Passo molto tempo con i giovani:
studenti che stanno per concludere un ciclo di studi, studenti
universitari e neolaureati che stanno per iniziare una carriera
lavorativa. Spesso mentre stanno iniziando il loro viaggio nel futuro
mi chiedono consiglio. Ecco qui qualche idea, su cui può valer la pensa
riflettere nel momento in cui iniziamo il nostro viaggio nell’anno
nuovo.
La prima cosa da fare è sognare. Apparentemente l’attività meno pratica
finisce per diventare la più pratica, quella spessa lasciata
incompiuta. Conosco persone che passano mesi a pianificare una vacanza
ma pochissimo tempo a pianificare la vita. Immaginate di partire per un
viaggio senza aver deciso dove andare. Per quanto possiate viaggiare
veloci non raggiungerete mai la vostra destinazione, perché non avete
mai deciso dove volete. In effetti più viaggerete in fretta e più
sarete persi.
I sogni sono il luogo in cui visitiamo molti paesi e paesaggi della
possibilità umana e scopriamo in quali ci sentiamo a casa. Tutti i
grandi capi spirituali sono stati grandi sognatori. Nella mia
tradizione possiamo contare Mosè, che sognava una terra di latte e
miele, e Isaia, che sognava un mondo di pace. Uno dei più grandi
discorsi del ventesimo secolo è quell’“Ho un sogno” di Martin Luther
King. Se dovessimo progettare un curriculum di studi per la felicità,
sognare sarebbe uno dei corsi obbligatori.
La seconda regola è: seguite le vostre passioni. Non c’è nulla – non la
ricchezza, il successo, i riconoscimenti o la fama – per cui valga la
pena di spendere la propria vita facendo qualcosa che non ci piace. Ho
visto troppe persone scegliere la propria professione per guadagnare
abbastanza da poter offrire al proprio partner e ai propri figli tutto
quello che desiderano, per poi perdere partner e bambini perché non
avevamo mai avuto del tempo da passare con loro. Le persone che seguono
la propria passione tendono ad avere vite felici. La loro felicità per
quello che fanno, tende ad essere contagiosa nei confronti di quelli
che incontrano. È una vita che vale la pena di vivere.
La terza cosa l’ho imparata da un psicoterapeuta sopravvissuto ad
Auschwitz, Vicktor Frankl, il cui libro Alla ricerca di un significato
della vita è uno dei più letti di tutti i tempi. Frankl diceva sempre:
non chiederti cosa vuoi dalla vita. Chiediti cosa vuole la vita da te.
Le grandi vite sono quelle in cui le persone sentono una chiamata,
hanno il senso di una vocazione. Questo è quello che ha spinto Abramo,
il nonno del monoteismo, nel suo percorso, che ha poi cambiato il
mondo. Mosè avrebbe potuto avere una vita di benessere, una vita facile
come principe d’Egitto, ma sentì il lamento del suo popolo che soffriva
sotto schiavitù, e la chiamata di Dio che voleva li portasse verso la
libertà.
C’è una storia molto nota che racconta di tre uomini che vivevano
spaccando sassi. A chi chiedeva loro cosa stavano facendo uno rispose
“Spacco sassi.” Il secondo disse “Mi guadagno da vivere.” E il terzo
“Sto costruendo una cattedrale”. Non abbiamo bisogno di chiedere quale
dei tre trovava più soddisfazioni nel proprio lavoro. Steve Jobs ha
passato tutta la vita a far diventare la tecnologia a misura d’uomo, e
a produrre cose belle. Il creatore di Google cercava di rendere il
mondo dell’informazione accessibile a tutti. Il senso del Perché
precedeva il Come. C’è un luogo in cui quello che vogliamo fare
incontra quello che urla per essere fatto; è lì che dovremmo essere.
La quarta regola è: nelle vostre vite fate spazio per le cose
importanti, la famiglia, gli amici, l’amore, la generosità, il
divertimento e la gioia. Senza di esse vi brucerete, e a metà carriera
vi troverete a chiedervi cosa ne è stato della vostra vita.
Nell’ebraismo abbiamo il sabato, un giorno dedicato al riposo ogni
settimana, in cui facciamo spazio per tutte quelle cose che sono
importanti ma non urgenti. Non in tutte le culture c’è un sabato, ma
una vita senza tempo dedicato al rinnovamento, come una vita senza
esercizio, o senza musica, o senza senso dell’umorismo, è una vita
minore.
La quinta regola è: lavorate intensamente, nello stesso modo in cui
lavorano tanto un atleta o un concertista o uno scienziato di grido. Lo
psicologo americano Mihaly Csikszentmihalyi chiama questo principio
“flusso”. Con “flusso” fa riferimento a quell’intensa esperienza che si
prova quando si lavora per un obiettivo in una maniera tale da non
essere più consapevoli del passare del tempo. Nessun grand’uomo –
neppure coloro che hanno fatto sembrare facili i loro risultati – hanno
mai ottenuto nulla senza lavorare intensamente. La parola ebraica per
servire Dio, avodah, significa anche duro lavoro.
Ci sono molte altre regole ma queste sono fra le più importanti.
Mettetele alla prova e sarete sorpresi dalla gioia che vi doneranno.
Rav Lord Jonathan Sacks,
rabbino capo del Commonweath
(versione italiana di Ada Treves)
Nell'immagine, il rav Sacks sfoglia Pagine Ebraiche insieme al
presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna.
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Israele al voto - Ancora un quarto
gli indecisi
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Un quarto degli israeliani non ha
ancora deciso per chi voterà il prossimo 22 gennaio. A rivelarlo è un
sondaggio condotto dal quotidiano Maariv (506 gli interpellati dalla
società di ricerca Ma’agar Mohot, con un margine di errore del 4,5 per
cento), che illustra anche come la maggior parte di loro faccia
riferimento all’area politica di centro, in cui si affollano ben tre
partiti: il partito laburista guidato da Shelly Yachimovich, Hatnua (Il
Movimento) dell’ex leader di Kadima Tzipi Livni e la formazione del
popolare giornalista televisivo Yair Lapid, che come fece il padre
Tommy prima di lui, ha lasciato il mondo dell’informazione per la
politica, fondando Yesh Atid (C’è futuro). Tuttavia, guardando alla
sequenza dei sondaggi pubblicati quasi quotidianamente dai grandi
giornali dello Stato ebraico, il numero degli indecisi pur alto, è in
diminuzione. Uno studio condotto nell’intervallo fra il 25 dicembre e
il 2 gennaio da TRI-Strategic Research per il quotidiano online in
lingua inglese The Times of Israel indicava come indeciso il 31 per
cento dell’elettorato.
Il sondaggio pubblicato su Maariv, che si riferisce a dati raccolti tra
l’8 e il 9 gennaio, attribuisce ai partiti di destra e religiosi
complessivamente 71 seggi sui 120 della Knesset (di cui 38
Likud-Beytenu, 13 Casa ebraica, 12 Shas, 6 United Torah Judaism, 2 a
partiti minori), al centro sinistra e partiti arabi 49 (16 Labor, 8
Yesh Atid, 7 Hatnua, 5 Meretz, 3 Kadima, 10 alle varie formazioni
arabe).
Rossella Tercatin
twitter @rtercatinmoked
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Melamed – Lo Shabbat e l’arte del
ping-pong
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Negli Stati Uniti d’America, in tempi
recenti, è capitato più volte che la programmazione di eventi sportivi
sia stata complicata dalla necessità di permettere a tutti gli atleti,
anche giovanissimi, di competere rispettando i propri valori, ebraici e
non solo. La composizione demografica americana, ancor più che quella
europea, sta spingendo diverse associazioni a ragionare su chi sono i
loro iscritti, e la necessità di fare chiarezza è sempre più pressante.
Nel febbraio dello scorso anno era stata la squadra di basket della
Beren Academy, una scuola ebraica ortodossa di Houston, Texas, a salire
alla ribalta. Non tanto per essere arrivati alla semifinale del
torneo quanto per la miopia di una associazione, la TAPPS (Texas
Association of Private and Parochial Schools), che non solo aveva
programmato la partita di shabbat ma che di fronte alla richiesta di
spostare l’orario dell’incontro aveva dichiarato che non era possibile
accomodare tutti e che la scuola, all’atto dell’iscrizione al torneo,
era stata avvertita di una simile possibilità. Oltre all’opinione
pubblica (migliaia di persone avevano firmato una petizione online per
chiedere lo spostamento della partita) si erano mossi il sindaco di
Houston, alcuni senatori, l’Anti-Defamation League, e anche l’ex coach
dei Rockets.
Le cose, per Estee Ackerman, giovanissima promessa del tennis tavolo,
sono andate diversamente: al National Table Tennis Championships di Las
Vegas erano iscritti talmente tanti ragazzi che Estee era sicura che
sarebbe stata eliminata prima di shabbat. Invece ha continuato a
vincere, fino a rendersi conto che i sedicesimi di finale li avrebbe
dovuti giocare la sera di venerdì, qualche ora dopo l’inizio del
sabato. Al contrario del caso di Houston la disponibilità
dell’organizzazione di fare un cambiamento per permettere a Estee di
giocare era totale, ma semplicemente questo non è stato possibile. La
decisione di non giocare ha avuto – come nel caso della Beren Academy –
grande risonanza mediatica, arrivando addirittura a una copertura della
notizia da parte della CNN.
La piccola giocatrice (è ora quarta nel ranking nazionale del la
categoria 8-11 anni) si è ovviamente dichiarata dispiaciuta, ma non ha
avuto dubbi: avrebbe potuto andare a piedi fino al luogo dell’incontro,
e giocare, ma decidere di farlo sarebbe stato in contraddizione con lo
spirito di shabbat, se non con le sue regole. La sua scelta è stata
sostenuta e condivisa da tutta la famiglia, in cui anche il fratello
Akiva, che ha 14 anni, è un campioncino (e gioca con la kippà in testa)
e il padre passa ore ad allenare i due ragazzi, sei giorni alla
settimana.
Estee gioca a tennis tavolo - non chiamatelo ping-pong – da quando era
molto piccola con successo sempre crescente, ed è stata scoperta
qualche mese fa da Biba Golic, campionessa dello sport e testimonial
del Killerspin Crew, di cui adesso anche Estee fa parte. Già ora è nota
per la sua abilità tattica e strategica e per la sua capacità di
giocare alla pari, senza farsi intimorire, anche contro gli adulti e il
suo sogno è di entrare nella squadra americana di tennis tavolo per
partecipare alle Olimpiadi nel 2016, a Rio de Janeiro. Non sembra
impossibile, sia per la sua bravura che per la sua tenacia, mostrata
anche nella scelta di non giocare di shabbat, che, come ha dichiarato
rav Yaakov Sadigh “mostra una capacità di autodisciplina abbastanza
impressionante in una ragazzina della sua età”. E il prossimo torneo a
cui parteciperà, per fortuna, si gioca di domenica.
Ada Treves twitter@atrevesmoked
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Politica, diplomazia e sorprese al
Congresso WUJS
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Presentazioni, workshops, mozioni ed
emozioni , dibattiti aperti e manovre di corridoio. Meeting privati e
proteste pubbliche, incontri di alto livello e colpi bassi, flirt
politici e a volte non solo, birre rigorosamente Goldstar e caffè
rigorosamente imbevibili. Non mancava davvero nulla degli ingredienti
classici di un vero congresso politico all’ultima assemblea della World
Union of Jewish Students (WUJS) – l’organizzazione che riunisce le
unioni nazionali di studenti ebrei di tutto il mondo – svoltasi a
Gerusalemme fra il 30 dicembre ed il 4 gennaio appena trascorsi.
Val la pena partire dalla fine, e cioè dalla notizia con la “n”
maiuscola, o per meglio dire dalla non-notizia, riportata anche da vari
quotidiani israeliani, per quanto riguarda l’esito probabilmente più
atteso del Congresso, vale a dire l’elezione del nuovo chairperson
dell’organizzazione per il biennio 2013-14. Ebbene da questo
punto di vista l’assemblea si è conclusa con un sorprendente nulla di
fatto: fumata nera dal conclave, nessun vescovo è uscito Pontefice.
Fra i due papabili – Liron Politzer, 28 anni, già leader dell’unione
studentesca dell’Università di Bar Ilan e aspirante politico, e Chaya
Pomeranz, 24, americana di nascita ma israeliana d’adozione fin dalla
prima infanzia, un cv professionale e di student leader impressionante
nonostante la giovane età – uno aveva per la verità preventivamente
ritirato la propria candidatura proprio all’ultimo momento, a pochi
minuti dalla votazione, per la sorpresa di tutti i partecipanti e dello
stesso comitato di presidenza dell’assemblea. A prescindere dalle
motivazioni di tale mossa (preparata a tavolino per mettere in
difficoltà l’avversaria o improvvisata per evitare una probabile
sconfitta?), l’effetto immediato dell’operazione di Politzer è stato
quello di trasformare completamente e repentinamente il tavolo di gioco
per le votazioni: sulla base delle disposizioni specifiche dello
Statuto WUJS, infatti, la candidata unica rimasta in pista avrebbe
dovuto a quel punto accaparrarsi non meno dei due terzi dei voti
espressi dai delegati dell’assemblea. Dopo un’infinita riunione a porte
chiuse del comitato elettorale, verifiche, riconteggi e probabili mal
di testa, il risultato finale: delle centocinquantaquattro schede
valide, la superstite candidata Pomeranz aveva ottenuto centodue
preferenze, gli altri cinquantadue voti confluendo sull’opzione
“re-open nominations”, di fatto un’astensione oppositiva. Calcolatrice
alla mano, brividi freddi alla constatazione che per una preferenza la
Pomeranz risultava non vincitrice. Affare complicato, la democrazia.
Superfluo riferire dei veleni più o meno apertamente rinfacciati dopo
l’esito sorprendente della votazione (peraltro più da parte dei
delegati venuti espressamente dai quattro angoli del mondo per
partecipare alla nomina del nuovo presidente che da parte degli
interessati della votazione). Sicuramente più fruttuoso, viceversa,
testimoniare la portata davvero superlativa dell’esperienza WUJS da
ogni altro punto di vista, primo fra tutti senza ombra di dubbio
l’opportunità impareggiabile d’incontrare e scambiare pareri, problemi
e progetti con i rappresentanti delle unioni ebraiche studentesche di
più di venti altri Paesi, fra cui Francia e America, Svezia e
Inghilterra, Sudafrica e Australia, Svizzera e Turchia, Ucraina e Cile,
e ovviamente Israele. Un networking spontaneo e ininterrotto per cinque
giorni davvero intensi a base di confronti, scambi d’idee ed opinioni e
momenti di divertimento che ha cementato vere amicizie da cui
proverranno certamente rapporti forti e probabilmente collaborazioni
fattive già nel breve periodo fra l’organizzazione di riferimento per
il Belpaese, ovviamente l’Ugei, e i cugini più o meno prossimi ni di
vari Paesi europei (e forse non solo), sempre sotto il benevolo
cappello della European Union of Jewish Students (EUJS), forte e
partecipativa all’assemblea WUJS appena terminata.
Di elevata qualità pure il programma di workshops susseguitisi prima
della fatidica assemblea in una successione continua e appassionante.
Al di fuori dei panel più spiccatamente di tipo “interno” come quello
su antisemitismo/antisionismo o quello sulla “diaspora nella diaspora”
degli ebrei fuggiti dal Nord Africa oggi abitanti in vari Paesi europei
e altrove, il piatto forte politico del WUJS è stato servito certamente
mercoledì mattina con la visita di Saeb Erekat, capo negoziatore
dell’Autorità palestinese, fra i più vicini collaboratori del
presidente Abu Mazen. Un confronto molto serrato di quasi tre ore,
senza esclusione di colpi, quello fra il diplomatico palestinese e gli
studenti ebrei di quattro continenti: se tutti hanno concordato
sull’abilità politica di Erekat, più dissonanti sono state le
valutazioni nel merito a fine meeting fra i delegati, divisi
prevalentemente fra iper-scettici convinti di aver incontrato,
sostanzialmente, un “gran furbo”, e scettici fiduciosi, convinti di
aver avuto davanti uno fra i pochi leader palestinesi pragmatici e
disponibili al compromesso politico. Di grandissimo interesse infine
pure l’incontro avvenuto nel pomeriggio di lunedì con Mikail Nabil,
giovane blogger e attivista egiziano più volte arrestato e vessato per
aver apertamente criticato l’esercito del suo Paese prima, Mubarak poi.
Una testimonianza fattiva che, anche in Medio Oriente, le battaglie per
i diritti dei popoli e degli individui non sono per forza
inconciliabili.
Simone Disegni
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Qui Milano - I favolosi viaggi di rav Chidà
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Delenda Budapest
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Torniamo
sulle vicende ungheresi motivati in ciò dall’ennesima notizia sulle
incontenibili voglie di censura che sembrano esprimere, a piè sospinto,
le autorità di quel paese. Dopo le minacce subite dal premio Nobel Imre
Kertész è ora la volta dello scrittore magiaro Péter Esterházy, che si
è visto tagliare l’intervento ad un programma radiofonico nazionale
perché aveva espresso alcune caute critiche nei confronti del governo
in carica, presieduto da Viktor Orbán. Esterházy ha causticamente
rilevato come non si trattasse per lui della prima volta, avendo già
dovuto fare i conti, trent’anni fa, con l’allora regime comunista.
Quasi a lasciare intendere che il cambio di casacca dei gruppi
dirigenti non ha comportato mutamenti nello stato di libertà vigilata
suo e dei suoi connazionali. Che cosa sia l’Ungheria di oggi -
formalmente ancora una repubblica parlamentare, membro dell’Unione
europea, concretamente un sistema autoritario - non è facile da dirsi.
Dal 1º gennaio 2012, con l'entrata in vigore della nuova Costituzione,
la definizione istituzionale dello Stato si è infatti ridotta al
toponimo Ungheria, Magyarország. La parola Repubblica, che prima
accompagnava il nome completo del paese, è stata cancellata nel nuovo
testo costituzionale. I deputati del Parlamento ungherese sono stati
inoltre ridotti a 199 membri. Nel complesso potremmo parlare di un
regime presidenzialistico di radice iperpopulista e nazionalista, con
venature reazionarie e fascistizzanti. Le origini di questo processo,
acceleratosi negli ultimi due anni, sono tuttavia lontane nel tempo e
si riannodano alla situazione di cent’anni fa. Con la fine della Prima
guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico il paese,
caratterizzato originariamente da una composizione sociale e culturale
multietnica particolarmente vivace, vide amputarsi di due terzi il suo
territorio. Il trattato di Trianon, nel 1920, assegna quasi
duecentocinquantamila chilometri quadrati agli Stati limitrofi, parte
dei quali di nuova costituzione. Così con l’Austria, la Cecoslovacchia,
la Jugoslavia, la Romania. All’epoca, mentre almeno quattrocentomila
magiari abbandonarono i territori così ceduti, altri tre milioni e
mezzo, rimanendo dentro i confini dei nuovi Stati, decaddero da
maggioranza politica a minoranza culturale, spesso poi vessata. Da quel
momento il nazionalismo ungherese iniziò a prendere sostanza, sostenuto
successivamente dall’alleanza con la Germania nazista. Ne seguì, come è
risaputo, l’immane tragedia dell’ebraismo ungherese, per buona parte
disintegrato nel corso del 1944 e, dopo il crollo del feroce regime
delle Croci frecciate, movimento politico collaborazionista,
l’occupazione sovietica. Il sofferto periodo della Repubblica popolare
d'Ungheria (Magyar Népköztársaság), tra il 1949 e il 1989, fu
contrassegnato dalla satellizzazione a Mosca, malgrado la sollevazione
del 1956 e le ripetute manifestazioni di opposizione. All’epoca, i
trascorsi nazionalisti e fascisti, nonché le politiche antisemite e
antitzigane perseguite nel paese tra il 1919 e il 1944, erano stati
cancellati dalla memoria ufficiale. Con la caduta del muro di Berlino,
nel 1990 lo sciovinismo più fanatico e aggressivo ha ripreso fiato e
legittimazione nel discorso pubblico. È stato recuperato a pieno titolo
il leitmotiv della Grande Ungheria, affermando che nell’agenda politica
nazionale avrebbe dovuto trovare spazio la rinegoziazione dei trattati
di pace di settant’anni prima, in quanto troppo punitivi. Di fatto, già
con l’inizio dell’epoca postcomunista, il dibattito politico era
infatti andato a imbottigliarsi, sempre più spesso, intorno alle ansie
di rivendicazione territoriale che minoranze politiche agguerrite
cercavano di porre al centro della discussione. Liberali e socialisti,
peraltro, si manifestavano incapaci di rispondere a quella che si stava
rivelando un’offensiva culturale tanto potente quanto ossessiva.
Soprattutto, le due grandi formazioni politiche erano fragili e inette
nel governo dei delicati processi economici e sociali che si
accompagnavano alla complessa transizione dal collettivismo alla
democrazia di mercato. Lo stato perdurante di grave crisi produttiva e
finanziaria, la subalternità alle rigide richieste dell’Unione europea
(di cui l’Ungheria è divenuta parte dal 2004), la perdita di
credibilità dei gruppi dirigenti del centro e della sinistra si sono
così sommati in una miscela pesantissima. La destra radicale, o
comunque autoritaria, dalla metà del decennio trascorso ne è stata
sempre più spesso premiata. Manipolando ed esacerbando i risentimenti
collettivi, si è conquistata progressivamente uno spazio fino ad allora
altrimenti inaspettato. Già nel 1993 l’estrema destra aveva dato vita
ad una organizzazione, il Magyar Igazság és Élet Pártja - Miép, il
Partito ungherese della giustizia e della vita, che però aveva raccolto
scarso seguito. Nel 1999, a seguito dell’impegno di alcuni gruppi di
giovani, quasi tutti studenti, era nato lo Jobbik Magyarországért
Mozgalom, il Movimento per una Ungheria migliore, trasformatosi nel
2003 in partito politico. Di matrice ipernazionalista, radicale,
antieuropeo, populista ma anche per più aspetti fascista e antisemita,
al debutto, con le elezioni politiche del 2006, raccoglie il 2,2 per
cento dei voti. Tre anni dopo, alle elezioni europee arriva al 14,8 per
cento e alle legislative del 2010 ottiene il 16,47 per cento dei
consensi, potendo così contare su 47 deputati al Parlamento nazionale.
Il fondatore di Jobbik, Gàbor Vona, già membro dell’altro grande
partito di destra, il Fidesz, è anche il leader della Guardia
ungherese, un gruppo paramilitare che accompagna le manifestazioni
pubbliche del partito. Vona ha impresso una radicalizzazione politica a
Jobbik, battendo sui tasti dell’avversione nei confronti delle
popolazioni zingare, del pregiudizio antiebraico, del più esasperato
antieuropeismo, della lotta al cosiddetto mondialismo e al signoraggio
bancario. Tutti cavalli di battaglia delle destre fascistoidi
continentali. La forte mediatizzazione che le sue eclatanti prese di
posizioni sollecitano gli garantisce una riserva di visibilità e di
popolarità altrimenti insperata. I voti gli arrivano perlopiù dai
giovani e dalle donne, due categorie pesantemente colpite dalla
persistente crisi economica. La proposta politica di Jobbik, basata
sulla rivalutazione dell’autoritarismo che aveva connotato il paese
negli anni Trenta e Quaranta, e del collaborazionismo con il nazismo,
rivendica la necessità di un governo forte, gerarchico, dal pugno di
ferro. Diverso, ma solo per alcuni aspetti, è il caso del partito
Fidesz – Magyar Polgári Szövetség, l’Unione civica ungherese che, dopo
le elezioni politiche del 2010, quando con il 52,73 per cento dei voti
è diventato il partito di maggioranza assoluta e quindi l’azionista di
governo, ne esprime anche il premier nella persona di Viktor Orbán. Il
Fidesz, Fiatal Demokraták Szövetsége (Alleanza dei giovani
democratici) nasce nel 1988, su una piattaforma anticomunista. Dopo
alterne vicende, tra scissioni, ricomposizioni e nuove spaccature, tre
anni fa ha conquistato i due terzi del Parlamento nazionale, procedendo
quindi ad una serie di riforme costituzionali tutte in chiave
antiliberale. La leadership del partito è costituita da un gruppo
ristretto di individui, legati tra di loro da vincoli di ordine
amicale, professionale e, in alcuni casi, anche di parentela. Si tratta
perlopiù dei figli di una parte della vecchia nomenclatura comunista,
dalla quale hanno ereditato privilegi corporativi e facilitazioni
d’accesso ai luoghi di decisione. Da questo punto di vista, le
posizioni espresse nel corso del tempo dal Fidesz hanno spesso un forte
carattere opportunista, fungendo non da elemento del confronto ideale
bensì da strumento per mantenere in posizione di saldo ancoraggio al
potere del suo ceto dirigente. Il partito ha seguito l’evoluzione
dell’Ungheria postcomunista, sfruttando abilmente le contraddizioni
maturate in seno alle altre forze politiche. Il passaggio al
capitalismo negli anni Novanta ha comportato profondi rivolgimenti nel
paese, con la perdita di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro e
la distruzione del sistema delle cooperative rurali. La popolarità dei
primi esecutivi postcomunisti, durati in carica per quattro anni, tra
il 1990 e il 1994, espressione della destra nostalgica, si era esaurita
nel momento in cui con la morte dell’allora premier conservatore Jósef
Antall la compagine anticomunista si era trovata senza leadership. Il
Fidesz, composto perlopiù da giovani turchi, uomini già legati al
potere ma in posizione subalterna, si era da subito mosso per occupare
le posizioni lasciate libere da una destra incapace di andare oltre il
revanscismo. Con le elezioni del 1998 la lista quadruplicò i voti,
arrivando al 29,4 per cento dei consensi. Da allora la crescita di
consensi fu costante, giungendo al 41,6 per cento del 2002, risultato
confermato quattro anni dopo. La successiva crisi del Partito
socialista aprì le porte alla schiacciante maggioranza ottenuta nelle
legislative del 2010. Il partito di Orbán non ha mai espresso un
programma politico compiuto, limitandosi ad orientare pro domo sua il
malcontento diffuso nel paese, generato sia dalla perdurante crisi
economica che dagli errori commessi dalla sinistra di governo
ungherese. La sfiducia verso la politica, il disincanto seguito alle
speranze nate alla fine degli anni Ottanta, hanno fatto da miscela
nella costruzione del consenso di cui si alimenta. Ideologicamente il
Fidesz si basa sulla commistione di nazionalismo magiaro,
conservatorismo spinto e un forte clericalismo, riconoscendo alla
Chiesa cattolica un ruolo di supplenza negli affari politici. Il
trittico di riferimento è la formula famiglia-Chiesa-patria. La
presenza dei cattolici è, ad esempio, molto pronunciata nel sistema
scolastico, dove un quinto delle scuole sono religiose. Il ricorso al
nazionalismo è peraltro funzionale allo stornare l’attenzione della
popolazione dai molti problemi economici. Orbán e i suoi, attraverso
una politica spericolata, ai limiti della provocazione, con la
concessione della cittadinanza agli ungheresi dell’estero, presenti
come minoranze magiare nei paesi mitteleuropei, ha creato frizioni di
ogni tipo. Non da ultimo, il secco peggioramento delle relazioni tra
Budapest e l’Unione europea, soprattutto sulla questione del debito che
l’Ungheria ha nei confronti di Bruxelles e delle istituzioni
internazionali. Il governo di destra usa a tutt’oggi come strumento di
ricatto la denuncia del vecchio trattato di Trianon, dichiarando il
paese vittima delle macchinazioni del "capitale straniero". Nelle
pieghe di questo discorso il rimando all’antisemitismo è pressoché
immediato. Il fantasma della Grande Ungheria ritorna così a fare
capolino nei discorsi quotidiani, coniugandosi alle numerosi
limitazioni delle libertà in atto da più di due anni. Più in generale
la deriva ungherese non può però essere letta solo come un fatto
interno al paese. L’ingresso nell’Unione europea, dopo la transizione
dal comunismo ad un liberalismo incerto e fragile, ha comportato costi
sociali enormi, una sorta di ristrutturazione sociale dagli effetti
amplificati, con ricadute di lungo periodo. I ceti popolari ne hanno
pagato le conseguenze più onerose. Il populismo ha fatto quindi breccia
tra quella grande parte della popolazione che fatica quotidianamente a
sopravvivere e che spera che un passato di glorie idealizzate possa
compensare un presente di penurie.
Claudio
Vercelli
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Nugae - Gossip
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“Si
può discutere di massimi sistemi, grandi eventi e domande sul senso
della vita, ma in fondo le altre persone sono l’argomento più
affascinante del mondo, parlarne è così più facile e divertente”. A
fare questa affermazione vagamente sconvolgente ma, a essere onesti,
con cui è improbabile trovare qualcuno in totale disaccordo, è Joseph
Epstein, autore del libro Gossip: the untrivial pursuit. Si tratta di
un geniale saggio che con metodo scientifico analizza ed espone la
storia, la filosofia, le definizioni, la fenomenologia e le questioni
morali che stanno dietro alla nobile arte del pettegolezzo.
Naturalmente le religioni, ma anche il senso comune, classificano
questa attività come immorale, se non peccaminosa, e l’autore stesso
del libro, un intellettuale conservatore un po’ vecchio stile che ama
trattare i temi delicati dell’etica, non può non considerare il
pettegolezzo un intrattenimento di cattivo gusto. Tuttavia Epstein
riconosce il ruolo importante che questo gioca da sempre nella vita
dell’uomo e la conseguente impossibilità di una condanna totale: “Un
tempo un vizio segreto, il gossip minaccia di diventare la via
principale per ottenere informazioni, e sembra non esserci molto da
fare. Ha inoltre il pregio di mostrare la vanità umana”. La storia del
gossip viene affrontata da due punti di vista: le vittime e i
carnefici. Per quanto riguarda la prima categoria, si parte dall’antica
Grecia, con Alciabiade nominato “il primo grande oggetto di pubblico
pettegolezzo”, fino ai giorni nostri; invece fra i grandi fornitori di
gossip, Epstein incorona come grande maestro il Duca di Saint-Simon,
cortigiano di Luigi XIV che tenne in modo discreto ma precisissimo una
serie di diari che documentano ogni singolo aspetto della vita a
Versailles. E poi si cerca di individuare quali siano esattamente le
caratteristiche del pettegolezzo perfetto e cosa lo renda così
attraente: “parte del piacere del gossip è quello di usare una parola
ormai un po’ antiquata: la sua birichineria”. In ogni caso l’aspetto
più interessante del libro è questo: come il sottotitolo, “the
untrivial pursuit”, chiarisce da subito, l’argomento frivolo per
eccellenza diventa materia di alte disquisizioni teoretiche, oggetto di
un dibattito decisamente intellettuale. Scaccia via un po’ di quel
senso di colpa che sopravviene inevitabilmente quando si prova un po’
di piacere nell’abbandonarsi alle riviste di gossip dal parrucchiere,
insomma.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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Sorgente
di Vita - Il ricordo
di Rita
Levi Montalcini |
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Un ricordo di Rita Levi Montalcini, scienziata e premio Nobel per la
medicina, morta a Roma il 30 dicembre scorso a 103 anni, apre la
puntata di Sorgente di vita di domenica 13 gennaio.
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Il settimanale del quotidiano della Conferenza episcopale Avvenire presenta le iniziative in occasione della
Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici
ed ebrei, in programma il prossimo 17 gennaio. Previsti gli interventi
del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e del presidente
dell’Assemblea rabbinica italiana rav Elia Richetti.
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