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27 dicembre 2012 - 14 Tevet 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
elia richetti Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
 

Wa-ychì è una Parashah breve, che narra soprattutto degli ultimi sprazzi di vita di due personaggi: Ya‘aqòv e Yosèf. Tuttavia, benché tratti principalmente della morte di queste persone, comincia con l’espressione “Wa-ychì Ya‘aqòv”, “visse Ya‘aqòv”. Da qui i nostri Maestri sono arrivati a sostenere che “Ya‘aqòv avìnu lo’ meth”, “il nostro patriarca Ya‘aqòv non è morto”.     Ya‘qòv non ha mai avuto una vita facile. Dalla lotta ancora nel grembo materno, all’odio del fratello, ai patimenti ed agli imbrogli di Lavàn, alla morte di Rachèl, l’ingiurioso atto di Re’uvèn, il lutto per la presunta morte di Yosèf, la carestia, il lasciare la terra per recarsi in Egitto, è stato tutto un continuo di ansie, di dolori, di incertezza. Ciò nonostante, in nessun momento ha smesso di avere fiducia in Ha-qadòsh Barùkh Hu’ e di inculcarla nei suoi discendenti. Per questo motivo i Maestri affermano che “Tzaddiqìm be-mithathàm qeru’ìm chayìm”, “i giusti, anche dopo la morte sono da considerare vivi”: non solo il loro messaggio, il loro esempio ed il loro insegnamento dura ben oltre la loro vita terrena, ma anche questa stessa vita terrena, grazie alla loro fiducia nella giustizia e nella protezione divina, dura a lungo e si conclude, come indica la Torah, “in sazietà di giorni”, ossia avendo goduto di ogni aspetto in modo pieno e completo.


Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
Nell'omelia Urbi et Orbi di questa settimana natalizia, il Pontefice Benedetto XVI ha piazzato il conflitto in Israele e in Palestina al secondo posto nelle preoccupazioni ecumeniche, dopo le stragi in Siria. Spesso in passato, in simili occasioni, Israele e Palestina erano state menzionate al primo posto, segno del deterioramento che avviene altrove. Alta la preoccupazione per la situazione in Egitto, ma non al punto di ricordare la comunità dei Copti, solo citate in un più ampio contesto le stragi di Cristiani in Nigeria, non notate le difficili circostanze delle comunità cristiane in Iraq e in Iran. Il ripetuto e consueto riferimento al conflitto in Israele e Palestina come punto di leva del disordine mondiale omette, una volta di più, di registrare che la fuga dei cristiani, e dei cattolici in particolare, dal Medio Oriente riflette l'opprimente intimidazione dell'Islam. La de-cristianizzazione di Betlemme è il prodotto diretto del nazionalismo arabo-musulmano-palestinese a livello locale, e ha ben poco a che fare con l'occupazione militare israeliana che, semmai, ha cercato di tutelare la Chiesa della Natività dalla profanazione dei movimenti integralisti islamici. A Nazaret, che fa parte dello stato d'Israele, i Cristiani si difendono molto meglio e sono in crescita. Un pesante strascico di questo non casuale equivoco si è visto la sera della vigilia natalizia nella trasmissione televisiva Terra sul Canale 4. Si è trattato di una delle più unilaterali, banali, sconcertanti, fuorvianti rappresentazioni del conflitto in Terra Santa, in cui vi è sempre e solo un lato di "cattivi", materialisti, stranieri, militaristi, squilibrati, sanguinari, gli Israeliani – con un Israele che viene consegnato come episodio inevitabilmente erroneo, passeggero e a termine della storia mondiale – e un lato di "buoni", umanisti, occupati, pacifisti, emarginati, dispossessati, i Palestinesi (non è chiaro se Cristiani o Musulmani). La parola "terrorismo" non fa parte di questo lessico dolciastro e confessionale. Hamas non esiste. La barriera di difesa è venuta su per pura durezza dei cuori, non ce n'era alcun bisogno dal punto di vista della sicurezza (dei Palestinesi). Alla fine uno dei "buoni", un grosso signore mite e sorridente, spiega che per il Corano tutti gli ebrei se ne dovranno andare da questa Terra. La giornalista italiana che lo intervista ribatte: "Eh, si?". Per carità di patria non menzioniamo il nome delle tre (ingenue? convinte? inette?) inviate di Terra in Terra Santa e del responsabile dell'intera trasmissione. Per il sottoscritto – che da oltre cinquant'anni conosce bene quei luoghi e criticamente ne segue le vicende – davvero pietosa. Tu quoque, Mediaset?

davar
Progetti - Un giorno di studio per studiare sempre
Yom HaTorah torna
domenica 10 marzo 2013
Appuntamento con lo studio, genitori e figli insieme, con la seconda edizione dello Yom HaTorah. La grande occasione di incontro e di conoscenza ritorna il 10 marzo attraverso l’Italia ebraica e chiama persone diverse, ma tutte consapevoli dell’importanza fondamentale dello studio per la sopravvivenza del popolo ebraico. Riaffermiamo il principio di studiare anche in onore dei nostri maestri, in questo caso il rav Raffaele Grassini, che il suo ricordo ci sia di benedizione, esempio luminoso della generazione di rabbanim che ha segnato il nostro percorso di ebrei contemporanei. Riproponiamo un tema forte: “Non tentare di indovinare il futuro e non praticare magia”. Lo facciamo per ricordare a noi stessi di essere i primi artefici, con l’aiuto di Hashem, del nostro futuro e per riaffermare che lo studio, al di là di questa gioiosa occasione, deve essere il nostro appuntamento di ogni giorno con l’identità. Tanti, ancora, gli impegni in calendario. Rafforzare il Collegio rabbinico italiano attraverso una profonda riorganizzazione, mediante l’istituzione di stabili cattedre di insegnamento che permetteranno di seguire al meglio chi studia e la nascita di un polo di formazione settentrionale sull’asse Milano-Torino. Rilanciare il progetto di una politica nazionale per la kasherut, che porti alla tutela della produzione italiana, alla creazione di un ufficio centrale e di un marchio autorevole. Impegni da perseguire con realismo. Senza mai rinunciare ai nostri sogni. Fra i tanti anche il progetto di avviare nuove alleanze sulla kasherut con altre certificazioni religiose. E non solo per cercare nuove opportunità di crescita, ma anche per mettere in comune esperienze e sensibilità diverse nel nome della pace e della convivenza. Forse solo un’utopia destinata a inciampare nella realtà, ma in ogni caso un orizzonte a cui dobbiamo guardare con coraggio, forti di quella solida, preziosa identità che abbiamo preso in consegna dalle generazioni che ci hanno preceduto e che abbiamo la responsabilità di trasmettere con forza e amore a quelle che verranno.Appuntamento con lo studio, genitori e figli insieme, con la seconda edizione dello Yom HaTorah. La grande occasione di incontro e di conoscenza ritorna il 10 marzo attraverso l’Italia ebraica e chiama persone diverse, ma tutte consapevoli dell’importanza fondamentale dello studio per la sopravvivenza del popolo ebraico. Riaffermiamo il principio di studiare anche in onore dei nostri maestri, in questo caso il rav Raffaele Grassini, che il suo ricordo ci sia di benedizione, esempio luminoso della generazione di rabbanim che ha segnato il nostro percorso di ebrei contemporanei. Riproponiamo un tema forte: “Non tentare di indovinare il futuro e non praticare magia”. Lo facciamo per ricordare a noi stessi di essere i primi artefici, con l’aiuto di Hashem, del nostro futuro e per riaffermare che lo studio, al di là di questa gioiosa occasione, deve essere il nostro appuntamento di ogni giorno con l’identità. Tanti, ancora, gli impegni in calendario. Rafforzare il Collegio rabbinico italiano attraverso una profonda riorganizzazione, mediante l’istituzione di stabili cattedre di insegnamento che permetteranno di seguire al meglio chi studia e la nascita di un polo di formazione settentrionale sull’asse Milano-Torino. Rilanciare il progetto di una politica nazionale per la kasherut, che porti alla tutela della produzione italiana, alla creazione di un ufficio centrale e di un marchio autorevole. Impegni da perseguire con realismo. Senza mai rinunciare ai nostri sogni. Fra i tanti anche il progetto di avviare nuove alleanze sulla kasherut con altre certificazioni religiose. E non solo per cercare nuove opportunità di crescita, ma anche per mettere in comune esperienze e sensibilità diverse nel nome della pace e della convivenza. Forse solo un’utopia destinata a inciampare nella realtà, ma in ogni caso un orizzonte a cui dobbiamo guardare con coraggio, forti di quella solida, preziosa identità che abbiamo preso in consegna dalle generazioni che ci hanno preceduto e che abbiamo la responsabilità di trasmettere con forza e amore a quelle che verranno.

Settimio Pavoncello, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Pagine Ebraiche, gennaio 2013

Qui Londra - Limmud, una settimana di confronto
Avete mai provato a fare attenzione alle parole che sentite quando incrociate una conversazione per strada? Io lo faccio continuamente, e ho naturalmente portato il mio gioco anche a Limmud, la conferenza in cui ogni singolo ebreo può essere al tempo stesso insegnate e allievo, partecipante e organizzatore. Ho preso nota in maniera scientifica: su ogni cinque conversazioni orecchiate, tre dicono "ebreo", una "ortodosso" e una "riformato". Il fatto non dovrebbe sorprendere, visto che l'unico - seppur centrale - legame tra una lezione di Ghemarah, una sessione di yoga basata sulle sefirot e un laboratorio di musica yemenita è l'appartenenza ebraica. Da 32 anni, un movimento chiamato Limmud, partito dal basso e composto quasi interamente da volontari, offre agli ebrei di ogni luogo, professione, età, denominazione e affiliazione la possibilità di evadere dal Natale delle loro città e riunirsi in un campus universitario a nord di Londra deserto dagli studenti in vacanza per trascorrere una quasi settimana (da venerdì a giovedì) di intensissimo e rigoglioso confronto con se stessi, con gli altri, con i maggiori pensatori, artisti, accademici, rabbini e leader dell'ebraismo mondiale oltre che con i testi, con l'arte, i film, la musica, i libri e tutto ciò che il mondo ebraico ha vissuto e prodotto nell'ultimo anno. A Limmud chiunque può offrire una sessione, a tutti è concesso e anzi richiesto di dire la loro, purché non offendano altri. Il programma è quindi composto come un potluck: una cena nella quale “ognuno porta qualcosa” senza mettersi d'accordo prima. La sensazione che mi pervade, mentre cammino da un laboratorio di canto a una lezione sulla versione yiddish del Re Lear, è di essere in una sorta di osservatorio sopraelevato dal quale posso scrutare tutta la costellazione ebraica a me contemporanea, vedere quali sono le tendenze, i movimenti, che cosa interessa a chi, quali argomenti sono i più dibattuti e quali invece sono già passati di moda. Quest'anno per esempio sono chiarissime tre aree di interesse: il movimento Lubavitch, la leggenda del Dybbuk (sul quale modestamente offro anch'io una sessione: avevo captato la vibrazione giusta) e il canto come modo per creare una comunità. Non saprei immaginare tre argomenti più distanti uno dall'altro, ma le 180 pagine del programma parlano chiaro: questi sono i temi sui quali quest'anno si accumulano sessioni su sessioni, ognuna con il suo taglio particolare e il suo pubblico. Di pubblico, è facile immaginare, ce n'è per qualsiasi argomento, visto che il numero dei partecipanti supera i 2500. Numerose sono le famiglie: per loro sono a disposizione programmi speciali per bambini e ragazzi da 0 a 18 anni. Si potrebbe dire che Limmud è il grande festival della scelta, e della scelta istintiva! Ogni 70 minuti bisogna (o forse è meglio dire si può, poiché nulla, salvo il rispetto per il prossimo, è obbligatorio qui) scegliere una nuova sessione e un nuovo oratore. Qualche riga in fondo al programma può venirci in soccorso nell'ardua decisione: meglio andare a sentire rav Sperber, il grande decisore di halakhah israeliano, o piuttosto la giovane cantante britannica? E perché non una lezione sulla cucina ebraica italiana, o un confronto - fonti alla mano - tra il racconto talmudico di Chia Bar Ashi, ossessionato dall'inclinazione al male, e Orgoglio e Pregiudizio? Lasciare questo mondo incantato dopo una settimana di idillio, di pura crescita intellettuale e spirituale e di relazioni profonde mi fa sentire un po' come rabbi Shimon Bar Yochai all'uscita dalla caverna nella quale studiò Torah per 13 anni.. Proprio come rabbi Shimon cercherò di portare la luce di questi sette giorni nel mondo, per perfezionarlo.

Miriam Camerini

pilpul
Rav Sacks e i giorni più religiosi dell'anno
Per esprimere un suo ragionamento sulla religiosità al mondo d'oggi, Lord Jonathan Sacks, rabbino capo del Commonwealth, sceglie la data del 24 dicembre, e sull'International Herald Tribune lo introduce così: "Questo è il periodo più religioso dell’anno. In qualsiasi città americana o britannica il cielo notturno è illuminato da simboli religiosi, sicuramente ci sono decorazioni natalizie e probabilmente anche una menorah gigante...". (dall'Unione informa del 25/12).
Chissà che cosa ne pensano quegli ebrei che negli stessi giorni hanno pubblicamente esternato tutto il loro fastidio per le celebrazioni e i rituali altrui. Chissà poi se rav Sacks è stato letto dagli haredìm che la vigilia di Natale non studiano Torah perché è il giorno in cui gli influssi del maligno sono più potenti che mai.

Stefano Jesurum, giornalista

Violenza e inaccettabili giustificazioni
Pare che a Lerici esista un parroco che per risolvere il problema del femminicidio abbia invitato le rappresentanti del gentil sesso ad evitare di indossare abiti succinti in quanto provocatori di violenza o abusi sessuali. Il parroco, pur condannando la violenza (ci mancherebbe), sostiene che forse le donne dovrebbero fare autocritica, sostenendo che certi comportamenti le abbiano allontanate dalla virtù e dalla famiglia, scatenando (giustamente) l’ira delle associazione in difesa dei diritti delle donne. Il problema infatti, non è certo la critica al vestiario di alcune donne, quanto l’idea che la libera scelta degli abiti che una donna indossa possa essere, anche solo parzialmente, una giustificazione nei confronti della violenza. O peggio ancora, che sia il corpo della donna la causa di un abuso e non la mente malata di chi lo commette. Altra cosa è invece il giudizio su come le donne si vestono che è assolutamente legittimo. Anche noi come ebrei abbiamo una visione specifica sul tema che prevede un determinato contegno nel vestiario sia maschile che femminile. Ciò che conta in questi casi è ribadire che la legittimità della propria opinione non può essere né limitazione per nessuno né tantomeno giustificazione, neanche minima, nei confronti di questo tipo di violenza.

Daniel Funaro

notizieflash   rassegna stampa
Gerusalemme - Trovate le tracce di un antico tempio all'entrata della città   Leggi la rassegna

Gli archeologi hanno trovato i resti di un antico edificio adibito ad uso rituale all'ingresso di Gerusalemme, risalente al IX secolo a.e.v. Il rinvenimento è avvenuto durante i lavori di ampliamento dell'autostrada che collega la Capitale a Tel Aviv.
 

La riflessione di rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane pubblicata sull’Unione Informa di martedì 25 dicembre appare oggi sul Corriere della Sera.









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