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26 febbraio 2012- 3 Adar 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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Aron
è il termine con cui la Torah indica il contenitore delle tavole del
patto, punto cardine di tutto il tabernacolo. Rabbenu Behaje riconduce
la parola alla radice Or, luce. La Torah, luce per eccellenza, è dunque
contenuta da un piccolo baule a sua volta luminoso, secondo un processo
di progressiva diminuzione di luminosità. È lo stesso meccanismo, in un
gioco di specchi, che presiede alla creazione, nella quale si assiste
ad un progressivo nascondimento di Dio, che è comunque sempre presente.
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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Lucia
Annunziata, per spiegare quanto deve essere libera l’opinione in Rai e
quanto vane siano le polemiche, ha detto giovedì sera a Servizio
Pubblico: “Avrei difeso Celentano anche se avesse detto che i gay vanno
mandati nei campi di sterminio”. E poi dopo ha aggiunto: “La questione
dei contenuti è in un qualche modo secondaria rispetto al diritto di
parola in un servizio pubblico”. Molti si sono concentrati sulla
prima affermazione (di questo per esempio discuteranno con Annunziata,
esponenti dell’associazionismo gay nella puntata di “In 1/2h” (che
andrà in onda il 4 marzo). A me sembra anche altrettanto discutibile la
seconda ed è significativo, invece, che sulla seconda sia prevalso il
silenzio. Questo mi preoccupa assai specie in un tempo in cui i
principi mi sembrano alquanto incerti e confusi e dove il diritto di
parola è identificato con lo “spararla grossa”.
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Qui Firenze - Celebrando la ‘meglio gioventù’
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Nomi
che appartengono indissolubilmente alla nostra storia di ebrei
italiani, la ‘meglio gioventù’ che ci ha emozionato, unito e indicato
la strada da percorrere. Da Alfonso Pacifici a rav Elia Artom, da rav
Armando Sorani a rav Edgardo Morpurgo. Si celebra oggi a Firenze, sotto
l’egida del Gruppo di Studi Storici, il centenario del primo convegno
giovanile ebraico, appuntamento che segnò una svolta per l’Italia
ebraica convogliando nel capoluogo toscano le aspirazioni e i sogni di
una generazione che avrebbe lasciato il segno nella vita politica e
religiosa, in ambito culturale, nel campo dell’informazione. Ottobre
1911-Febbraio 2012. Cosa resta, quale insegnamento trarre da quei
giorni, apripista agli altri fondamentali appuntamenti di Torino
(1912), Roma (1914) e Livorno (1924)? Il ragionamento è affidato a
storici, intellettuali, protagonisti delle istituzioni ebraiche in una
riflessione che guarda al passato, analizza il presente e cerca di
immaginare il futuro. Ad aprire i lavori, moderati dal consigliere
Renzo Bandinelli, i saluti del presidente della Comunità ebraica di
Firenze Guidobaldo Passigli e del presidente dell’Unione Giovani Ebrei
d’Italia Daniele Regard (il messaggio, in assenza di Regard, è stato
letto dal vicepresidente Ugei Davide Lascar). Parola poi ai relatori,
che partendo dal convegno fiorentino hanno contestualizzato e
analizzato la densa vicenda dell’attivismo giovanile inquadrandola
nell’ottica delle prime e decisive pulsioni sioniste seguite alle
teorie di Theodor Herzl. In primis Reuven Ravenna, proponente e
organizzatore dell’evento, che ha rievocato la centralità culturale e
spirituale di Firenze nel Novecento ebraico italiano attraverso la
lettura di alcuni inediti documenti d’archivio. Firenze ebraica, spiega
Ravenna, fu centro di entusiasmi e di nuove idee. E ciò a partire
proprio dal celebre convegno, rivelatosi “una tappa, un ulteriore salto
di qualità e di attività”. Excursus storico ricco di significato anche
per Bruno Di Porto, autore di un intenso viaggio di nomi e situazioni
inerenti il primo quindicennio del ventesimo secolo, e per Mario
Toscano, che si è soffermato sull’esperienza globale dei Convegni
giovanili e sugli sviluppi che seguirono per quanto riguarda il
dibattito interno, i rapporti con la società circostante, la
declinazione particolare della propria identità anche in considerazione
degli spartiacque pressanti della storia italiana ed europea. Conclusa
la prima sessione, i lavori riprenderanno dopo la pausa pranzo con gli
interventi di Alberto Cavaglion (“1911. I vecchi e i giovani: due
generazioni a confronto mezzo secolo dopo l’Unità”), Elizabeth
Schachter (“Samuel Hirsch Margulies: il Gran rabbino d’Italia
mancato?”), Tobia Zevi (“Cittadini del mondo, un po’ preoccupati”),
Monica Miniati (“Rinnovamento ebraico e questione femminile”) e Liana
Elda Funaro (In margine al Convegno, alcune presenze”). Gli atti del
convegno saranno presto raccolti e pubblicati.
a.s.
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Hollywood alle prese con il Talmud
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Si
svolgerà nelle prossime ore la cerimonia di assegnazione dei Premi
Oscar. Tra le cinque pellicole in lizza nella categoria per il miglior
film straniero, Footnote del regista israeliano Joseph Cedar e In
Darkness della polacca Agnieszka Holland. Due lavori di grande
intensità, già premiati in occasione di alcuni importanti festival
internazionali, che toccano da vicino i temi dell’identità e della
storia ebraica europea.
Oscar o non Oscar, tutta
Hollywood ne parla. "Significa che ci sono cose più importanti della
verità." "Ad esempio?" "La famiglia." Con questa risposta lapidaria,
Shkolnik figlio, rivela il suo piccolo dramma personale. Già, perché i
protagonisti del film israeliano Footnote sono due Shkolnik: padre e
figlio. Entrambi professori di Talmud all’Università ebraica, il padre
è caduto nel dimenticatoio, il figlio è all'apice del successo. Poi
l'imprevisto, Shkolnik padre riceve una telefonata, ha vinto il premio
più importante di Israele come riconoscimento per i suoi lavori. Una
boccata di aria fresca, uno scorcio di luce, una rivalsa. Il colore
sembra tingere di nuovo il volto di quell'uomo così terribilmente
grigio. Ma è un errore, un banale, dolorosissimo errore. Avete presente
quando a Miss Italia dicono che ha passato la selezione una ragazza con
un determinato numero, ma qualche secondo dopo si scusano per
l'increscioso errore di distrazione e la fanno retrocedere in favore di
un'altra? Il vincitore non è il padre. Mister luminare di Israele non è
quell'uomo incupito dalla vita. Anche i diligenti funzionari israeliani
sbagliano. Colpa dello stesso cognome. Perché il podio è di Shkolnik
junior e proprio a lui viene comunicato il malinteso. E ora cosa fare?
Come dirlo a papà? Ma sopratutto, dirlo a papà? Se invece gli
regalassi questa vittoria? Competizione e affetto, timore e rispetto
incorniciano questa storia dolceamara che racconta uno dei rapporti più
difficili fin dai tempi della Torah, quello tra padre e figlio. Un
topos che regna incontrastato da Lettera al padre di Kafka a Con gli
occhi chiusi di Tozzi. Alessandro Piperno nel suo ultimo libro,
Inseparabili, scrive "...in realtà il più delle volte non erano altro
che padri, ovvero individui sprovvisti dalla natura di capacità
empatica e cautela misericordiosa". Il regista Joseph Cedar
(nell’immagine a sinistra) descrive il padre come uno studioso più
rigido e maggiormente legato alla parola scritta, mentre il figlio
guarda al compromesso, basandosi sulla natura flessibile dell'oralità.
Due modalità che li mettono in una posizione antitetica anche nella
vita di tutti i giorni. Uno scontro generazionale a suon di Talmud.
Cedar, che ha scritto e diretto il film, sarà probabilmente il regista
di uno degli episodi dell'annunciato film corale Jerusalem, I love you
(per il progetto Cities of love che ha come illustri precedenti Paris,
Je t'aime e New york, I love you). Lior Ashkenazi, protagonista con
Shlomo Bar-Aba, ha recitato in Matrimonio tardivo e in Be tipul, che ha
ispirato il telefilm americano In Treatment. Il regista ha più volte
raccontato del fascino mitico che il dipartimento di Talmud della
Hebrew University esercita. Ma sopratutto di epici scontri e rivalità
tra scolari continuamente alla ricerca di quello che si avvicina di più
alla realtà e di quello che è l'errore. Allora ecco un film che si
muove abilmente e con un pizzico di ironia su concetti assoluti come
l'errore e rapporti assoluti come quello tra padre e figlio. Cercando
risposte e ponendosi sempre più domande.
Penelope Draper, Pagine Ebraiche, marzo 2012
In Darkness, un viaggio straziante nella profondità delle tenebre
In
Darkness, un titolo che evoca istantaneamente la paura, presenze
sinistre, l'impossibilità di fuggire se non tastando maldestramente
alla ricerca di qualche punto di riferimento. Un tipico titolo da film
horror da guardare stringendo forte i braccioli della poltrona. Ma le
tenebre possono uscire dallo schermo, invaderci e farci tornare a
quello stato infantile di paura irrazionale. Le tenebare possono essere
ispirate a una storia vera. E questo è il nostro caso. Lvov, 1943, una
cittadina stracciata e sfilacciata dalla guerra. Nessuno è al sicuro,
tutti si guardano con sospetto, a Socha viene offerta una pericolosa
quanto redditizia opportunità: nascondere degli ebrei in cambio di
denaro. E quale luogo migliore se non nelle gallerie sotterranee dove
si trova l'impianto fognario che per lavoro conosce molto bene? Da
questo punto il film si sdoppia: le vicende degli ebrei sotto la terra
che vivono nell'umidità e nel terrore costante e la gente che invece
cammina inconsapevolmente sopra le loro teste. Il film è tratto dal
libro di Robert Marshall ed è dedicato a Marek Edelman che fu uno dei
promotori della coraggiosa rivolta del ghetto di Varsavia. La regista
Agnieszka Holland ricostruisce con grande cura un ambiente
claustrofobico che porta perfino gli spettatori a volere disperatamente
uno sprazzo aperto sul cielo. Racconta di quanto, nonostante i numerosi
film che trattano il tema della Shoah, sia necessario porsi la domanda:
"Dove era finito l'uomo? Come ha fatto l'anima a tingersi di nero?" La
Holland sottolinea quanto sia stato importante rendere i personaggi
ebrei degli umani con le loro imperfezioni che li rendono reali, quindi
insistendo ancora di più sul dovere di salvarli. Socha è un personaggio
a tutto tondo, che cambia con il passare del tempo, il suo non è più un
mero business ma diventa la causa per la quale lottare. Per dare
realismo al lungometraggio sono stati fatti sopralluoghi nelle gallerie
sotterranee di Berlino e Lodz ed è stato studiato il dialetto polacco
di Lvov. Il direttore della fotografia Jolanta Dylewska evidenzia come
il buio sia una metafora e come Socha, il salvatore, sia sempre seguito
da una luce caratteristica. Un film che gira intorno alla dualità e
alla contrapposizione: la luce e il buio, sopra la terra e sotto di
essa, universalizzando questa storia particolare con la situazione
generale dello sciagurato periodo. Ma le opposizioni vengono mitigate
anche dal grigio, dalla profonda analisi psicologica dei personaggi che
li rende vicini a noi. E questo acuisce la drammaticità, proprio il
fatto che si parli di gente comune, non cavalieri senza macchia o
maschere caricaturali, avvicina terribilmente lo spettatore allo
schermo. Non sono i nostri sfortunati correligionari polacchi del 1943
a vivere con i piedi bagnati e il cibo centellinato, improvvisamente
Lvov siamo noi. E calano le tenebre.
Pagine Ebraiche, marzo 2012
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Davar Acher - Utopia |
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Sono
passati cinque secoli da quando Thomas More (esattamente nel 1516)
lanciò il termine “utopia” come nome del paese perfetto e titolo del
libro che lo descriveva. Non mi interessano qui i dettagli della
proposta politica di More e neppure la sua genealogia di pensiero, ma
proprio la mossa linguistica. “Utopia” significa non-luogo e More lo
scelse per collocare esplicitamente la sua isola nell'ambito della
fantasia, forse anche per sottrarsi a possibili accuse politiche. Da
una ventina d'anni i non-luoghi sono rientrati in tutt'altra accezione
nel dibattito culturale grazie all'antropologo Marc Augé che ha
chiamato così quei numerosissimi edifici, spazi industriali e
commerciali che sono simili in tutto il mondo, dai grandi magazzini
agli aeroporti, dagli uffici alle metropolitane. In genere la perdita
di legame con i luoghi e le tradizioni culturali di questi spazi è
giudicata negativamente, e così tutto sommato la pensa Augé, ma non si
può sottovalutare il loro legame con la maggiore ideologia
architettonica dell'ultimo secolo, quel razionalismo che non a caso fu
definito “movimento internazionale” per cui “la forma deve rispecchiare
la funzione” senza tener conto di cose ininfluenti come gusti e
tradizioni culturali: i non luoghi, se portati alle estreme
conseguenze, sono l'ideale di Loos, Le Corbusier e dei loro allievi non
solo architetti. La cultura del Novecento e la sua coda che ancora
domina il nostro secolo, è stata utopistica in entrambi i sensi. Da un
lato ha coltivato grandi illusioni di costruire mondi perfetti, dalle
utopie forti e violente che si sono rivelate terribili prigioni dei
popoli e fabbriche di morte come il comunismo e il nazifascismo, a
quelle deboli e meno impositive delle organizzazioni internazionali del
secondo dopoguerra come l'Onu , la World Trade Organization (WTO) e
l'Unione Europea (di cui oggi sfugge forse il carattere utopistico con
cui sono sorte e che ancora le determina). Il pensiero utopistico, cioè
ideologico, basato su un dover essere che non ha sede in nessun luogo e
che però ha tanto valore da dovergli sacrificare tutto, interessi
specificità ma anche vite umane, domina ancora la mentalità collettiva,
anche se le sue politiche sono sempre fallite. Dall'altro lato la
pratica dei non-luoghi ha fatto passi da gigante: l'uniformazione ha
investito non solo l'architettura, ma la maggior parte degli aspetti
della vita collettiva e individuale, assumendo il nome di
globalizzazione. Le stesse macchine, gli stessi prodotti, gli stessi
abiti, le stesse musiche, gli stessi cibi, la stessa lingua si
ritrovano progressivamente dovunque nel mondo. Le regolamentazioni
internazionali, in particolare l'Unione Europea, mirano sempre più a
uniformarlo, ritenendo che ogni definizione geografica sia un ostacolo
alla libera concorrenza. Coerentemente a questa grande tendenza di
pensiero, nell'ultimo secolo o secolo e mezzo molti nel mondo ebraico
hanno presentato l'ebraismo come una specie di utopia, col desiderio
senza dubbio ben intenzionato di giustificarne il valore di fronte ai
grandi movimenti ideologici e universali. L'ebraismo secondo questa
logica sarebbe semplicemente spinta etica, amore di giustizia, rigore
morale. Il celebre detto di Hillel che, interpellato da un candidato
alla conversione a spiegargli tutto l'ebraismo mentre stava su una
gamba sola, gli rispose “Tutta la Torah sta in questa norma: non fare
agli altri quello che tu stesso non vuoi sia fatto a te. Il resto è
commento: va’ e studia” (Shab. 31a) viene forzato da queste letture
utopistiche non solo universalizzando il concetto di prossimo – il che
non è scontato né lessicalmente né per il pensiero ebraico – e
soprattutto trattando la seconda parte della frase come se fosse
derogatoria. Ma il commento per noi è il metodo essenziale del pensiero
e lo studio della Torah riassume tutte le virtù (Peà 1,1). Il
punto è che l'ebraismo non è affatto un'utopia, non è indifferente ai
luoghi, ma anzi si costruisce sulla valorizzazione di una certa terra,
Eretz Israel, e dentro di essa di una città, Jerushalaim e di un
edificio, il Santuario. Erigerlo (o erigere il Tabernacolo che lo
precede) è condizione, come abbiamo letto ieri nella porzione
settimanale di Torà, perché la presenza divina abiti non in esso, ma in
mezzo al popolo ebraico. L'ebraismo è fortemente “topico”, tratta lo
spazio come una struttura dinamica e gerarchica e considera che il
compito del popolo ebraico possa svolgersi interamente solo in un certo
luogo, a differenza del cristianesimo, che è relativamente indifferente
ai luoghi. Anche l'Islam è “topico”, ma con notevoli differenze: non
solo il suo focus spaziale è altrove, alla Mecca e non a Gerusalemme,
mai nominata nel Corano; ma la sua idea è che lo spazio sacro (Dar el
Islam) debba espandersi anche con le armi fino a comprendere tutta la
terra (globalizzandosi così di nuovo). Niente del genere c'è nella
nostra tradizione. L'ebraismo non è utopistico neppure negli altri
sensi: non mira all'uniformazione universale, anzi tiene alla propria
differenza e non chiede ai popoli di assumere i suoi costumi ma accetta
i loro sottoposti solo a certi principi generalissimi (le sette leggi
dette di Noè: non ammazzare, non bestemmiare, rendere giustizia ecc.).
L'ebraismo non è neppure ideologico, non mira a instaurare un sistema
ideale in cui ogni dettaglio sia frutto di principi teorici perfetti
(com'era l'Utopia di Moro e come voleva essere il comunismo); sa bene
che nell'ordinamento prescritto dalla Torah vi sono aspetti
inesplicabili e non razionali, specificità imposte dalla Legge, o anche
tramandate come costumi locali, che sono valide in quanto tali. La
Scrittura registra puntigliosamente le resistenze all'insegnamento di
Mosè e il fallimento dei Re, insegnando anche a non fidarsi del potere
politico, a non credere che una decisione politica possa supplire a
quelle pratiche del dubbio e dell'intelligenza (il commento, lo studio)
che sono la sua specificità. Conserva invece con passione il suo
attaccamento ai suoi luoghi e alla sua specificità a costo di doverli
difendere con le armi, com'è spesso successo nell'antichità e ancora
accade in questi giorni. L'ebraismo insomma non è un'utopia “non è in
cielo o al di là del mare”, ma è esattamente il suo contrario: pratica
dei luoghi e del pensiero critico.
Ugo
Volli
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notizieflash |
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rassegna
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Sorgente di vita: gli ultraortodossi israeliani e la moda femminile troppo audace
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Leggi la rassegna |
La
puntata di Sorgente di vita di domenica 26 febbraio apre con un
servizio sulla pubblicità che infiamma gli ultraortodossi in Israele:
dietro ai giornali, ai manifesti e alle campagne pubblicitarie che
presentano immagini delle donne considerate troppo audaci, gli eterni
conflitti tra religiosi e laici. Segue un servizio dedicato allo sport
sotto il nazismo e alle persecuzioni degli atleti ebrei.
p.d.s.
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Andare
ad Auschwitz fa sempre bene? Non sobbalzino sulle sedie i nostri
lettori poiché non stiamo parlando della deportazione ma del buon uso
della memoria di essa, alla quale, dopo i dibattiti e le discussioni in
corso tra gli “addetti ai lavori”, soprattutto intorno alla ricorrenza
del Giorno della memoria, ci rinvia una lettera scritta dagli studenti
del Liceo linguistico e delle Scienze umane Leonardo da Vinci di Alba e
pubblicata da il Fatto.
Claudio Vercelli
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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