Quando negli scorsi giorni è
stato riferito a Barack Obama che lo scrittore Jonathan Safran Foer
aveva curato (assieme a Nathan Englander), una nuova Haggadah di
Pesach, il Presidente degli Stuti Uniti si è domandato se al Seder
della Casa Bianca in futuro non si sarebbe più utilizzata la
leggendaria Maxwell Haggadah che accompagna la cena della Pasqua
ebraica da decine di anni. Lo stesso scrittore, in un testo pubblicato
questa settimana dal New York Times, racconta la sua esperienza di
autore americano delle nuove generazioni di fronte al libro che in
innumerevoli edizioni per gli ebrei segna la notte della conquista
della libertà e la riaffermazione dell'identità.
Ho trascorso gran parte
degli ultimi anni lavorando su una nuova Haggadah – il libro guida per
le preghiere, i riti e i canti del Seder – e mi è stato chiesto
frequentemente perché abbia scelto di togliere del tempo ai miei libri
per impegnarmi in un simile progetto.
Per tutta la mia vita, i miei genitori hanno organizzato a casa il
Seder della prima sera di Pesach. Quando la nostra famiglia si è
allargata, così come si è allargata la nostra definizione di famiglia,
abbiamo spostato la cena rituale dalla sala da pranzo al nostro
seminterrato, più spazioso e un po’ umido. Da un tavolo siamo passati a
un insieme di superfici assimilabili a dei tavoli, messi insieme alla
meglio. Sapevo sempre quando si stava avvicinando Pesach, perché mio
padre mi chiedeva di togliere la rete dal tavolo da ping pong.
L’insieme veniva coperto da tovaglie ormai macchiate, che una volta
erano state intonate fra loro.
Ogni volta c’era una Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme
fotocopiando le loro parti preferite provenienti da diverse Haggadot e
poi, quando la famiglia Foer finalmente ebbe un accesso a internet,
provenienti da varie fonti online. Perché questa sera è diversa dalle
altre sere? Perché questa sera i diritti di copyright contano poco.
In assenza di una patria stabile, gli ebrei hanno trovato casa nei
libri, e la Haggadah – il cui centro è la narrazione dell’Esodo
dall’Egitto – è stata tradotta in più lingue e rivisitata più di
qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque gli ebrei siano arrivati, ci
sono state Haggadot – a partire dalla Haggadah di Sarajevo del XIV
secolo (che si narra sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale
nascosta sotto le assi del pavimento di un moschea, e nella guerra dei
Balcani all’assedio di Sarajevo nella cassetta di sicurezza di una
banca) fino a quelle realizzate dagli ebrei etiopi portati in Israele
con l’Operazione Mosè.
Fra le settemila versioni conosciute, senza contare le innumerevoli
versioni fatte in casa, ce n’è una che viene usata più di tutte le
altre messe insieme. Fin dal 1932 la Maxwell House Haggadah – Maxwell
House come la società del caffè – domina i riti ebraici americani.
Avendo avuto conferma nel 1920 che il chicco di caffè non è
assimilabile a un cereale, ma a una bacca e quindi può essere kasher
lePesach, la Maxwell House ha affidato all’agenzia pubblicitaria Joseph
Jacobs il compito di portare il caffè, invece del tè, a essere la
bevanda preferita nelle sere di Pesach. Se questo può suonare
stravagante, bisogna allora ricordare che il caffè Maxwell House è
sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
Il risultato è un'Haggadah. E probabilmente la più lunga campagna
promozionale della storia della pubblicità. Ne sono state messe in
circolazione almeno 50 milioni di copie, gratuite, nei supermercati, e
sono una fonte di ispirazione esattamente tanto quanto si potrebbe
immaginare.
Tuttavia molte persone pensano con tenerezza alla Maxwell House
Haggadah, per il piacere leggero che evoca. La versione Maxwell House
è, in se stessa, una sorta di barzelletta ebraica – provate a nominarla
a un gruppo di ebrei senza che scappi una risata. Per di più è gratis
e, come la bevanda senza fronzoli alla caffeina che pubblicizza,
soddisfa una necessità di base.
Il più leggendario di tutti i Seder – che, in un twist postmoderno,
viene raccontato all’interno della Haggadah stessa – si svolse intorno
all’inizio del II secolo a Bnei Barak, tra i più grandi studiosi
dell’antichità ebraica. Si interruppe prematuramente quando alcuni
studenti entrarono per annunciare che era ora delle preghiere del
mattino. Se anche avessero letto tutta la Haggadah dall’inizio alla
fine, seguendo al dettaglio tutte le prescrizioni e cantando ogni
singolo verso di ogni canzone, hanno sicuramente speso la maggior parte
del tempo facendo altro: estrapolando, discettando, discutendo. La
storia dell’Esodo non deve essere semplicemente recitata, bisogna
confrontarcisi.
Se anche la Haggadah Maxwell House non si è mai innalzata a incontrare
le necessità spirituali e intellettuali del Seder, ha soddisfatto in
maniera adeguata gli ebrei di una o due generazioni fa, che conoscevano
bene i rituali. Ma gli attori non conoscono più bene la parte. In una
sorta di ulteriore Esodo, gli ebrei americani si sono spostati: dalla
povertà al benessere, dalla tradizione alla modernità, dalla conoscenza
di una storia condivisa alla perdita della memoria collettiva.
I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano nativi
nell’ebraismo. Noi siamo il contrario: competenti sui divi americani,
ma troppo ignoranti sugli eroi ebrei. Così ci comportiamo come
immigrati nei confronti dell’ebraismo: siamo attenti, neghiamo, ci
sentiamo a disagio e rischiamo di scivolare nell'indifferenza. Nella
terra straniera della nostra fede abbiamo urgente bisogno di un libro
guida.
Nonostante significhi “narrazione”, la Haggadah non si limita a
raccontare una storia: è il nostro libro della memoria vivente. Non è
sufficiente raccontare nuovamente la storia: dobbiamo tuffarci in essa
con empatia totale. La Haggadah ci dice che “in ogni generazione ognuno
deve vedere se stesso come se fosse colui che è uscito dall’Egitto”. Si
tratta di un tuffo che è una sfida che spaventa. E per la mia
generazione mette ansia in una maniera anche peggiore di quanto non lo
facesse a coloro che nelle generazioni precedenti cercavano
disperatamente di assimilarsi. Perché ora, oltre alla mancanza di
educazione e conoscenze in cose ebraiche, ora c’è anche l’ombra del
compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e dei temi ebraici nella nostra cultura
popolare è così forte che siamo intossicati dall’immagine artificiale
di noi stessi. Anche io adoro i telefilm della serie Seinfeld, ma non è
forse un problema quando vengono citati come riferimento per l’identità
ebraica di qualcuno? Per molti di noi essere ebrei è diventato,
soprattutto, una cosa umoristica. Tutto quello che ci rimane dopo il
vuoto di sicurezza identitaria e di profondità è la risata.
Più o meno cinque anni fa ho notato in me un senso di mancanza. Forse
mi era stato ispirato dalla paternità, o semplicemente
dall’invecchiare. Nonostante io sia stato educato in una in una casa
ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo praticamente nulla di
quello che sarebbe dovuto essere il mio sistema di valori.
Ancora peggio, ero soddisfatto di quel poco che sapevo. Qualche volta
avevo pensato alla mia posizione come a un rifiuto, ma non si può
rifiutare qualcosa che non si capisce e che non si è mai posseduto.
Qualche volta ci pensavo come se fosse un risultato, ma il rinunciare
passivamente non è affatto un risultato.
Perché dunque ho distolto l’attenzione dai miei libri e mi sono messo a
fare l’editing di una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo
avanti nella conversazione che potevo udire a malapena, attraverso la
porta chiusa della mia ignoranza; un passo avanti verso un ebraismo di
punti di domanda e non di virgolette, verso la storia del mio popolo,
della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino il mio, che ha sei anni, adora le storie – miti
scandinavi, Roald Dahl, racconti della mia infanzia – ma nessuna è
amata più delle storie della Bibbia. Così tra il bagno e il letto mia
moglie e io spesso gli leggiamo delle storie dalla Bibbia. Ama
ascoltarle, perché sono le storie più grandiose mai raccontate. E noi
amiamo raccontargliele, per una ragione differente.
Lo abbiamo aiutato ad imparare a dormire tutta la notte, a usare una
forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a dirci arrivederci. Ma
nessuna lezione è più importante di quella che non viene mai imparata
ma è sempre studiata, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso
a prestito da una generazione e dato in prestito a quella successiva:
come andare alla ricerca di se stessi.
Qualche sera fa, dopo aver sentito il racconto della morte di Mosè per
l’ennesima volta – mio figlio ha appoggiato la testa ancora umida sulla
mia spalla.
“C’è qualcosa che non va?” gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Ha scosso la testa.
“Sei sicuro?”
Senza alzare il capo ha chiesto se Mosè è esistito davvero.
“Non lo so – gli ho risposto – ma siamo parenti. Fra lui e noi esiste
un legame”.
Jonathan
Safran Foer
(The
New York Times, aprile 2012, versione italiana di Ada Treves)
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Qui Milano - Il
Consiglio verso un rinnovo anticipato
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E ora cosa succede? Se lo
stanno chiedendo in molti nella Comunità ebraica di Milano, da quando
ieri si è diffusa la notizia che altre due lettere di dimissioni erano
arrivate nelle mani del segretario generale Alfonso Sassun. Perché se
non si può dire che la decisione di Sara Modena e Yasha Reibman sia
giunta inaspettata, dopo l’ultima riunione di Consiglio in cui i due
consiglieri eletti nella lista Per Israele erano stati più volti a un
passo dal dimettersi, come già diversi altri negli scorsi mesi, lascia
comunque un sentimento di amaro in bocca, perché, come dicono in molti
e trasversalmente, un Consiglio che non porta a termine il proprio
mandato rappresenta una sconfitta per tutti.
Una sola infatti la certezza: essendo rimasti in carica meno di due
terzi di coloro che furono eletti nel maggio 2010, solo 12 consiglieri
su 19, secondo lo statuto il Consiglio è da considerarsi decaduto (una
situazione senza precedenti, almeno negli ultimi trent’anni). Una
previsione che a partire dal prossimo mandato per le elezioni
anticipate richiederà invece le dimissioni del 50 per cento del
Consiglio originario, come da nuovo statuto dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane approvato nel dicembre 2010.
“Penso che questo sia il momento peggiore per lasciare il governo della
Comunità scoperto - le parole del presidente Roberto Jarach - Se forse
l’emergenza finanziaria è passata, siamo ancora in un momento molto
delicato e ci sono tante decisioni da prendere”. E a rivendicare i
risultati raggiunti da questa maggioranza è stato Stefano Jesurum, che
afferma: “Siamo stati eletti con il motto ‘Yes oui ken’ e abbiamo
dimostrato che le cose si possono fare. Abbiamo riportato in ordine i
conti della Comunità, la Casa di Riposo funziona sempre meglio, abbiamo
potenziato il rabbinato, a dispetto delle accuse che ci vengono mosse
in questo ambito”.
Rammarico per la caduta del Consiglio, anche se con una chiave di
lettura diversa è stata espressa anche dai consiglieri di opposizione
Raffaele Turiel e Guido Osimo. “Le relazioni erano difficili e il clima
no - ha spiegato Turiel - La non accettazione del documento presentato
dalla minoranza nell’ultima seduta è stato l’ultimo segno
tangibile di questa situazione. E dal mio punto di vista, ha
contribuito anche il fatto che le misure necessarie per risolvere i
problemi della Comunità non fossero portate avanti in modo adeguato e
con tempi certi”. “Gli ultimi mesi del Consiglio hanno rappresentato
una fase davvero poco produttiva. Forse anche noi dell’opposizione
abbiamo commesso degli errori” il
commento di Osimo.
Dure sono le parole del comunicato diffuso nella mattinata di oggi
dall’intera maggioranza che esprimono
rammarico per una ‘decisione irresponsabile’, per il ‘rifiuto al
confronto democratico’ e per la ‘contrapposizione sterile e
demagogica’: “La maggioranza che ha fin qui governato la Comunità - si
legge - ha la serenità di chi sa di aver gestito con rispetto e
correttezza il mandato assegnatole dagli iscritti e di aver fatto tutto
il possibile riuscendo a riportare la Comunità ad una situazione che
consente di affrontare un futuro che adesso è di nuovo possibile”. “Le
nostre sono le ultime di una lunga serie di dimissioni che sono
arrivate proprio perché il gioco democratico dal nostro punto di vista
non c’è stato - la replica di Reibman - Il governo di una Comunità
ebraica deve essere basato su un continuo confronto tra le varie anime.
In questo il Consiglio abbiamo invece assistito a una costante
delegittimazione della minoranza e del ruolo del rabbinato”. “Penso che
le sei precedenti dimissioni, le quattro persone che hanno declinato
l’invito a entrare in Consiglio e il numero di cancellazioni dagli
iscritti comunitari dimostrino come fosse necessario rimettere il
mandato nelle mani degli elettori” gli fa eco Modena.
Ma alla nuova fase della politica comunitaria che si apre con la
necessità di richiamare gli ebrei milanesi alle urne, si affiancano
tanti interrogativi da risolvere dal punto di vista tecnico. Le
dimissioni arrivano infatti in un periodo di transizione per l’intero
ebraismo italiano. Con le elezioni del 10 giugno, entrerà infatti a
pieno regime il nuovo statuto UCEI. E se tutti gli iscritti sono
chiamati all’elezione del primo “parlamentino” dell’ebraismo italiano,
la nuova legge prevede anche importanti novità a livello comunitario.
Prima fra tutte dal punto di vista di disciplina delle elezioni: non
essendosi la Comunità di Milano dotata di un proprio regolamento
elettorale sarà necessario utilizzare la normativa in esso contenuta.
Che tra le altre cose prevede la non ricandidabilità dei consiglieri
dopo tre mandati già a partire dalla prossima legislatura, una
previsione che, se verrà confermata l’adozione dello statuto UCEI, e
non si andrà a una corsa contro il tempo per approvare un regolamento
elettorale milanese (come già accaduto a Roma) toccherà ben sette
esponenti dell’attuale Consiglio nonché storici volti storici della
politica comunitaria, Roberto Jarach, Milo Hasbani, Sara Modena, Yasha
Reibman, Michele Boccia, Avram Hason, David Piazza. A risolvere tutti i
problemi tecnici è chiamato il segretario generale della Comunità
Sassun, in contatto costante col segretario UCEI Gloria Arbib. Perché
l’altra incognita è se sarà possibile andare a elezioni per il
consiglio della Comunità in concomitanza con le elezioni UCEI. I tempi
tecnici richiedono che le elezioni siano convocate con almeno 60 giorni
di anticipo, quindi entro il 10 aprile, ma potrebbe essere necessaria
una proroga per la presentazione delle liste, che per l’Unione dovrà
arrivare entro il 16 aprile. Queste e altre questioni troveranno una
sistemazione nei prossimi giorni. La festività di Pesach potrà portare
poi per tutti una pausa di riflessione. Dopo di che si entrerà nella
fase della campagna elettorale. Con l’auspicio di tutti che per quanto
possibile la Comunità non si ritrovi ulteriormente divisa.
Rossella
Tercatin - twitter
@rtercatinmoked
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Pasqua
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Quest’anno, com’è noto, la
Pasqua cristiana e quella ebraica, praticamente, coincidono. Tale
circostanza dovrebbe stimolare una riflessione sullo stato attuale dei
rapporti tra le due religioni, dalla cui possibilità di dialogo,
comprensione e pacifica coesistenza dipendono, in così larga parte, i
destini di tanti esseri umani, e di chissà quante generazioni future.
Non abbiamo mai fatto sconti, dalle colonne di questa Newsletter, alle
posizioni della Chiesa, tutte le volte che esse ci siano sembrate
indicare una tendenza al riflusso verso un passato preconciliare, alla
teologia del disprezzo, dell’emarginazione, dell’invito alla
conversione. Un passato che, purtroppo, tante volte pare ritornare,
nelle vesti di un eterno, immutabile presente. Ma abbiamo anche
segnalato, con altrettanta puntualità – e con cauta speranza – i passi
positivi, che pure ci sono stati. Il più importante dei quali, a mio
giudizio, è rappresentato dai capitoli sulla morte di Cristo scritti
nel libro, dedicato alla vita di Gesù, di papa Ratzinger, ove (con
un’interpretazione della nota frase “il suo sangue ricada su di noi e i
nostri figli” in chiave di ‘redenzione’, anziché di ‘automaledizione’)
si propone un’esegesi evangelica nuova e coraggiosa, definitivamente
(?) assolutoria del popolo ebraico, indubbiamente più avanzata anche
rispetto alle stesse risoluzioni della Nostra Aetate.
Abbiamo letto con grande rammarico e stupore, pertanto, la lettera
aperta che è stata pubblicata, il 16 febbraio scorso, sul “Quotidiano”
di Bari, nel quale Bernardo Kelz, commentando le iniziative svolte a
Bari, in occasione del Mese della Memoria (organizzato da Regione
Puglia, Associazione Presidi del Libro, Provincia di Bari e Università
di Bari), segnala una frase che avrebbe pronunciato, nella sala Esedra,
l’11 febbraio, l'arcivescovo di Bari Cacucci: "Cristo ha tolto la
lebbra dal Vecchio Testamento".
Bernardo Kelz è persona universalmente stimata, di assoluta
affidabilità, molto conosciuto in Puglia e in Italia per la sua
instancabile battaglia contro l’antisemitismo e in difesa dei diritti
umani. Figlio di un eroe della Liberazione, Zygmunt Kelz - che entrò in
Italia nelle fila dell’esercito polacco, ma lasciando dietro di sé,
nell’abisso della Shoah, la prima moglie e il figlioletto, Bernard, il
cui nome ha voluto dare al suo nuovo figlio, nato in Italia, diventata
la sua nuova patria -, Bernardo junior si è sempre considero una sorta
di portavoce del fratello assassinato, ed è anche a suo nome che chiede
conto di quelle parole: “come amante della storia e soprattutto come
fratello di un bimbo cancellato a Treblinka”. Perché “la Shoah non è
altro che l'annientamento, lo sterminio di quei milioni di persone che
a quel ‘Vecchio Testamento’, nonostante tutto, sono rimasti fedeli”.
Certo, delle parole dell’Arcivescovo non c’è traccia scritta, ma solo
la testimonianza di Kelz, che le ha ascoltate. Proprio perciò,
crediamo, egli ha voluto scrivere la lettera, sperando di ottenere una
smentita, o una parola di correzione, di chiarimento, di
interpretazione. Tanto più necessaria in considerazione del particolare
contesto in cui la frase sarebbe stata pronunciata, ossia le
manifestazioni di commemorazione della Shoah, che renderebbero il suo
carattere offensivo duplice: da una parte, infatti, si parrebbe
riproporre, con parole particolarmente crude, la vecchia teologia
medioevale dell’“errore ebraico”, dell’intrinseca inanità (diventata
‘lebbra’) delle Sacre Scritture, quando non illuminate dalla Verità del
Vangelo; e, dall’altra, si farebbe ingiuria alle stesse vittime della
Shoah che si vorrebbero onorare (e che, come ha ricordato Kelz, sono
state uccise proprio in ragione della loro fedeltà all’Antica Alleanza).
Questa parola di chiarimento, però, non è ancora arrivata. Sarebbe
bene, invece, se arrivasse. Lo meriterebbe, se non Bernardo junior,
certamente Bernard senior, schiacciato da persone che portavano, esse
sì, la lebbra nel cuore.
Francesco
Lucrezi, storico
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Israele guarda alla Grecia
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50
miliardi di beni. Sono
quelli che il governo Papademos ha messo all'incanto. Fra di essi
figurano società dell'acqua e dell'energia, l'area del vecchio
aeroporto di Hellenikon destinataria di un progetto urbano, 37
aeroporti regionali, 12 porti di prima categoria e 350 di piccole
dimensioni, sei autostrade e terreni da costruzione per una superfice
totale di 3.000 km quadrati. Fra i possibili investitori anche Israele.
I rapporti di amicizia dei due Stati mediterranei si sono
intensificati negli ultimi tempi, a dimostrarlo anche una visita
del'amministratore delegato dell'Agenzia sulle privatizzazioni greca,
Costas Mitropoulos, a Tel Aviv.
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Repubblica pubblica oggi, insieme
al Süddeutsche Zeitung (dopo che Die Zeit l'ha rifiutata), ad El Pais
ed al danese Politiken, una poesia di Günter Grass dal titolo: "Quello
che deve essere detto".
Emanuel Segre Amar
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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