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19 febbraio 2012 - 26 Shevat 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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"Una voce proclama" (Isaia 40,3) dallo scintillante palcoscenico
dell'Ariston di Sanremo. Ma chi la vuole sentire?
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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“Longevità” (Bollati
Boringhieri) è un libro di Umberto Veronesi uscito pochi giorni fa in
cui fa un elogio della vecchiaia e in cui sostiene che una delle
condizioni di una vecchiaia felice è avere curiosità e voler stupirsi e
sorprendersi. Un messaggio morale e civile indispensabile e un invito
rivolto, più che ai vecchi affinché si vivano diversamente, a tutti gli
altri perché modifichino radicalmente il proprio rapporto con gli
anziani, prima percepiti come un peso e ora, in conseguenza della
crisi, come detentori di un reddito, con il rischio, nemmeno tanto
lontano o velato, di percepirli come “non persone”.
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Qui Mantova - Fabio Norsa (1946-2012)
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Su quel binario unico di
un'Italia incapace di correre, i treni che portano a Mantova non si
lasciano prendere dalla fretta. Quando la città si è fatta finalmente
vicina, al di là dell'ultimo bastione delle mura ducali le acque scure
del Mincio sembravano avvolgere tutto di un manto inviolabile.
L'inverno era appena cominciato, quando, dopo qualche colloquio
preliminare, ci siamo ritrovati in città. Era buio ormai e con quella
sua strana cavalleria che allora non riuscivo a capire, stava lì, nel
suo loden lungo, ad attendermi sulla piazza della stazione. Mi sono a
lungo domandato perché fare tanta strada, cosa ci si potesse attendere
da una città fieramente marginale, da una Comunità piccola e
sonnacchiosa. Forse fu la mia passione per le cause difficili, forse il
suo orgoglio di essere un ebreo mantovano, un orgoglio che avrei più
tardi ritrovato in tanti mantovani sparsi per il mondo. Forse
emergevano invece le possibilità di una Comunità piccola nei numeri, ma
straordinaria nelle potenzialità. Quella sera ho pensato che la sua
voglia di fare doveva trovare una risposta. A Roma la Rassegna stampa
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, quello strumento di
vigilanza, di conoscenza e di documentazione che oggi appare
insostituibile a molti ebrei italiani, e soprattutto a molti studiosi e
giornalisti, muoveva allora i suoi primi passi. Gli enti locali
mantovani offrivano disponibilità e attenzione, guardando alla Comunità
presieduta da Fabio, alla sinagoga che sempre più spesso riapriva le
proprie porte, alla crescita della Fondazione benefica Franchetti, che
sotto le cure di Fabio stava moltiplicando le possibilità di aiutare i
giovani concittadini negli studi, alle attività della associazione
Mantova ebraica. Ma molti in città mostravano anche inquietudine e
preoccupazione di fronte alla sfida di convivere nelle province
lombarde venate di intolleranza e incapacità di integrazione, fra
popolazioni diverse. Non ci volle molto per vedere che Fabio aveva
dietro alle spalle amici straordinari e accanto collaboratori preziosi
(primi fra tutti la storica Maria Bacchi e la giurista Angelica
Bertellini). Ma soprattutto che aveva attorno la sua città. La chiamata
a raccolta di tanti esponenti delle culture e delle etnie minoritarie
locali (a cominciare dalle organizzazioni dei Rom e dei Sinti,
dall'Istituto mantovano di storia, dalle rappresentanze di molte altre
minoranze religiose, culturali, sociali e sessuali) e l'aggancio con la
Rassegna stampa UCEI consentì la nascita dell'Osservatorio Articolo 3,
oggi un gruppo di lavoro agguerrito ed esperto nella lotta a tutti i
razzismi, che da Mantova vigila su una delle realtà sociali più
difficili d'Italia e costituisce un modello per l'Ufficio
antidiscriminazioni della Presidenza del Consiglio e anche per le
istituzioni dell'Unione europea. La riuscita stava nell'esempio che
Fabio ci ha lasciato, nella sua capacità di mettere in collegamento la
tradizione antichissima di una Comunità ebraica gloriosa e la società
contemporanea, le esigenze della gente comune e la sensibilità di
parlare con loro, di stare dalla loro parte. Fabio era uno di quei
presidenti che tirano la carretta dell'Otto per mille, la preziosa
risorsa che tutela anche la sopravvivenza delle istituzioni ebraiche
italiane e che dipende da come la realtà degli ebrei italiani si lascia
percepire dalla popolazione, da quanto si lascia capire, da che cosa
testimonia. Nei palazzi dei poteri locali, di fronte ai numi della
cultura all'Accademia Virgiliana, alla Biblioteca Teresiana, alla
prestigiosa Università che la città si è conquistata, ai direttori del
Festival di Letteratura, Fabio si presentava a testa alta. Era un uomo
semplice, schietto, concreto, ma non sapeva cosa fossero i complessi di
inferiorità. Nella sua sinagoga, nella favolosa sala del Teatro
scientifico, con migliaia di studenti ad Auschwitz; per la gente era
solo il Presidente. Lo rivedo testardo attraversare la piazza Sordello
arroventata sotto al sole dei primi di settembre e affollata dai primi
arrivi del Festival Letteratura con tante copie dello speciale che
Pagine Ebraiche ha dedicato alla grande manifestazione culturale.
Dirigersi su Roma a dicembre, solo pochi giorni prima di andarsene, per
riaffermare con decisione al Consiglio dell'Unione l'esigenza di
tutelare un'informazione ebraica di alto profilo, aperta alla pubblica
opinione e a tutte le Comunità. E tornano i frammenti di vita, come
quando, dopo aver preso assieme un caffè ai tavolini di un piccolo
locale, ha fatto il gesto di pagare e ci siamo sentiti rispondere: “Ma
Presidente, per carità, lei da noi è un ospite”. Di cosa voleva
sdebitarsi quel cortese signore offrendoci un caffè? Forse del fatto
che né Mantova né l'Italia sarebbero le stesse senza le comunità degli
ebrei italiani. In quella tazzina ho trovato molto da imparare e molto
lavoro da compiere, come ebreo italiano e come cittadino. Oggi Mantova
è una delle capitali culturali dell'Italia ebraica. La sinagoga apre le
sue porte alla cittadinanza e arrivano i primi milanesi ben disposti a
sobbarcarsi un poco di pendolarismo d'altri tempi, stufi di respirare
aria cattiva e di scontrarsi con gente ingrugnata. La Comunità
raccoglie senza esitazioni un'eredità difficilissima e appassionante.
Al momento dell'ultimo saluto a un ebreo italiano che era grande per il
bene compiuto più che per quello che andava proclamando, varcando con
gli occhi lucidi assieme alla sua Licia, ai figli Aldo e Emanuela, ai
nipoti Rebecca, Alessandro e Davide, quel ponte sul Mincio che porta al
cimitero ebraico, con Fabio c'era tutta la città. Si impara a fare i
conti con il tempo e con il ricordo degli amici che ci lasciano. Il
dolore più grande, tornando a Mantova per rendergli omaggio, è venuto
nel vuoto di quel solito piazzale dove mille volte ci siamo incontrati.
Ma per i colleghi e per me, per moltissimi ebrei italiani, per la sua
Comunità, soprattutto per la sua gente, tutta la gente che lo ha
incontrato e che gli voleva bene, per la città intera, non sono state
lacrime vane. Riprendiamo anche nel suo nome il cammino a testa alta,
raccogliendo la sua energia e il suo sorriso, lungo la strada dove da
millenni gli ebrei italiani continuano a segnare i propri
percorsi.
g.v. (Pagine
Ebraiche, febbraio 2012)
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Qui Torino – In scena
il processo sul destino degli uomini
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Un
tema non nuovo ma affrontato con rigore e impegno,
in un dramma teatrale che merita di essere visto. "Processo a Dio" di
Stefano Massini è stato scelto dall’Associazione ex Allievi e Amici
della Scuola Ebraica di Torino per chiudere al Teatro Murialdo gli
eventi comunitari legati al Giorno della Memoria. Ed è stata la
compagnia Il Teatro del Rimedio, con la regia di Mario Piazza, ebreo
torinese, anche lui ex allievo della scuola ebraica, ad affrontare in
una lettura-spettacolo davvero avvincente il testo di Massini,
ricreando sul palcoscenico uno dei 'processi' che gli ebrei
tennero dopo la fine della seconda guerra mondiale e la liberazione dei
campi di sterminio nazisti.
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Davar acher - Identità in bilico
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L'ultimo numero della “Rassegna
mensile di Israel”, datato gennaio-agosto 2010 ma in realtà uscito da
poco, e intitolato a “Un'identità in bilico: l'ebraismo italiano tra
liberalismo, fascismo e democrazia”, a cura di Mario Toscano, è
particolarmente interessante e merita una riflessione seria da parte di
chi si occupa dell'ebraismo italiano. Fra i molti temi del grosso
volume (la cultura dei rabbini e le forme giuridiche, i modelli
educativi e le dinamiche sociologiche globali, la beneficenza, la
letteratura, la religione e i musei), mi ha colpito il filo rosso della
tentazione universalistica dell'ebraismo postunitario che emerge da
molti dei saggi, in particolare da quelli di Gadi Luzzatto Voghera
sull'evoluzione religiosa, di Rav Gianfranco di Segni sul rabbinato, di
Sergio Della Pergola sulla “via italiana all'ebraismo”. Il cammino
dell'emancipazione impose agli ebrei italiani (e immagino non solo a
essi) di ripensare la propria cultura non solo in termini del
riferimento tradizionale al sistema di obblighi e di valori che
costituisce la legge ebraica, cioè di quel sistema di relazioni interne
alla comunità che Avishai Margalit chiama “etica” (“Etica della
memoria”, traduzione italiana Il Mulino 2007), ma soprattutto nei
termini generali di valori che Margalit direbbe “morali”, in quanto
validi per tutti. Per molti questo significò l'abbandono progressivo
dei costumi ebraici, il rifiuto di ogni peculiarità e la
“privatizzazione” della propria appartenenza. Per costoro l'ebraismo si
è trasformato in un rapporto generico con l'umanità, in un senso di
giustizia (una morale, per l'appunto) che li porta spesso all'impegno
politico e sociale. Anche coloro che vollero conservare il proprio
ebraismo ritennero di doverlo giustificare in termini universali, come
una sorta di pedagogia morale, “appena inferiore a quella di Kant, ma
praticabile”. Contemporaneamente l'ebraismo si ridefinì in termini di
“religione” (magari “mosaica”), secondo il modello di separazione della
sfera religiosa da quella civile elaborata dalla tradizione cristiana.
Essere ebrei, secondo questa linea, divenne credere in certe cose
(magari assai generiche, come “la religione della gioia della speranza
e dell'amore” vista l'apertura teologica della nostra tradizione e il
disinteresse subentrato per gli studi talmudici o kabbalistici) e
praticare pochi riti che nei dettagli minori ma significativi
(l'architettura delle nuove sinagoghe monumentali, l'abbigliamento dei
rabbini, l'aspetto dei cimiteri) si sforzarono di assomigliare alla
maggioranza. Non si tratta qui di “assimilazione” ma di vera e propria
egemonia culturale da parte del mondo circostante e dunque del
Cristianesimo. Alcune espressioni di autodisprezzo di ebrei otto e
novecenteschi colti e borghesi per la propria tradizione (da certe
frasi di Lombroso alle tentazioni di conversione di Rosenzweig, fino al
suicidio di Otto Weininger, per fare solo pochi esempi fra i moltissimi
che si potrebbero citare), non si spiegano se non per questa egemonia
del modello cristiano, in particolare della sua dimensione “cattolica”,
cioè universalistica. L'universalismo ebraico cercò soprattutto di
essere rispettabile, filosofico, umanitario; si fece patriottico (del
patriottismo italiano, tedesco, americano) spesso socialista, qualche
volta direttamente cristiano; ebbe come avversari tanto il sionismo
quanto la religiosità tradizionale. Anche se le cose sono molto
cambiate dopo la Shoah e la fondazione dello Stato di Israele, la
trasformazione universalistica dell'ebraismo vive ancora nel profondo
della mentalità di molti degli ebrei contemporanei soprattutto della
diaspora occidentale e di certi strati culturalmente egemoni della
popolazione israeliana, alimentando riserve verso lo stato ebraico,
sensi di colpa per la propria identità, bisogno di approvazione da
parte dell'opinione pubblica
“progressista”. Ma, come mostra
Margalit nel libro che ho citato, accanto alla “morale” universale vi è
“l'etica” delle “relazioni spesse” del gruppo dei “prossimi” (si tratti
della famiglia, del gruppo, del popolo). Quest'etica particolare, che
impone certi obblighi e una certa memoria particolare è la ragione
principale della sopravvivenza dei gruppi sociali: se l'ebraismo si
dissolve in una memoria universale e in un amore universale, il
risultato è ovviamente la sparizione di Israele. Il paradosso vuole che
l'antisemitismo diffidi degli ebrei che si adeguano all'egemonia
culturale circostante (vedendoli paranoicamente come infiltrati) anche
più di quanto non detesti gli ebrei ben identificabili per usi e
costumi separati. Di qui una reazione identitaria che negli ultimi
decenni ha ridato impulso alla cultura ebraica, col prevalere del
sionismo e di una rinnovata religiosità di alcuni. E' in fondo la
storia di tutte le assimilazioni fallite, come quelle che ricordiamo a
Pesach, a Purim, a Hannukkah, secondo un'etica della memoria che è
obliata e rimossa nelle traduzioni cristiane delle nostre Scritture.
Dobbiamo ricordarcene non solo quando siamo richiamati alla guardia
dall'antisemitismo esplicito e violento che risorge, ma anche di fronte
a tutte le spinte universalistiche che ci chiedono di adeguare la
nostra identità a criteri esterni, a ridurre la nostra “etica” e alla
nostra memoria a una “morale” generica. L'ebraismo vivo è universale,
nel senso che riconosce i diritti e l'umanità di tutti, pretende che i
suoi valori possano essere in futuro diffusi e condivisi; ma non è
universalistico nel senso di dissolvere la propria specifica identità e
la propria missione nella semplice uguaglianza della condizione umana.
Ugo
Volli
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notizieflash |
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rassegna
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Londra,
la Jewish Book Week celebra i suoi sessant’anni
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Si è aperta ieri sera a Londra la sessantesima edizione della Jewish
Book Week, importante appuntamento dedicato al mondo della cultura
ebraica e dei suoi protagonisti. Quest’anno è prevista la
partecipazione tra gli altri dello scrittore italiano Umberto Eco,
dell’attore David Morrissey, del designer israeliano Ron Arad e del
rabbino capo del Commonwealth Jonathan Sacks.
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