo cercare, allora...
Se possiamo tenere da un canto i ragionamenti di comodo, cominciamo con ammettere che l’antisemitismo è profondamente radicato nelle religioni monoteiste...
Lei vuole affermare che studiare la Shoah non può ridursi a una tranquillizzante distribuzione di responsabilità, all’identificazione di buoni da salvare e di cattivi da neutralizzare...
Stiamo trattando evidentemente di una materia molto pericolosa. La Shoah non è una storia di vittime e di carnefici, così come la si potrebbe intendere nella comune semplificazione. La storia del popolo ebraico non può essere ridotta all’icona del popolo vittima per eccellenza. E non solo perché questo non corrisponde alla realtà storica. Ma anche perché costituire l’immagine delle vittime per eccellenza significa preparare nuovi stermini.
Lei è uno dei massimi esperti di didattica della Shoah. Cosa dovrebbe essere insegnato, e come?
E’ soprattutto molto importante lavorare sulla formazione degli insegnanti. Far comprendere loro che la Shoah non è la storia di una persecuzione come un’altra. Non sta nelle pagine commoventi di Anna Frank, non si può risolvere limitandosi a predicare la pietà e la tolleranza. Ma con la volontà di studiare la Storia.
Torniamo a Israele. E’ per questi motivi che lei ritiene importante scindere chiaramente le vicende del sionismo e la Shoah?
Il sionismo non ha in alcun modo beneficiato della Shoah, ma al contrario, ne è stato la prima vittima. I sionisti sono stati i primi a capire che gli ebrei non devono preoccuparsi esclusivamente di essere amati, ma prima ancora devono preoccuparsi di vivere, di essere se stessi, di testimoniare della propria esistenza e dei propri valori.
Che cos’è davvero, allora, il sionismo?
Un movimento di decolonizzazione. Un movimento di liberazione delle intelligenze e dei destini politici e nazionali.
La Memoria della Shoah deve occuparsi di conoscere un capitolo della storia umana o di prevenire un rischio sempre in agguato? Il nazismo può tornare?
E’ troppo comodo archiviare i nazisti e i fascisti come mostri del passato, come un brutto sogno ormai svanito. In quanto individui non erano dotati di poteri sovrannaturali o di caratteristiche che li rendessero radicalmente diversi da tanti altri comuni esseri umani. La loro negazione della vita e la loro carica distruttiva può ripetersi. Ed è questo che dobbiamo combattere.
Cosa, chi può rappresentare un nuovo nazismo?
L’islamismo militante, con la sua intolleranza nei confronti della varietà umana, il suo irrispetto per le donne, il suo delirio purificatore, la sua attesa della fine dei tempi. Mi sembra che costituisca un buono spunto.
Lei pensa a Ahmadinejad?
No, penso a casa nostra. Di ritorno da un viaggio ad Auschwitz uno studente francese di religione islamica ha scritto una bellissima poesia che ha vinto il primo premio di un importante concorso. Al momento della premiazione ufficiale, quando si è trattato di proclamarla in pubblico, ha però dovuto rinunciare. La poesia conteneva una parola che non poteva da lui essere pronunciata in pubblico. La parola “ebreo”.
Le primavere arabe annunciano nuovi orrori?
E’ una tragica eventualità, non un destino. Nel mondo islamico è in corso una guerra civile e le primavere costituiscono un fenomeno contraddittorio, ma non necessariamente negativo. C’è spazio per la speranza e per l’impegno. C’è motivo di essere vigili, ma anche ottimisti. E il dovere degli ebrei è quello di vivere la propria vita e di testimoniare il proprio impegno senza lasciarsi piegare dal pessimismo e dalla disperazione.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche, febbraio 2012

(nell'immagine Georges Bensoussan disegno di Giorgio Albertini)

Qui Roma - Tra memoria e responsabilità
Si chiude tra i ragazzi del liceo scientifico Isacco Newton, nell'aula magna della sezione di via Manzoni, la densa settimana di impegni legata alla Memoria che ha visto protagonista l’Unione Giovani Ebrei d’Italia. “Mai dimenticherò, tra memoria e responsabilità” il titolo dell'incontro, organizzato in collaborazione con il Forum Nazionale Giovani e con la partecipazione di studenti non solo del Newton ma anche dal classico Pilo Albertelli e dal liceo ebraico Renzo Levi. Ad aprire la tavola rotonda i saluti di Raffaele Naim, responsabile relazioni esterne Ugei e del preside Mario Rusconi. Protagonisti della tavola rotonda il presidente Ugei Daniele Regard, Gianluca Melillo del Forum Nazionale Giovani, il blogger di Metilparaben Alessandro Capriccioli e il presidente dell’Associazione Romà Onlus Graziano Halilovic. Moderatore, il consigliere Ugei Benedetta Rubin. Numerose le domande dal pubblico –  sulla Shoah, sul razzismo oggi in Italia e nel mondo, su Israele – che hanno sollecitato l’intervento dei relatori.
“Sono stati giorni molto intensi che ci hanno visto impegnati con grande successo sia a Roma che a Milano. Il lavoro di quest’anno – spiega Regard, tracciando un bilancio dell’esperienza –  è stato rivolto soprattutto ai giovani, ai ragazzi delle scuole, a quelle nuove generazioni che sono chiamate a prendere il testimone della Memoria e alle quali dobbiamo quindi prioritariamente rivolgerci”. “L’invito che faccio a voi ragazzi – aveva affermato in precedenza Naim – è di non avere mai paura di esprimere la vostra opinione e di non considerare la vostra diversità un problema. Le diversità sono ciò che ci rende unici e autentici. Le sfumature, in un mondo che tende a volerci tutti uguali, le cose più belle”.

Qui Venezia - "Ritorno a scuola"
La storia della scuola ebraica di Venezia e le vicende umane dei bambini e delle maestre sono oggi raccontate nel libro-catalogo “Ritorno a scuola” l’educazione dei bambini e dei ragazzi ebrei a Venezia tra leggi razziali e dopoguerra, opera curata da Laura Voghera Luzzatto, Maria Teresa Sega e Renata Segre, presentato ieri nella sala Montefiore della Comunità Ebraica di Venezia alla presenza del presidente della Comunità Ebraica di Venezia, Amos Luzzatto, dell’assessore comunale alle Politiche educative, Andrea Ferrazzi e delle maestre Lia e Alba Finzi.
Tra il pubblico in sala anche una delegazione di studenti del Liceo Raimondo Franchetti di Mestre, vincitori della decima edizione del concorso nazionale I giovani ricordano la Shoah, che nel corso dell'anno scolastico, hanno approfondito attraverso una serie di incontri seminariali con insegnanti ed esperti, aspetti storici e metodologici legati alla storia della Shoah e dell'educazione in Italia: dalle presunte basi biologiche delle leggi razziali all'interpretazione psicologica del disegno infantile. Gli stessi studenti sono poi diventate le guide della mostra allestita presso il Franchetti in occasione della Giornata della Memoria 2012, riguardante proprio l'educazione dei bambini e dei ragazzi ebrei a Venezia tra leggi razziali e dopoguerra.
Il volume racconta attraverso disegni, immagini e parole le storie di coloro, che, ancora bambini, furono emarginati, cacciati dalle scuole pubbliche in seguito alla promulgazione delle leggi razziali negli anni Trenta: un excursus storico che dal 1938 al 1943 racconta le espulsione, l’istituzione della Scuola ebraica e il ritorno a scuola dopo la fine della guerra.
La Scuola ebraica di Venezia riprese a funzionare in Ghetto vecchio a poche settimane dalla Liberazione, in una situazione di grave difficoltà: gli ebrei veneziani sopravvissuti alla Shoah erano appena usciti da un anno e mezzo di clandestinità, segnata da privazioni e persecuzioni, che aveva lasciato in loro un forte sentimento di diffidenza. La Comunità ebraica affrontò da subito il problema di raccogliere i bambini privati della loro infanzia, che avevano vissuto nascosti, spesso lontani dai genitori, senza poter frequentare la scuola, fornendo loro, oltre a un pasto caldo, il recupero degli anni scolastici perduti.
L'attività didattica e creativa dei bambini della Scuola, funzionante fino alla fine degli anni Cinquanta, è testimoniata in questo libro da fotografie, quaderni, disegni e giornalini realizzati dagli alunni e conservati dalle maestre Alba Finzi e Lia Finzi, che vi hanno insegnato tra il 1946 e il 1953.
Alba e Lia Finzi espulse da scuola in applicazione delle Leggi razziali hanno frequentato le scuole ebraiche veneziane negli anni Trenta e Quaranta. II 1 dicembre 1943, per sfuggire alla deportazione, fuggirono in Svizzera col padre; la madre, cattolica, rimasta a Venezia perché non in grado di affrontare il viaggio, morì pochi giorni dopo. Rientrate a Venezia nel 1945, Alba si iscrissero alla facoltà di medicina di Padova mentre Lia, più giovane di cinque anni, scelse l'indirizzo magistrale. Entrambe insegneranno nel dopoguerra alla scuola ebraica, con passione e dedizione, salvando le sorti educative di quei bambini che anche nel dopoguerra erano costretti a diffidare della società in cui vivevano, la stessa società che solo pochi anni prima gli avrebbe voluti cancellare dalla coscienza.

Michael Calimani

pilpul
Giorno della Memoria - Tempo di bilanci
Francesco LucreziTrarre un consuntivo delle avvenute celebrazioni del Giorno della Memoria è senz’altro difficile. Complessivamente, sembra di poter dire che la partecipazione generale all’evento, in tutta Italia, è stata altamente diffusa e, almeno apparentemente, sinceramente sentita, da parte della cittadinanza, delle Istituzioni, dei docenti, e, soprattutto, di tantissimi giovani, che, con la loro attiva presenza, hanno rappresentato un forte segnale di fiducia nel il futuro. Le note sgradevoli, ovviamente, non sono mancate (interpretazioni della Shoah in senso riduttivo, banalizzante, fuorviante, se non peggio), ma, a quel che si può constatare, si è trattato di fenomeni alquanto minoritari, non in grado di alterare il chiaro significato corale delle celebrazioni.
Si è riproposta, naturalmente, la delicata questione del ‘come’ ricordare, della possibilità data alla parola umana di rendere testimonianza, di fronte a un evento che, per la sua assoluta radicalità, si pone al di là di ogni possibilità di racconto, di espressione, di rappresentazione. E particolarmente significativo, da questo punto di vista, mi pare essere stato l’apporto dato dalla musica, che, in diverse occasioni e località, è stata utilizzata per sollecitare, fra i presenti alle celebrazioni, un momento di intimo raccoglimento.
Della perdurante attualità della famosa frase di Teodoro Adorno, secondo cui, con la Shoah, sarebbe venuta meno la possibilità di fare poesia, già si è detto. La parola, certamente, continuerà a essere pronunciata. Ma sarà sempre accompagnata, d’ora innanzi, da una parola muta, dalla “non parola” dei sommersi, che siamo chiamati a ricordare e a commemorare. Nel loro silenzio, col nostro silenzio. Può la musica assolvere a questo compito? Marguerite Yourcenar, nel suo Alexis, scrive che il compito della musica sarebbe appunto quello di esprimere il mistero del silenzio. E André Neher spiega che il silenzio non è un vuoto, una mancanza, ma può essere uno spazio denso di suoni, di voci. Le voci degli scomparsi, certo. Ma anche la voce di chi, vissuto dopo, non si vuole arrendere al male, all’assurdo, e vuole continuare a testimoniare, nonostante tutto, la propria fiducia nella vita. Esprimere questa fede, questa speranza, con le parole, non è facile. Noi adulti, almeno, non ci riusciamo. Ci si può provare, forse, con la musica, da sempre chiamata, come spiega Vladimir Jankélevitch, a esprimere l’ineffabile. E, forse, i ragazzi, più degli adulti, possono cimentarsi con questo compito impossibile e doveroso. 
Particolarmente commoventi, da questo punto di vista, due manifestazioni svolte in provincia di Napoli, nelle quali la testimonianza della memoria è stata affidata alle note eseguite, con grande maestria, da alcuni giovanissimi esecutori, che hanno commosso i numerosi ascoltatori, strappando loro anche, letteralmente, delle lacrime. La prima si è svolta il 25 gennaio presso la Sala Teatro del Liceo Musicale Margherita di Savoia di Napoli, dove, prima e dopo una conferenza tenuta dallo scrittore israeliano Nir Baram, un gruppo di allievi del Liceo e di alcune scuole medie, di età compresa tra i 12 e i 15 anni, guidati dalla violinista Angela Amato Yael, ha eseguito una serie di brani di tradizione ebraica. La seconda ha avuto luogo il 27 gennaio, presso il Liceo Antonio Gramsci di Miliscola, Bacoli, dove a tenere una lezione sulla memoria non è stato chiamato un austero professore, ma il violinista ebreo quindicenne, italo-croato, David Glavaš, che, dopo avere parlato della tragedia del suo popolo, ha eseguito, col consueto talento, alcuni brani musicali.
I giovani, si sa, tendono spesso a respingere, o a guardare con diffidenza, le lezioni dei ‘grandi’. Come scrisse Shakespeare, corrono dagli innamorati con la stessa velocità con cui fuggono dai libri. Ma, se diffidano delle parole degli adulti, ascoltano con attenzione quelle dei loro coetanei. Specie quando, in forma di note musicali, toccano direttamente le corde del loro cuore. Credo che questi giovani musicisti abbiano dato un tributo alla memoria e un messaggio di speranza superiori a quelli che sarebbero venuti da cento conferenze accademiche. Di ciò, non possiamo che ringraziali, sperando che ci lascino almeno un po’ del loro coraggio e del loro ottimismo.

Francesco Lucrezi, storico

notizieflash   rassegna stampa
Israele e Cipro, nuovi accordi
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Israele e Cipro hanno firmato due nuovi accordi che prevedono la cooperazione degli Stati nei settori della difesa e dello scambio di informazioni.I nuovi accordi permetteranno ai due Paesi di portare avanti, congiuntamente,
i progetti sulle trivellazioni avviate qualche mese fa, in condizioni di maggiore sicurezza.

 

Il Giorno della Memoria è appena passato, ma merita ancora tutta la nostra attenzione l'articolo di Bernard Henry Levy che riporta sul Corriere quanto è avvenuto a Vienna lo scorso 27 gennaio.

Emanuel Segre Amar












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