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1 aprile
2012- 9 Nisan 5772 |
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Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino
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Un giorno, dopo aver tenuto la sua lezione nella
yeshiva Kol Torah, Rav Shlomo Zalman Auerbach - la maggiore autorità
halakhika della generazione - chiese all'autista di accostare davanti a
un chiosco per comprare un pacchetto di caramelle per un bambino che
era in ospedale.
Dopo aver comprato le caramelle, tornando in macchina, Rav Shlomo
Zalman iniziò a controllare il pacchetto e girarlo da un lato
all'altro. La persona che accompagnava Rav Shlomo Zalman gli assicurò
che non doveva preoccuparsi perché sapeva che quella marca di caramelle
aveva un Hechsher molto autorevole. "Non stavo guardando l' Hechsher",
rispose Rav Shlomo Zalman. "Stavo controllando se la caramella sono
buone!"
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David
Bidussa,
storico sociale delle idee
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“Tolosa
è solo l’ultima, gli ebrei hanno paura”, è un lungo testo che Marco
Cesario ha pubblicato ieri su www.linkiesta.it
chiedendosi se la Francia sia ancora o no un paese per ebrei.
E’ difficile da dire e sicuramente la realtà dopo il 19 marzo è
molto complicata. Ma il problema è sempre lo stesso, da molto tempo
ormai: la sostituzione degli ebrei reali, piacevoli o meno, simpatici o
antipatici, con le icone con cui li si vogliono leggere, produce solo
effetti perversi: di adorazione, in alcuni casi, e di dannazione in
altri. Gli ebrei reali comunque non sono quelli. Come ne usciamo?
Qualcuno dice che la soluzione possibile dell’antiebraismo islamico sia
solo la fine del conflitto mediorientale. Può darsi, ma resta
egualmente il problema dall’astio che gran parte del mondo islamico
presente in Europa ha per gli ebrei che spesso legge come avversari di
classe. Per affrontare quel problema occorre avviare una riflessione
culturale. La politica estera non c’entra. Al centro stanno le
politiche dell’integrazione e per quelle in Europa non è stata avviata
una politica concreta.
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Qui Budapest - Tra crisi e nuove
inquietudini
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Imponente. Maestosa. Così si presenta la
Sinagoga centrale di Budapest, la più grande d’Europa, tremila posti a
sedere e 150 anni di storia. Gruppi più o meno numerosi di turisti ne
ammirano quotidianamente le alte navate, o si soffermano sulle targhe
che commemorano le vittime delle stragi che le croci frecciate, feroci
brigate fasciste ungheresi, perpetrarono in questi luoghi durante la
seconda guerra mondiale. A guidare i visitatori sono giovani della
Comunità ebraica locale. Uno di loro sta raccontando la plurisecolare
storia dell’ebraismo magiaro a un piccolo gruppo di americani. Uno dei
suoi ascoltatori lo interrompe: “Ma oggi cosa sta succedendo con questo
nuovo governo?”. Vale la pena di ascoltare. “Siamo davvero
preoccupati”, afferma senza esitazione la guida, che parla anche un
perfetto italiano con cui risponde a qualche domanda durante la breve
pausa concessa ai turisti per guardarsi attorno. “Oggi si sentono in
continuazione discorsi antisemiti in Parlamento. Prima una cosa del
genere non sarebbe stata possibile. In un paese democratico davvero,
poi, non esisterebbe un premio di maggioranza così elevato. Senza
contare che nei sondaggi la destra estrema, che ha preso il 17 per
cento alle ultime elezioni, continua a guadagnare consenso”. Poi i
turisti tornano, la visita deve proseguire e le confidenze si
interrompono. Alle elezioni del 2010, Fidesz (Fiatal Demokraták
Szövetsége, Alleanza dei giovani democratici, ribattezzata Unione
civica ungherese nel 1995) guidata dall’attuale primo ministro Victor
Orban, ottenne il 53 per cento delle preferenze, che si tradussero però
nel 68 per cento dei seggi in Parlamento. In origine orientato su
posizioni progressiste, il partito si è via via spostato in area sempre
più conservatrice. Dall’inizio della sua esperienza di governo, Orban
ha portato avanti un’attività contrassegnata da un nazionalismo spinto
e demagogico, oltre che da una serie di decisioni controverse, non
ultima quella di modificare la costituzione in senso autoritario,
depotenziando la Corte costituzionale, che prima rappresentava un vero
argine al potere legislativo, e indebolendo la libertà di stampa e i
diritti della persona, in particolare quelli connessi alla privacy. Se
a questo si aggiunge la peggiore crisi economica che il paese abbia
attraversato dal tempo della caduta del comunismo e il successo
crescente che riscuote Jobbik, partito di estrema destra
dichiaratamente antisemita e antirom, i segnali preoccupanti non
mancano. Eppure parlando con la gente della Comunità ebraica di
Budapest il quadro che emerge è meno allarmante di quanto si potrebbe
pensare leggendo i titoli dei giornali. “Penso che più che il contesto
politico, il vero problema in Ungheria sia l’economia - racconta Andras
Heisler, già presidente di Mazsihisz, la federazione delle
organizzazioni ebraiche ungheresi - L’antisemitismo c’è, ed è diffuso,
ma non penso che la situazione sia peggiore che in altri paesi. È raro
che accadano attacchi a persone o a cose. Anche se il progressivo
sbiadimento della linea di confine tra destra ed estrema destra è
preoccupante”. La comunità ungherese conta una popolazione di circa 100
mila persone. Tuttavia, a essere coinvolti nella vita delle
numerosissime organizzazioni ebraiche sono una percentale molto bassa e
la partecipazione è in grave crisi. Durante il regime comunista in
Ungheria formalmente esisteva libertà di culto e le sinagoghe rimasero
aperte. Molti di coloro che assistevano alle funzioni erano però spie
del governo, pronte a denunciare i fedeli, che potevano subire pesanti
conseguenze. E così a pregare finivano per andarci soltanto le persone
anziane, che non avevano nulla da rischiare, mentre un’intera
generazione crebbe senza alcun tipo di educazione ebraica. Negli anni
Novanta, dopo la caduta del comunismo, moltissimi ungheresi poterono
finalmente ricordarsi di essere ebrei e si avvicinarono alla vita
ebraica considerandola un simbolo della ritrovata libertà, in quello
che viene definito il periodo del Rinascimento ebraico. Ma a partire
dal 2000 si è assistito a un progressivo declino. A cui si aggiungono
problemi di profonde divisioni interne. “Dopo la dittatura è stato
bello avere di nuovo la possibilità di trattare argomenti legati
all’ebraismo - spiega Gabor Szanto, direttore del mensile Szombat
(Sabato), il primo giornale ebraico ungherese nato nel 1989 dopo la
caduta del comunismo. Oggi la comunità d’Ungheria non si sente a suo
agio. Si respira tanto odio nell’aria. Penso che alla base ci sia la
totale mancanza di empatia tra le differenti componenti sociali. Tra
destra e sinistra c’è un abisso, per ragioni storiche, ed è difficile
trovare un retroterra di valori comuni. Ma la solidarietà manca anche
nei confronti delle vittime della Shoah o del regime comunista. Una
buona parte della popolazione non si interessa di politica. Per questo
è molto difficile guardare al futuro con ottimismo”. Anche se un
funzionario del Ministero degli Esteri italiano che vive in Ungheria da
più di vent’anni tiene a sottolineare che nel paese si continua a
stare bene, e se è vero che ci sono dei brutti episodi, la situazione
non è molto diversa da quella che esisteva sotto il governo precedente,
socialista, che si distinse per inefficienza e corruzione (famosa
rimane la registrazione di quando, nel 2006, l’allora premier Ferenc
Gyurcsany ammise di aver nascosto la reale situazione economica
dell’Ungheria per vincere le elezioni). “Troppo spesso - spiega - i
media europei dimenticano di spiegare che allo stato attuale siamo
arrivati soprattutto a causa della disonestà dei liberal che hanno
governato l’Ungheria dopo il comunismo”. Insomma, se la fotografia
della situazione ungherese al momento è in chiaro-scuro, la vera
incognita è cosa riserva il futuro. Tra due anni si andrà a elezioni.
In un sistema in cui dopo la modifica della costituzione molti dei
controlli che garantiscono il funzionamento della democrazia si sono
persi, se a prendere il potere dovesse essere l’ultraconservatrice
Jobbik i guai potrebbero essere molto più seri del brutto clima che
tutti concordano si respiri oggi. Anche se un fondamentale contropotere
rimane: Unione Europea e Fondo monetario internazionale tengono in
qualche modo il coltello dalla parte del manico. Senza i loro prestiti,
l’Ungheria non può andare lontana.
Rossella Tercatin -
twitter @rtercatinmoked
(Pagine Ebraiche aprile 2012)
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Davar Acher - Pesach
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Siamo arrivati di nuovo vicini a Pesach,
alla pulizia delle nostre case, all'acquisto delle provviste e
all'organizzazione del seder. Di nuovo siamo chiamati dal nostro ciclo
liturgico a riflettere sull'origine del nostro popolo, a far memoria
sul fatto che la fondazione di Israele coincide con la sua prima
persecuzione, che insomma la condizione che oggi noi nominiamo con il
nome di Shoah non è un incidente storico ma una figura ricorrente:
nella Babilonia di Daniele, nella Persia di Ester, nella Renania dei
Crociati, nella Spagna degli Almohadi e poi dell'Inquisizione, nella
Polonia dei Cosacchi, nell'Europa dei nazisti...
La narrazione biblica e quella della Haggadah contengono già molti
dettagli di questa figura: i sospetti per la crescita economica e
demografica; le persecuzioni crescenti, intese alla “soluzione finale”
in maniera più o meno cruenta, i pochi giusti che non vi aderiscono (le
levatrici); la crisi con l'intervento devastante della “mano tesa” dal
cielo, in questo caso direttamente identificata con la responsabilità
divina (“Io, non un angelo, Io, non un inviato...”), in altri casi
emersa più ambiguamente dalla storia (i persiani per Nabucodonosor,
Achashverosh per Aman, gli americani per Hitler, talvolta solo il tempo
e la sopportazione...); la violenza, l'esaltazione e la paura del
processo di liberazione; l'uscita dal paese verso la libertà.
Ogni anno siamo chiamati esplicitamente a sentirci parte di tale
percorso, del cammino originario di Pesach; il che non può che
significare dover rileggere il nostro tempo secondo quello schema. Il
che non è difficile oggi, se sappiamo vedere che la nostra è un'epoca
di frammentazione e di individualismo, in cui i processi storici si
rifraggono. Da un lato noi viviamo in una situazione in cui l'Esodo si
è compiuto, la liberazione è stata raggiunta, lo Stato di Israele è
vivo e forte, anche se non mancano gli Amalek che vogliono la sua
distruzione. Dall'altro il clima per chi è rimasto indietro in questo
nuovo esodo e soprattutto per la collocazione dell'ebraismo nel mondo
internazionale sempre più globalizzato, è assai pesante, le accuse si
moltiplicano, gli atti di discriminazione aumentano, l'antisemitismo
torna omicida, i governi sono indifferenti o ostili (soprattutto
nell'Europa del Nord). E come ha scritto Dario Calimani in una nota
pubblicata su questo sito che mi ha molto colpito, è difficile sentire
una solidarietà autentica del proprio ambiente quando si viene presi di
mira personalmente.
La ripetizione stanca, rischia di suggerire passività e indifferenza.
Il “figlio malvagio” della Haggadah, quello che chiede da estraneo qale
sia il senso “per voi” del rito, forse è semplicemente stanco, cerca di
sottrarsi alla ripetitività di questa figura storica che ci cattura
ogni volta di nuovo. Ma è ancora la ripetizione, la costanza, la
permanenza della memoria, il solo antidoto a questa stanchezza. Potremo
vincere la stanchezza e la paura solo riuscendo a pensare che noi oggi
come i nostri avi tremila anni fa siamo impegnati nel percorso di
liberazione, che buona parte del nostro popolo ha già avuto il coraggio
di entrare nel mare, che tante volte i cocchi del faraone e dei suoi
emuli sono stati sommersi, solo essendo consapevoli del fatto che
comunque abbiamo ancora un compito in questa storia, proprio noi, che
dobbiamo ripeterla per sapere come viverla e viverla ancora, lottare
ancora in essa, per poterla ripetere noi e i nostri figli.
Ugo Volli
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notizieflash |
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rassegna stampa |
Siria - "Dall'ONU misure vincolanti"
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Leggi la rassegna |
Misure
vincolanti dell'ONU per fermare la violenza in Siria". La richiesta è
della Lega Araba che, nel corso della riunione degli 'Amici della
Siria' a Istanbul, ha esortato i molti diplomatici internazionali
riunitisi nella capitale turca affinché facciano pressione sul
Consiglio di sicurezz<a della Nazioni Unite per ottenere un
risultato in questo senso. Intanto, sempre da Istanbul, il segretario
di Stato americano Hillary Rodham Clinton ha annunciato un incremento
degli aiuti umanitari per la popolazione civile a dispetto degli sforzi
delle autorità siriane per bloccarli.
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Non c’è una notizia che
oggi primeggi così come, peraltro, per tutta la durata della settimana
trascorsa le parole della carta stampata si sono trascinate su di sé, a
volte involvendo in quella forma peculiare dell’informazione
contemporanea che è l’autocitazione, di cui alcune testate sono
maestre. Si crea un “caso”, lo si mette in circolazione come se fosse
un evento (o corrispondesse ad un fatto concreto) e poi si stimolano le
reazioni al riguardo, confidando negli effetti di ricaduta e, di
rilfesso, nei beneficili commerciali che da ciò dovrebbero derivare(...)
Claudio Vercelli
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L'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
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