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  13 gennaio 2013 - 2 Shevat 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


L'essere umano, secondo l'interpretazione midrashica, nasce 'bino'. La 'binità' umana originaria è il più grande limite al delirio di onnipotenza: nessuno può pensare di essere completo, essendo necessaria per la completezza l'altra parte (maschile o femminile che sia). Affermare la differenza, che non significa sostenere la disuguaglianza né negare le scelte individuali, è un modo per confermare l'idea stessa di essere umano propria della tradizione ebraica.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Mi sono chiesto perché Beppe Grillo abbia attenzione per Casa Pound. E mi sono dato questa risposta. Casa Pound testimonia di un fenomeno politico caratterizzato da tre aspetti: 1) disconoscimento della democrazia come sistema politico che garantisce il diritto di governo delle maggioranze e il diritto di controllo delle minoranze sulle maggioranze che governano; 2) antieuropeismo; 3) esaltazione dei nazionalismi. Beppe Grillo non mi sembra estraneo a nessuno di questi tre aspetti. La sua idea di democrazia è chi vince mette all’angolo gli avversari che stanno fermi e zitti fino al prossimo giro (un’idea che in verità in questo paese hanno anche altri, che hanno governato in passato). Anche l’antieuropeismo, infarcito di complottismo,  è un sentimento molto diffuso di questi tempi (non solo in Casa Pound”e non solo nel M5S di Beppe Grillo). Quanto all’esaltazione del nazionalismo anche quello è un aspetto molto diffuso. Sono i tratti culturali e politici che Walter Laqueur circa 20 anni fa (Fascism, Oxford University Press 1996, tr. it Tropea 2008) sottolineava come costituenti della ripresa del fascismo in Europa convinto che il fascismo come grumo di sentimenti e di immaginario non rappresentasse un fenomeno del passato. Aveva ragione.

davar
Rav Sacks: "Lasciamo spazio alle cose importanti nella vita"
Passo molto tempo con i giovani: studenti che stanno per concludere un ciclo di studi, studenti universitari e neolaureati che stanno per iniziare una carriera lavorativa. Spesso mentre stanno iniziando il loro viaggio nel futuro mi chiedono consiglio. Ecco qui qualche idea, su cui può valer la pensa riflettere nel momento in cui iniziamo il nostro viaggio nell’anno nuovo.
La prima cosa da fare è sognare. Apparentemente l’attività meno pratica finisce per diventare la più pratica, quella spessa lasciata incompiuta. Conosco persone che passano mesi a pianificare una vacanza ma pochissimo tempo a pianificare la vita. Immaginate di partire per un viaggio senza aver deciso dove andare. Per quanto possiate viaggiare veloci non raggiungerete mai la vostra destinazione, perché non avete mai deciso dove volete. In effetti più viaggerete in fretta e più sarete persi.
I sogni sono il luogo in cui visitiamo molti paesi e paesaggi della possibilità umana e scopriamo in quali ci sentiamo a casa. Tutti i grandi capi spirituali sono stati grandi sognatori. Nella mia tradizione possiamo contare Mosè, che sognava una terra di latte e miele, e Isaia, che sognava un mondo di pace. Uno dei più grandi discorsi del ventesimo secolo è quell’“Ho un sogno” di Martin Luther King. Se dovessimo progettare un curriculum di studi per la felicità, sognare sarebbe uno dei corsi obbligatori.
La seconda regola è: seguite le vostre passioni. Non c’è nulla – non la ricchezza, il successo, i riconoscimenti o la fama – per cui valga la pena di spendere la propria vita facendo qualcosa che non ci piace. Ho visto troppe persone scegliere la propria professione per guadagnare abbastanza da poter offrire al proprio partner e ai propri figli tutto quello che desiderano, per poi perdere partner e bambini perché non avevamo mai avuto del tempo da passare con loro. Le persone che seguono la propria passione tendono ad avere vite felici. La loro felicità per quello che fanno, tende ad essere contagiosa nei confronti di quelli che incontrano. È una vita che vale la pena di vivere.
La terza cosa l’ho imparata da un psicoterapeuta sopravvissuto ad Auschwitz, Vicktor Frankl, il cui libro Alla ricerca di un significato della vita è uno dei più letti di tutti i tempi. Frankl diceva sempre: non chiederti cosa vuoi dalla vita. Chiediti cosa vuole la vita da te. Le grandi vite sono quelle in cui le persone sentono una chiamata, hanno il senso di una vocazione. Questo è quello che ha spinto Abramo, il nonno del monoteismo, nel suo percorso, che ha poi cambiato il mondo. Mosè avrebbe potuto avere una vita di benessere, una vita facile come principe d’Egitto, ma sentì il lamento del suo popolo che soffriva sotto schiavitù, e la chiamata di Dio che voleva li portasse verso la libertà.
C’è una storia molto nota che racconta di tre uomini che vivevano spaccando sassi. A chi chiedeva loro cosa stavano facendo uno rispose “Spacco sassi.” Il secondo disse “Mi guadagno da vivere.” E il terzo “Sto costruendo una cattedrale”. Non abbiamo bisogno di chiedere quale dei tre trovava più soddisfazioni nel proprio lavoro. Steve Jobs ha passato tutta la vita a far diventare la tecnologia a misura d’uomo, e a produrre cose belle. Il creatore di Google cercava di rendere il mondo dell’informazione accessibile a tutti. Il senso del Perché precedeva il Come. C’è un luogo in cui quello che vogliamo fare incontra quello che urla per essere fatto; è lì che dovremmo essere.
La quarta regola è: nelle vostre vite fate spazio per le cose importanti, la famiglia, gli amici, l’amore, la generosità, il divertimento e la gioia. Senza di esse vi brucerete, e a metà carriera vi troverete a chiedervi cosa ne è stato della vostra vita. Nell’ebraismo abbiamo il sabato, un giorno dedicato al riposo ogni settimana, in cui facciamo spazio per tutte quelle cose che sono importanti ma non urgenti. Non in tutte le culture c’è un sabato, ma una vita senza tempo dedicato al rinnovamento, come una vita senza esercizio, o senza musica, o senza senso dell’umorismo, è una vita minore.
La quinta regola è: lavorate intensamente, nello stesso modo in cui lavorano tanto un atleta o un concertista o uno scienziato di grido. Lo psicologo americano Mihaly Csikszentmihalyi chiama questo principio “flusso”. Con “flusso” fa riferimento a quell’intensa esperienza che si prova quando si lavora per un obiettivo in una maniera tale da non essere più consapevoli del passare del tempo. Nessun grand’uomo – neppure coloro che hanno fatto sembrare facili i loro risultati – hanno mai ottenuto nulla senza lavorare intensamente. La parola ebraica per servire Dio, avodah, significa anche duro lavoro.
Ci sono molte altre regole ma queste sono fra le più importanti. Mettetele alla prova e sarete sorpresi dalla gioia che vi doneranno.

Rav Lord Jonathan Sacks, rabbino capo del Commonweath

(versione italiana di Ada Treves)

Nell'immagine, il rav Sacks sfoglia Pagine Ebraiche insieme al presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna.
 
Israele al voto - Ancora un quarto gli indecisi
Un quarto degli israeliani non ha ancora deciso per chi voterà il prossimo 22 gennaio. A rivelarlo è un sondaggio condotto dal quotidiano Maariv (506 gli interpellati dalla società di ricerca Ma’agar Mohot, con un margine di errore del 4,5 per cento), che illustra anche come la maggior parte di loro faccia riferimento all’area politica di centro, in cui si affollano ben tre partiti: il partito laburista guidato da Shelly Yachimovich, Hatnua (Il Movimento) dell’ex leader di Kadima Tzipi Livni e la formazione del popolare giornalista televisivo Yair Lapid, che come fece il padre Tommy prima di lui, ha lasciato il mondo dell’informazione per la politica, fondando Yesh Atid (C’è futuro). Tuttavia, guardando alla sequenza dei sondaggi pubblicati quasi quotidianamente dai grandi giornali dello Stato ebraico, il numero degli indecisi pur alto, è in diminuzione. Uno studio condotto nell’intervallo fra il 25 dicembre e il 2 gennaio da TRI-Strategic Research per il quotidiano online in lingua inglese The Times of Israel indicava come indeciso il 31 per cento dell’elettorato.
Il sondaggio pubblicato su Maariv, che si riferisce a dati raccolti tra l’8 e il 9 gennaio, attribuisce ai partiti di destra e religiosi complessivamente 71 seggi sui 120 della Knesset (di cui 38 Likud-Beytenu, 13 Casa ebraica, 12 Shas, 6 United Torah Judaism, 2 a partiti minori), al centro sinistra e partiti arabi 49 (16 Labor, 8 Yesh Atid, 7 Hatnua, 5 Meretz, 3 Kadima, 10 alle varie formazioni arabe).

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Melamed – Lo Shabbat e l’arte del ping-pong
Negli Stati Uniti d’America, in tempi recenti, è capitato più volte che la programmazione di eventi sportivi sia stata complicata dalla necessità di permettere a tutti gli atleti, anche giovanissimi, di competere rispettando i propri valori, ebraici e non solo. La composizione demografica americana, ancor più che quella europea, sta spingendo diverse associazioni a ragionare su chi sono i loro iscritti, e la necessità di fare chiarezza è sempre più pressante. Nel febbraio dello scorso anno era stata la squadra di basket della Beren Academy, una scuola ebraica ortodossa di Houston, Texas, a salire alla ribalta. Non tanto per essere arrivati alla  semifinale del torneo quanto per la miopia di una associazione, la TAPPS (Texas Association of Private and Parochial Schools), che non solo aveva programmato la partita di shabbat ma che di fronte alla richiesta di spostare l’orario dell’incontro aveva dichiarato che non era possibile accomodare tutti e che la scuola, all’atto dell’iscrizione al torneo, era stata avvertita di una simile possibilità. Oltre all’opinione pubblica (migliaia di persone avevano firmato una petizione online per chiedere lo spostamento della partita) si erano mossi il sindaco di Houston, alcuni senatori, l’Anti-Defamation League, e anche l’ex coach dei Rockets.
Le cose, per Estee Ackerman, giovanissima promessa del tennis tavolo, sono andate diversamente: al National Table Tennis Championships di Las Vegas erano iscritti talmente tanti ragazzi che Estee era sicura che sarebbe stata eliminata prima di shabbat. Invece ha continuato a vincere, fino a rendersi conto che i sedicesimi di finale li avrebbe dovuti giocare la sera di venerdì, qualche ora dopo l’inizio del sabato. Al contrario del caso di Houston la disponibilità dell’organizzazione di fare un cambiamento per permettere a Estee di giocare era totale, ma semplicemente questo non è stato possibile. La decisione di non giocare ha avuto – come nel caso della Beren Academy – grande risonanza mediatica, arrivando addirittura a una copertura della notizia da parte della CNN.
La piccola giocatrice (è ora quarta nel ranking nazionale del la categoria 8-11 anni) si è ovviamente dichiarata dispiaciuta, ma non ha avuto dubbi: avrebbe potuto andare a piedi fino al luogo dell’incontro, e giocare, ma decidere di farlo sarebbe stato in contraddizione con lo spirito di shabbat, se non con le sue regole. La sua scelta è stata sostenuta e condivisa da tutta la famiglia, in cui anche il fratello Akiva, che ha 14 anni, è un campioncino (e gioca con la kippà in testa) e il padre passa ore ad allenare i due ragazzi, sei giorni alla settimana.
Estee gioca a tennis tavolo - non chiamatelo ping-pong – da quando era molto piccola con successo sempre crescente, ed è stata scoperta qualche mese fa da Biba Golic, campionessa dello sport e testimonial del Killerspin Crew, di cui adesso anche Estee fa parte. Già ora è nota per la sua abilità tattica e strategica e per la sua capacità di giocare alla pari, senza farsi intimorire, anche contro gli adulti e il suo sogno è di entrare nella squadra americana di tennis tavolo per partecipare alle Olimpiadi nel 2016, a Rio de Janeiro. Non sembra impossibile, sia per la sua bravura che per la sua tenacia, mostrata anche nella scelta di non giocare di shabbat, che, come ha dichiarato rav Yaakov Sadigh “mostra una capacità di autodisciplina abbastanza impressionante in una ragazzina della sua età”. E il prossimo torneo a cui parteciperà, per fortuna, si gioca di domenica.

Ada Treves twitter@atrevesmoked


Politica, diplomazia e sorprese al Congresso WUJS
Presentazioni, workshops, mozioni ed emozioni , dibattiti aperti e manovre di corridoio. Meeting privati e proteste pubbliche, incontri di alto livello e colpi bassi, flirt politici e a volte non solo, birre rigorosamente Goldstar e caffè rigorosamente imbevibili. Non mancava davvero nulla degli ingredienti classici di un vero congresso politico all’ultima assemblea della World Union of Jewish Students (WUJS) – l’organizzazione che riunisce le unioni nazionali di studenti ebrei di tutto il mondo – svoltasi a Gerusalemme fra il 30 dicembre ed il 4 gennaio appena trascorsi.
Val la pena partire dalla fine, e cioè dalla notizia con la “n” maiuscola, o per meglio dire dalla non-notizia, riportata anche da vari quotidiani israeliani, per quanto riguarda l’esito probabilmente più atteso del Congresso, vale a dire l’elezione del nuovo chairperson dell’organizzazione per il biennio 2013-14.  Ebbene da questo punto di vista l’assemblea si è conclusa con un sorprendente nulla di fatto: fumata nera dal conclave, nessun vescovo è uscito Pontefice.
Fra i due papabili – Liron Politzer, 28 anni, già leader dell’unione studentesca dell’Università di Bar Ilan e aspirante politico, e Chaya Pomeranz, 24, americana di nascita ma israeliana d’adozione fin dalla prima infanzia, un cv professionale e di student leader impressionante nonostante la giovane età – uno aveva per la verità preventivamente ritirato la propria candidatura proprio all’ultimo momento, a pochi minuti dalla votazione, per la sorpresa di tutti i partecipanti e dello stesso comitato di presidenza dell’assemblea. A prescindere dalle motivazioni di tale mossa (preparata a tavolino per mettere in difficoltà l’avversaria o improvvisata per evitare una probabile sconfitta?), l’effetto immediato dell’operazione di Politzer è stato quello di trasformare completamente e repentinamente il tavolo di gioco per le votazioni: sulla base delle disposizioni specifiche dello Statuto WUJS, infatti, la candidata unica rimasta in pista avrebbe dovuto a quel punto accaparrarsi non meno dei due terzi dei voti espressi dai delegati dell’assemblea. Dopo un’infinita riunione a porte chiuse del comitato elettorale, verifiche, riconteggi e probabili mal di testa, il risultato finale: delle centocinquantaquattro schede  valide, la superstite candidata Pomeranz aveva ottenuto centodue preferenze, gli altri cinquantadue voti confluendo sull’opzione “re-open nominations”, di fatto un’astensione oppositiva. Calcolatrice alla mano, brividi freddi alla constatazione che per una preferenza la Pomeranz risultava non vincitrice. Affare complicato, la democrazia.
Superfluo riferire dei veleni più o meno apertamente rinfacciati dopo l’esito sorprendente della votazione (peraltro più da parte dei delegati venuti espressamente dai quattro angoli del mondo per partecipare alla nomina del nuovo presidente che da parte degli interessati della votazione). Sicuramente più fruttuoso, viceversa, testimoniare la portata davvero superlativa dell’esperienza WUJS da ogni altro punto di vista, primo fra tutti senza ombra di dubbio l’opportunità impareggiabile d’incontrare e scambiare pareri, problemi e progetti con i rappresentanti delle unioni ebraiche studentesche di più di venti altri Paesi, fra cui Francia e America, Svezia e Inghilterra, Sudafrica e Australia, Svizzera e Turchia, Ucraina e Cile, e ovviamente Israele. Un networking spontaneo e ininterrotto per cinque giorni davvero intensi a base di confronti, scambi d’idee ed opinioni e momenti di divertimento che ha cementato vere amicizie da cui proverranno certamente rapporti forti e probabilmente collaborazioni fattive già nel breve periodo fra l’organizzazione di riferimento per il Belpaese, ovviamente l’Ugei, e i cugini più o meno prossimi ni di vari Paesi europei (e forse non solo), sempre sotto il benevolo cappello della European Union of Jewish Students (EUJS), forte e partecipativa all’assemblea WUJS appena terminata.
Di elevata qualità pure il programma di workshops susseguitisi prima della fatidica assemblea in una successione continua e appassionante. Al di fuori dei panel più spiccatamente di tipo “interno” come quello su antisemitismo/antisionismo o quello sulla “diaspora nella diaspora” degli ebrei fuggiti dal Nord Africa oggi abitanti in vari Paesi europei e altrove, il piatto forte politico del WUJS è stato servito certamente mercoledì mattina con la visita di Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Autorità palestinese, fra i più vicini collaboratori del presidente Abu Mazen. Un confronto molto serrato di quasi tre ore, senza esclusione di colpi, quello fra il diplomatico palestinese e gli studenti ebrei di quattro continenti: se tutti hanno concordato sull’abilità politica di Erekat, più dissonanti sono state le valutazioni nel merito a fine meeting fra i delegati, divisi prevalentemente fra iper-scettici convinti di aver incontrato, sostanzialmente, un “gran furbo”, e scettici fiduciosi, convinti di aver avuto davanti uno fra i pochi leader palestinesi pragmatici e disponibili al compromesso politico. Di grandissimo interesse infine pure l’incontro avvenuto nel pomeriggio di lunedì con Mikail Nabil, giovane blogger e attivista egiziano più volte arrestato e vessato per aver apertamente criticato l’esercito del suo Paese prima, Mubarak poi. Una testimonianza fattiva che, anche in Medio Oriente, le battaglie per i diritti dei popoli e degli individui non sono per forza inconciliabili.

Simone Disegni


Qui Milano - I favolosi viaggi di rav Chidà
pilpul
Delenda Budapest
Torniamo sulle vicende ungheresi motivati in ciò dall’ennesima notizia sulle incontenibili voglie di censura che sembrano esprimere, a piè sospinto, le autorità di quel paese. Dopo le minacce subite dal premio Nobel Imre Kertész è ora la volta dello scrittore magiaro Péter Esterházy, che si è visto tagliare l’intervento ad un programma radiofonico nazionale perché aveva espresso alcune caute critiche nei confronti del governo in carica, presieduto da Viktor Orbán. Esterházy ha causticamente rilevato come non si trattasse per lui della prima volta, avendo già dovuto fare i conti, trent’anni fa, con l’allora regime comunista. Quasi a lasciare intendere che il cambio di casacca dei gruppi dirigenti non ha comportato mutamenti nello stato di libertà vigilata suo e dei suoi connazionali. Che cosa sia l’Ungheria di oggi - formalmente ancora una repubblica parlamentare, membro dell’Unione europea, concretamente un sistema autoritario - non è facile da dirsi. Dal 1º gennaio 2012, con l'entrata in vigore della nuova Costituzione, la definizione istituzionale dello Stato si è infatti ridotta al toponimo Ungheria, Magyarország. La parola Repubblica, che prima accompagnava il nome completo del paese, è stata cancellata nel nuovo testo costituzionale. I deputati del Parlamento ungherese sono stati inoltre ridotti a 199 membri. Nel complesso potremmo parlare di un regime presidenzialistico di radice iperpopulista e nazionalista, con venature reazionarie e fascistizzanti. Le origini di questo processo, acceleratosi negli ultimi due anni, sono tuttavia lontane nel tempo e si riannodano alla situazione di cent’anni fa. Con la fine della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico il paese, caratterizzato originariamente da una composizione sociale e culturale multietnica particolarmente vivace, vide amputarsi di due terzi il suo territorio. Il trattato di Trianon, nel 1920, assegna quasi duecentocinquantamila chilometri quadrati agli Stati limitrofi, parte dei quali di nuova costituzione. Così con l’Austria, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, la Romania. All’epoca, mentre almeno quattrocentomila magiari abbandonarono i territori così ceduti, altri tre milioni e mezzo, rimanendo dentro i confini dei nuovi Stati, decaddero da maggioranza politica a minoranza culturale, spesso poi vessata. Da quel momento il nazionalismo ungherese iniziò a prendere sostanza, sostenuto successivamente dall’alleanza con la Germania nazista. Ne seguì, come è risaputo, l’immane tragedia dell’ebraismo ungherese, per buona parte disintegrato nel corso del 1944 e, dopo il crollo del feroce regime delle Croci frecciate, movimento politico collaborazionista, l’occupazione sovietica. Il sofferto periodo della Repubblica popolare d'Ungheria (Magyar Népköztársaság), tra il 1949 e il 1989, fu contrassegnato dalla satellizzazione a Mosca, malgrado la sollevazione del 1956 e le ripetute manifestazioni di opposizione. All’epoca, i trascorsi nazionalisti e fascisti, nonché le politiche antisemite e antitzigane perseguite nel paese tra il 1919 e il 1944, erano stati cancellati dalla memoria ufficiale. Con la caduta del muro di Berlino, nel 1990 lo sciovinismo più fanatico e aggressivo ha ripreso fiato e legittimazione nel discorso pubblico. È stato recuperato a pieno titolo il leitmotiv della Grande Ungheria, affermando che nell’agenda politica nazionale avrebbe dovuto trovare spazio la rinegoziazione dei trattati di pace di settant’anni prima, in quanto troppo punitivi. Di fatto, già con l’inizio dell’epoca postcomunista, il dibattito politico era infatti andato a imbottigliarsi, sempre più spesso, intorno alle ansie di rivendicazione territoriale che minoranze politiche agguerrite cercavano di porre al centro della discussione. Liberali e socialisti, peraltro, si manifestavano incapaci di rispondere a quella che si stava rivelando un’offensiva culturale tanto potente quanto ossessiva. Soprattutto, le due grandi formazioni politiche erano fragili e inette nel governo dei delicati processi economici e sociali che si accompagnavano alla complessa transizione dal collettivismo alla democrazia di mercato. Lo stato perdurante di grave crisi produttiva e finanziaria, la subalternità alle rigide richieste dell’Unione europea (di cui l’Ungheria è divenuta parte dal 2004), la perdita di credibilità dei gruppi dirigenti del centro e della sinistra si sono così sommati in una miscela pesantissima. La destra radicale, o comunque autoritaria, dalla metà del decennio trascorso ne è stata sempre più spesso premiata. Manipolando ed esacerbando i risentimenti collettivi, si è conquistata progressivamente uno spazio fino ad allora altrimenti inaspettato. Già nel 1993 l’estrema destra aveva dato vita ad una organizzazione, il Magyar Igazság és Élet Pártja - Miép, il Partito ungherese della giustizia e della vita, che però aveva raccolto scarso seguito. Nel 1999, a seguito dell’impegno di alcuni gruppi di giovani, quasi tutti studenti, era nato lo Jobbik Magyarországért Mozgalom, il Movimento per una Ungheria migliore, trasformatosi nel 2003 in partito politico. Di matrice ipernazionalista, radicale, antieuropeo, populista ma anche per più aspetti fascista e antisemita, al debutto, con le elezioni politiche del 2006, raccoglie il 2,2 per cento dei voti. Tre anni dopo, alle elezioni europee arriva al 14,8 per cento e alle legislative del 2010 ottiene il 16,47 per cento dei consensi, potendo così contare su 47 deputati al Parlamento nazionale. Il fondatore di Jobbik, Gàbor Vona, già membro dell’altro grande partito di destra, il Fidesz, è anche il leader della Guardia ungherese, un gruppo paramilitare che accompagna le manifestazioni pubbliche del partito. Vona ha impresso una radicalizzazione politica a Jobbik, battendo sui tasti dell’avversione nei confronti delle popolazioni zingare, del pregiudizio antiebraico, del più esasperato antieuropeismo, della lotta al cosiddetto mondialismo e al signoraggio bancario. Tutti cavalli di battaglia delle destre fascistoidi continentali. La forte mediatizzazione che le sue eclatanti prese di posizioni sollecitano gli garantisce una riserva di visibilità e di popolarità altrimenti insperata. I voti gli arrivano perlopiù dai giovani e dalle donne, due categorie pesantemente colpite dalla persistente crisi economica. La proposta politica di Jobbik, basata sulla rivalutazione dell’autoritarismo che aveva connotato il paese negli anni Trenta e Quaranta, e del collaborazionismo con il nazismo, rivendica la necessità di un governo forte, gerarchico, dal pugno di ferro. Diverso, ma solo per alcuni aspetti, è il caso del partito  Fidesz – Magyar Polgári Szövetség, l’Unione civica ungherese che, dopo le elezioni politiche del 2010, quando con il 52,73 per cento dei voti è diventato il partito di maggioranza assoluta e quindi l’azionista di governo, ne esprime anche il premier nella persona di Viktor Orbán. Il Fidesz,  Fiatal Demokraták Szövetsége (Alleanza dei giovani democratici) nasce nel 1988, su una piattaforma anticomunista. Dopo alterne vicende, tra scissioni, ricomposizioni e nuove spaccature, tre anni fa ha conquistato i due terzi del Parlamento nazionale, procedendo quindi ad una serie di riforme costituzionali tutte in chiave antiliberale. La leadership del partito è costituita da un gruppo ristretto di individui, legati tra di loro da vincoli di ordine amicale, professionale e, in alcuni casi, anche di parentela. Si tratta perlopiù dei figli di una parte della vecchia nomenclatura comunista, dalla quale hanno ereditato privilegi corporativi e facilitazioni d’accesso ai luoghi di decisione. Da questo punto di vista, le posizioni espresse nel corso del tempo dal Fidesz hanno spesso un forte carattere opportunista, fungendo non da elemento del confronto ideale bensì da strumento per mantenere in posizione di saldo ancoraggio al potere del suo ceto dirigente. Il partito ha seguito l’evoluzione dell’Ungheria postcomunista, sfruttando abilmente le contraddizioni maturate in seno alle altre forze politiche. Il passaggio al capitalismo negli anni Novanta ha comportato profondi rivolgimenti nel paese, con la perdita di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro e la distruzione del sistema delle cooperative rurali. La popolarità dei primi esecutivi postcomunisti, durati in carica per quattro anni, tra il 1990 e il 1994, espressione della destra nostalgica, si era esaurita nel momento in cui con la morte dell’allora premier conservatore Jósef Antall la compagine anticomunista si era trovata senza leadership. Il Fidesz, composto perlopiù da giovani turchi, uomini già legati al potere ma in posizione subalterna, si era da subito mosso per occupare le posizioni lasciate libere da una destra incapace di andare oltre il revanscismo. Con le elezioni del 1998 la lista quadruplicò i voti, arrivando al 29,4 per cento dei consensi. Da allora la crescita di consensi fu costante, giungendo al 41,6 per cento del 2002, risultato confermato quattro anni dopo. La successiva crisi del Partito socialista aprì le porte alla schiacciante maggioranza ottenuta nelle legislative del 2010. Il partito di Orbán non ha mai espresso un programma politico compiuto, limitandosi ad orientare pro domo sua il malcontento diffuso nel paese, generato sia dalla perdurante crisi economica che dagli errori commessi dalla sinistra di governo ungherese. La sfiducia verso la politica, il disincanto seguito alle speranze nate alla fine degli anni Ottanta, hanno fatto da miscela nella costruzione del consenso di cui si alimenta. Ideologicamente il Fidesz si basa sulla commistione di nazionalismo magiaro, conservatorismo spinto e un forte clericalismo, riconoscendo alla Chiesa cattolica un ruolo di supplenza negli affari politici. Il trittico di riferimento è la formula famiglia-Chiesa-patria. La presenza dei cattolici è, ad esempio, molto pronunciata nel sistema scolastico, dove un quinto delle scuole sono religiose. Il ricorso al nazionalismo è peraltro funzionale allo stornare l’attenzione della popolazione dai molti problemi economici. Orbán e i suoi, attraverso una politica spericolata, ai limiti della provocazione, con la concessione della cittadinanza agli ungheresi dell’estero, presenti come minoranze magiare nei paesi mitteleuropei, ha creato frizioni di ogni tipo. Non da ultimo, il secco peggioramento delle relazioni tra Budapest e l’Unione europea, soprattutto sulla questione del debito che l’Ungheria ha nei confronti di Bruxelles e delle istituzioni internazionali. Il governo di destra usa a tutt’oggi come strumento di ricatto la denuncia del vecchio trattato di Trianon, dichiarando il paese vittima delle macchinazioni del "capitale straniero". Nelle pieghe di questo discorso il rimando all’antisemitismo è pressoché immediato. Il fantasma della Grande Ungheria ritorna così a fare capolino nei discorsi quotidiani, coniugandosi alle numerosi limitazioni delle libertà in atto da più di due anni. Più in generale la deriva ungherese non può però essere letta solo come un fatto interno al paese. L’ingresso nell’Unione europea, dopo la transizione dal comunismo ad un liberalismo incerto e fragile, ha comportato costi sociali enormi, una sorta di ristrutturazione sociale dagli effetti amplificati, con ricadute di lungo periodo. I ceti popolari ne hanno pagato le conseguenze più onerose. Il populismo ha fatto quindi breccia tra quella grande parte della popolazione che fatica quotidianamente a sopravvivere e che spera che un passato di glorie idealizzate possa compensare un presente di penurie.

Claudio Vercelli

Nugae - Gossip
“Si può discutere di massimi sistemi, grandi eventi e domande sul senso della vita, ma in fondo le altre persone sono l’argomento più affascinante del mondo, parlarne è così più facile e divertente”. A fare questa affermazione vagamente sconvolgente ma, a essere onesti, con cui è improbabile trovare qualcuno in totale disaccordo, è Joseph Epstein, autore del libro Gossip: the untrivial pursuit. Si tratta di un geniale saggio che con metodo scientifico analizza ed espone la storia, la filosofia, le definizioni, la fenomenologia e le questioni morali che stanno dietro alla nobile arte del pettegolezzo. Naturalmente le religioni, ma anche il senso comune, classificano questa attività come immorale, se non peccaminosa, e l’autore stesso del libro, un intellettuale conservatore un po’ vecchio stile che ama trattare i temi delicati dell’etica, non può non considerare il pettegolezzo un intrattenimento di cattivo gusto. Tuttavia Epstein riconosce il ruolo importante che questo gioca da sempre nella vita dell’uomo e la conseguente impossibilità di una condanna totale: “Un tempo un vizio segreto, il gossip minaccia di diventare la via principale per ottenere informazioni, e sembra non esserci molto da fare. Ha inoltre il pregio di mostrare la vanità umana”. La storia del gossip viene affrontata da due punti di vista: le vittime e i carnefici. Per quanto riguarda la prima categoria, si parte dall’antica Grecia, con Alciabiade nominato “il primo grande oggetto di pubblico pettegolezzo”, fino ai giorni nostri; invece fra i grandi fornitori di gossip, Epstein incorona come grande maestro il Duca di Saint-Simon, cortigiano di Luigi XIV che tenne in modo discreto ma precisissimo una serie di diari che documentano ogni singolo aspetto della vita a Versailles. E poi si cerca di individuare quali siano esattamente le caratteristiche del pettegolezzo perfetto e cosa lo renda così attraente: “parte del piacere del gossip è quello di usare una parola ormai un po’ antiquata: la sua birichineria”. In ogni caso l’aspetto più interessante del libro è questo: come il sottotitolo, “the untrivial pursuit”, chiarisce da subito, l’argomento frivolo per eccellenza diventa materia di alte disquisizioni teoretiche, oggetto di un dibattito decisamente intellettuale. Scaccia via un po’ di quel senso di colpa che sopravviene inevitabilmente quando si prova un po’ di piacere nell’abbandonarsi alle riviste di gossip dal parrucchiere, insomma.           

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di Vita - Il ricordo
di
Rita Levi Montalcini
  Leggi la rassegna

Un ricordo di Rita Levi Montalcini, scienziata e premio Nobel per la medicina, morta a Roma il 30 dicembre scorso  a 103 anni, apre la puntata di Sorgente di vita di domenica 13 gennaio.









 

Il settimanale del quotidiano della Conferenza episcopale Avvenire presenta le iniziative in occasione della Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, in programma il prossimo 17 gennaio. Previsti gli interventi del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e del presidente dell’Assemblea rabbinica italiana rav Elia Richetti.









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