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Tra cinismo e calcoli
d’interesse |
È troppo presto per fare dei
bilanci, così come anche delle precipitose valutazioni, sull’insieme
degli elementi che si accompagnano al confronto tra Israele e Hamas,
che ha conosciuto una recrudescenza violentissima nelle due settimane
appena trascorse. Ancora non sappiamo se la cosiddetta “tregua” reggerà
alla prova dei fatti, dopo lo svolgimento dell’operazione «pilastro di
sicurezza». Non sorprenderebbe, quindi, se si dovessero registrare
nuovi sviluppi sul campo, anche a breve. L’attività di provocazione del
movimento islamista è ben lontana dall’essersi esaurita, se non altro
perché la sua stessa ragion d’essere riposa nella guerra perpetua ad
Israele. Difficile immaginare, a meno che non avvenga una sorta di
improbabile rivoluzione copernicana, uno scenario dove i suoi militanti
depongano l’ascia di guerra. Alla natura propria di Hamas, che è per
così dire vecchia storia, si legano poi due altre cose, che congiurano
a favore della prosecuzione delle ostilità: il movimento islamista,
egemone nella Striscia di Gaza dopo averla epurata della presenza di
Fatah, deve costantemente puntellare il suo potere dinanzi ad una
società civile che gli ha offerto il suo consenso ma che adesso chiede
contropartite in termini di risorse e benefici; inoltre, esso sconta la
concorrenza, sempre più forte, che i movimenti di osservanza salafita e
qaedista gli stanno facendo, nel tentativo di strappargli lo scettro,
per poi instaurare un fantasmagorico “emirato di Gaza”. Hamas non ha
vinto nulla in questo round bellico ma ha cercato di ottenere qualche
risultato simbolico, di cui aveva disperatamente bisogno, per
dimostrare che il suo potenziale offensivo, e la sua volontà di usarlo
contro Israele, sono intatti. Da ciò il ricorso all’uso di missili di
media gittata, rivolti contro Tel Aviv e Gerusalemme, così come il
tentativo di riprendere le azioni terroristiche in territorio
israeliano, malgrado le innumerevoli difficoltà che gli aspiranti
“martiri” per fortuna incontrano. L’esplosione sul mezzo pubblico che
ha causato ventitré feriti è il primo atto di tal genere che si
registra dal 2006, dopo che l’uscita delle Forze di difesa israeliane
da Gaza e la perimetrazione della Cisgiordania, attraverso la barriera
di protezione, avevano concorso attivamente a ridurre l’impatto di
quelle aggressioni contro i civili. Al di là dell’offesa nei confronti
delle vittime, questi eventi non mutano alcunché sul piano del bilancio
strategico ma intendono mandare un segnale preciso, ossia che per Hamas
la lotta proseguirà fino a che l’odiata «entità sionista» non
scomparirà. Per gli uomini del movimento radicale l’alternativa è
altrimenti secca, trattandosi di scomparire essi stessi o, comunque, di
perdere qualsiasi credibilità nei confronti di quei palestinesi di Gaza
(quanto siano, al momento, non è dato saperlo) che continuano a
sostenerli. Dopo di che la recrudescenza delle violenze si inquadra
anche in fattori di lungo periodo e in una logica che va al di là del
rapporto antagonistico con Israele. Il primo elemento da rilevare è la
perdurante scissione in due della rappresentanza politica palestinese.
Parrebbe un riscontro ovvio ma la diarchia tra ciò che resta
dell’Autorità nazionale palestinese, insediatasi a Ramallah e guidata
dagli screditati eredi di Arafat, da una parte, e i radicali di Mahmud
Abbas, oramai ben ramificati nei trecentosessanta chilometri quadrati
della Striscia di Gaza, è l’orizzonte della politica araba in quelle
che dovrebbero costituire le terre del futuro “Stato di Palestina”. Il
divario è incolmabile e, malgrado i tentativi di mediazione intrapresi
negli anni passati dagli Stati limitrofi, a partire dall’Egitto,
indietro non si tornerà. Non c’è in corso solo una guerra di Hamas
contro Israele ma anche dell’islamismo contro al-Fatah nonché l’iconica
e senescente Organizzazione per la liberazione della Palestina. La
posta in gioco è il controllo della Cisgiordania e, di riflesso,
l’influenza su parte della componente palestinese della Giordania. Non
è un caso, tra l’altro, se Abu Mazen e i suoi uomini non si siano fatti
sentire durante queste settimane, al contempo ripiegati sui problemi di
casa propria e solleciti nell’osservare, con un qualche compiacimento,
le difficoltà del parente-antagonista. Un altro fattore da considerare
è la parabola discendente della «primavera araba». Si tratta di un
fenomeno nato perlopiù come insieme di movimenti spontanei di base,
rivolti a chiedere una maggiore equità sociale a Stati dove le
diseguaglianze sono e rimangono moneta corrente, insieme ad una qualche
libertà in regimi rigorosamente oppressivi, e che si trova adesso a
registrare i cascami dell’impotenza. Sia pure con andamenti altalenanti
e risultati eterogenei, perlopiù conclusisi con l’estromissione o
l’eliminazione fisica degli esponenti più compromessi delle vecchie
leadership, i tumulti non hanno prodotto nessun reale effetto di
liberalizzazione. Purtroppo era una cosa facile da prevedere già a suo
tempo, non solo per il pervicace controllo che alcuni gruppi ristretti
continuano ad esercitare sui processi decisionali nei paesi dell’area
mediterranea e mediorientale ma anche per la marginalità che questi
ultimi registrano rispetto al mercato internazionale del lavoro.
Nell’insoddisfazione crescente si aprono così fenditure per
l’intromissione in campo politico dell’islamismo militante, che si
propone come alternativa ai mali della società. In verità più che
intorno ad Israele il vero fuoco del confronto geopolitico ruota
sull’Africa subsahariana e centrale, quella lunghissima area di terre
che parte dalla Mauritania e arriva a ciò che resta della Somalia. È lì
che si stanno svolgendo una pluralità di guerre, poco o nulla
raccontate dai media italiani e occidentali, poiché dal controllo di
quei territori – e delle risorse che si trovano in esse – deriveranno
molte delle egemonie regionali e continentali nei tempi a venire. Basti
pensare che si ha a che fare con Stati in forte crescita demografica,
dove la cospicua presenza cristiana è sempre di più contrastata e nei
quali la Cina ha fatto o sta facendo forti investimenti, nel tentativo
di aggiudicarsi un ruolo di monopolista, o comunque di soggetto
privilegiato, nel controllo delle materie prime. Ha i mezzi materiali e
finanziari per cercare di raggiungere questo obiettivo e si sta
comportando di conseguenza, contando anche sulle difficoltà, che a
volte si traducono in un vero e proprio vuoto, della politica
americana, la vera assente nelle vicende di queste ultime settimane. È
infatti questo un terzo elemento da considerare e che rimanda al
declino dell’egemonia statunitense in diverse aree del globo.
Argomento, quest’ultimo, complesso da analizzare e da motivare ma che
si riconduce, per più aspetti, all’insostenibile posizione debitoria di
Washington (ovvero, delle famiglie americane) e al bisogno di
disimpegnarsi dai troppi teatri di confronto. Da tempo Hamas ragiona,
per parte sua, su queste cose. Pur essendo un movimento di osservanza
sunnita, filiazione dei Fratelli musulmani egiziani, tuttavia, come
ogni organizzazione del radicalismo islamista, nel corso del tempo si è
dovuta ibridare per potersi consolidare. Lo scoglioso e rapsodico
rapporto con l’Iran sciita di Ahmadinejad, sia pure con aspetti e una
natura diversa da quello intrattenuto direttamente da Hezbollah, è
stato uno dei pilastri della sua ascesa politica. Gli effetti delle
sollevazioni popolari di questi due anni hanno sconvolto l’intero
quadro regionale. Il vero nodo critico, per Hamas, come per altri
soggetti presenti sul proscenio, è il destino della Siria. Che il clan
Assad sia destinato prima o poi a cadere è fatto risaputo e anche messo
nel conto. Ma i tempi e le modalità hanno il loro peso. Così come anche
gli scenari a venire, essendo probabile che il giorno in cui gli
alawiti si trovassero defenestrati si andrebbe verso una divisione di
fatto del paese, non molto diversamente da quanto è già avvenuto, o sta
avvenendo, ne condomini libico e in quello iracheno. Tuttavia è questa
un’ipotesi che tormenta i sonni della dirigenza iraniana, preoccupata
di trovarsi isolata, in mezzo a una regione controllata da uomini e
gruppi che fanno riferimento all’Arabia Saudita, al Qatar e alla
Turchia, tre tra i burattinai in queste circostanze. Teheran, in ciò
appoggiata da Mosca ma trattata con un occhio di riguardo anche da
Pechino (che deve tra l’altro gestire l’articolata presenza musulmana
nelle regioni meridionali del paese), da alcuni anni ha quindi
intrapreso una sorta di partnership con elementi radicali, ben presenti
nelle terre controllate da Hamas, per la fornitura di materiale
bellico. Si tratta di una triangolazione che lega l’Iran al Sudan e
quest’ultimo a Gaza, per il tramite della quale componenti del
materiale missilistico vengono portate a Khartoum e dai lì, una volta
assemblate, inviate a destinazione finale. I razzi fatti in casa non
hanno altrimenti la gittata dei Fajr 5, utili per raggiungere obiettivi
più ambiziosi della regione meridionale d’Israele. Già tempo addietro
Gerusalemme aveva proceduto a colpire una colonna di mezzi di trasporto
militare in Sudan, così come il 23 ottobre scorso aveva bombardato la
fabbrica Yarmuk, proprio a Khartum. Quale sia lo stato dell’arsenale di
questi gruppi antagonisti ad Hamas, e dell’organizzazione islamista
stessa, allo stato attuale non è facile dirlo. Senza il contributo
iraniano e l’acquiescenza egiziana sarebbe probabilmente poca cosa. Ma
così come in parte si è ricostituito dopo l’operazione «Piombo fuso»,
di tre anni fa, è plausibile che, qualora non dovessero intervenire
fattori nuovi, nonché inediti, quel potenziale possa di nuovo
sedimentarsi. Molto, se non tutto, dipenderà però dal destino delle
alleanze che andranno definendosi, quando il quadro regionale sarà meno
movimentato – e confuso – di quanto non si presenti ora. Hamas sta
senz’altro ragionando su quelli che devono essere i suoi rapporti a
venire con gli sciiti. Anche da ciò dipenderà l’atteggiamento che
assumerà verso Israele. Poiché quest’ultimo è spesso una cinica
variabile di circostanza rispetto alla intelaiatura dei legami con il
mondo arabo-musulmano. Più complessi dell’intarsio di un tappeto
persiano.
Claudio
Vercelli
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Nugae
- Momenti di trascurabile felicità
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Nei momenti di particolare
tensione e preoccupazione c’è una medicina che aiuta a stare meglio, un
rimedio naturale senza effetti collaterali che l’universo e la
letteratura hanno messo a disposizione dell’uomo. Si tratta di tutti
quei brevi istanti che punteggiano le giornate, quei quadretti
d’impercettibile poesia, quelle vicende minuscole della vita quotidiana
che per un motivo o per un altro strappano un sorriso. Trovarli può
sembrare difficilissimo perché nella serena regolarità passano quasi
inosservati. Ma in realtà quando tutto è grigio si manifestano in modo
spontaneo, perché a un cuore in pena sembrano cose enormi. Si gode per
davvero con un piacere profondo e genuino delle piccole gioie della
vita di tutti i giorni. Orazio lo chiamava carpe diem (in questo senso
cogli l’attimo, non “evviva, viviamo come se non ci fosse un domani”
come a volte fa comodo interpretare), Francesco Piccolo li definisce
efficacemente momenti di trascurabile felicità. Anche l’ebraismo ne
fornisce tanti. I pranzi di shabbat con tutta la famiglia a casa della
nonna che si trasformano senza accorgersene in un infinito pomeriggio
di partite a carte, quando in viaggio si fa amicizia con una coetanea e
si scopre casualmente di essere cugine, e quando davanti al Colosseo si
incontra un gruppo di turisti israeliani e pieni di entusiasmo e si
cerca di ascoltare quello che dicono anche se non si capisce una parola
di ebraico. Quando al seder di Pesach il braccio fa male ma non si
vuole lo stesso rinunciare a stare appoggiati sul gomito, perché
insomma si può solo stasera, e quando otto giorni dopo la festa finisce
e si va al ristorante, si ordina con emozione la pizza che ovviamente
non arriva mai e poi quando finalmente si dà il primo morso ci si
accorge che in fondo è sempre la stessa cosa, non ha un altro
sapore, ma l’anno dopo riscoprirlo sarà una delusione lo stesso.
Momenti di trascurabile ebraicità.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche – twitter @MatalonF
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Israele - Likud alle urne
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Leggi la rassegna |
I membri
del Likud si recano oggi alle urne per le elezioni primarie in vista
delle politiche del gennaio 2013 in cui il partito di Benyamin
Netanyahu si presenterà con quello di Israel Beitenu, del ministro
degli Esteri Avigdor Lieberman. Cresce l'attesa per il ritorno alla
politica attiva di Tzipi Livni, ex dirigente di Kadima e ora, secondo
la stampa, impegnata a organizzare una nuova lista centrista con cui
presentarsi alle politiche.
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“La
mia Lazio del cuore ha i colori di Israele”. Molto significativa e
toccante la testimonianza, oggi su Repubblica, di un tifoso ebreo
laziale affranto per i ripetuti fenomeni di antisemitismo tra i
supporter biancocelesti (e non solo).
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