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24 gennaio 2013 - 13
Shevat
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Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
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Non
è particolarmente difficile immaginare la scena di ciò che poteva
essere l’uscita dall’Egitto, la moltitudine di essere umani, di
animali, di carri in marcia, il loro brusio, il pianto dei neonati...
Possiamo anche immaginare lo sgomento di questa folla eterogenea
nell’accorgersi di essere inseguita dalla veloce cavalleria egizia in
assetto di guerra, armata di carri falcati (l’arma più micidiale
dell’epoca), e capirne l’impaurita reazione. Moshè sa usare le parole
giuste: “Non temete, state saldi e guardate la salvezza divina che Egli
metterà in atto per voi oggi Il Signore combatterà per voi; voi state
quieti!”. Però anche Moshè è un essere umano, ed anche se la Torah non
lo dice espressamente è evidente che anche lui è impaurito, tanto che
Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ deve dirgli: “Mà titz‘àq elày? Dabbèr el benè
Israèl we-yissà‘u!”, “Perché gridi verso di Me? Parla ai figli
d’Israele, che partano!”. In altri termini: non aspettare la salvezza
dall’alto, comincia ad agire! Questa frase andrebbe scolpita a lettere
di fuoco nel cuore e nella mente di ogni singolo ebreo, in modo che
arda in ogni momento della sua vita. Molte volte si sentono persone che
lamentano la decadenza delle nostre Comunità, la difficoltà di avere
Minyan per le funzioni, il fatto che nei giorni feriali non si riesce
ad avere funzioni regolari... ma in realtà il Minyàn si ha quando
ognuno fa tutto il possibile per averlo, quando ognuno non perde
un’occasione per partecipare ad una Tefillah e magari riesce a farci
venire anche qualcun altro. Si lamentano le difficoltà di
approvvigionamento di generi kasher, ma non si utilizzano le strutture
comunitarie per averli o ci si accontenta di qualcosa di non kasher,
senza rendersi conto che se ognuno si servisse di ciò che già esiste,
ci sarebbe molto di più di ciò che c’è. Molte volte, anzi sempre, la
nostra salvezza ebraica non dipende da un miracoloso intervento
dall’alto, bensì dal nostro sforzo, da una nostra volontà che si
traduce in azione.
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Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme
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Le bocce sono finalmente ferme dopo che sono stati tabulati
i voti dei soldati, dei marinai e dei diplomatici in missione
all'estero. Dai risultati finali del voto di martedí in Israele è
chiaro che i grandi sconfitti non sono (come vorrebbe qualcuno) i
sondaggisti, che avevano previsto 32 seggi a Likud-Beitenu, bensí
Benyamin Netanyahu – l'apparente vincitore e candidato naturale a
premier – e la sua equipe che di seggi ne hanno raggranellati 31. La
caduta di Bibi da 42 a 31 seggi ha stupito quasi più della folgorante
ascesa di Yair Lapid da 0 a 19. Per meglio capire la radiografia della
politica israeliana, al di là dei dettagli delle liste e dei
personaggi, conviene esaminare i flussi elettorali rispetto alle
elezioni del 2009. Se dividiamo il campo esageratemente frazionato dei
partiti in quattro aree politiche principali, vediamo che i partiti
religiosi-Haredim (Shas e Yahadut Hatorah) passano da 16 a 18 seggi –
un guadagno di 2; i partiti Arabi (Hadash, Ram-Tal, Balad) restano
fermi a 11; i partiti della destra, i "repubblicani" (Likud-Beytenu e
Habayit Hayehudi), passano da 49 a 43 (-6); e i partiti del centro e
della sinistra, i "democratici" (Laburisti, Yesh Atid di Lapid, Hatnuah
di Livni, Meretz, e Kadima), passano da 44 a 48 (+4). Dunque, un
leggero spostamento del baricentro verso sinistra. La sfiducia nei
confronti di Bibi è accentuata dal fatto che la sua formazione (insieme
a Lieberman) perde 11 seggi, ma 5 di questi vengono risucchiati dal
vicino e rivale Naftali Bennett. Degno di nota il sorpasso dei
"democratici" nel confronto con i "repubblicani" che ricalca il modello
dell'alternanza in atto senza eccezioni fin dagli anni '80, mentre
Haredim e Arabi vanno avanti in forza del loro lento incremento
demografico. Il risultato fondamentale è che la somma
"repubblicani"+Haredim, ossia il governo uscente, passa da 65 a 61
seggi, mentre l'opposizione "democratici"+Arabi passa da 55 a 59. A
prima vista, dunque, la coalizione di Bibi conserva un minimo
vantaggio. Ma non è certo la compagine che ha dovuto anticipare le
elezioni perché incapace di approvare la legge di bilancio (che va
comunque passata entro giugno) quella che potrà attuare gli inevitabili
tagli alla spesa dello Stato. Da questa situazione di impasse si esce
in primo luogo cambiando radicalmente la retorica del discorso
pubblico, e Netanyahu sembra averlo percepito nelle sue prime
dichiarazioni. Contrariamente all'opinione di molti osservatori nel
mondo, amici e nemici, la maggioranza dell'elettorato non pensa al
futuro di Israele in termini di shoah nucleare o della prossima collina
in Giudea e Samaria su cui piazzare nottetempo una roulotte, bensí nei
termini di una società moderna, competitiva, culturalmente tollerante,
in cui l'alloggio deve essere accessibile a tutti, i servizi devono
funzionare, e la distribuzione delle risorse deve essere più
egualitaria. È questa la grande sfida per Bibi da cui uscirà o un
grande uomo politico o una breve nota a piè pagina nei futuri libri di
storia. La coalizione governativa si forma mettendo insieme 61 seggi,
concordando fra questi un programma di legislatura, e poi semmai
invitando altri partiti a condividere qualche spoglia nella spartizione
del potere. Il governo uscente avrebbe i 61, ma non funziona più, e
quindi bisogna cambiare. Likud-Beytenu (31, di cui 20 Likud e 11
Lieberman), Yesh Atid (19) e Habayit Hayehudi (12) hanno insieme 62
seggi. La chimica fra questi partiti non è semplice, ma non è
impossibile. Lapid e Bennett sono due tipi simili, nati in Israele
figli di immigrati, fra i 40 e i 50, nuovi alla politica,
professionisti affermati e indipendenti sul piano economico, residenti
nei sobborghi bene della grande Tel Aviv, interessati a migliorare la
posizione delle classi medie super-tartassate fiscalmente. Bibi è fatto
degli stessi materiali, anche se leggermente più anziano, molto più
esperto, e condizionato dalle sue intense convinzioni ideologiche (e da
quelle del padre Ben Zion) e dalle vecchie alleanze politiche. Lapid e
Bennett condividono con Lieberman l'impegno a una suddivisione
paritaria dei diritti e dei doveri dei Haredim: servizio militare,
istruzione che includa un minimo di storia ebraica, di matematica, e di
inglese, e partecipazione al lavoro. Lapid è intensamente secolare
(come suo padre Tommy), Bennett è religioso, ma sotto la kippah si
nascondono narrative ben diverse: negli ultimi giorni il rabbino Ovadia
Yosef, capo spirituale di Shas, ha lanciato un attacco violento contro
Bennett, definendolo "partito di goyim". D'altra parte Bibi e Bennett
condividono una linea di non patteggiamento con i palestinesi e di
attivismo nella costruzione degli insediamenti, linea che Lapid
stigmatizza anche se forse non con la stessa fermezza di Tzipi Livni o
di Shelly Yachimovich prima maniera. L'accordo tripartito è comunque
possibile se Bibi avrà il coraggio e la capacità di farlo. Dopo
affluiranno, ammansiti politicamente e in cerca di qulche spezzone di
potere, gli altri: per primo Kadima, che stabilisce quasi un record da
Guinness (da 28 a 2 seggi, anche se la somma di Yesh Atid, Hatenuah e
Kadima fa 27: dunque un cambio di leaders più che di elettorato). Poi
Shas che non essendo più l'ago della bilancia non può più imporre le
sue condizioni e dovrà accettare qualche compromesso sul tema servizio
militare-studi-lavoro. Poi forse ancora qualcun altro, estendendo
magari fino a oltre 80 la piattaforma iniziale degli essenziali 61
seggi di maggioranza. Esistono ovviamente molti altri copioni, in parte
sprovvisti dei numeri, in parte impossibili per l'incompatibilità degli
attori. Lapid non andrà da solo con Shas a fare la foglia di fico alla
solita coalizione di Bibi. Yachimovich non andrà da sola con Habayit
Hayehudi. Né Lapid può andare con Hanin Zuabi, la passionaria della
destra nazionalista palestinese. Infine, per concludere con un sorriso,
estraiamo un coniglio dal cappello. Lieberman aveva dichiarato che dopo
le elezioni la sua fazione parlamentare sarebbe rimasta separata da
quella del Likud. Ed ecco un rapido macchiavellico conteggio: Liberman
11, Lapid 19, Laburisti 15, Bennett 12, Livni 6 = 63. Con Bibi leader
dell'opposizione. Fantastico? Staremo a vedere. Specialmente quando
l'alternativa potrebbe essere nuove elezioni anticipate.
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Qui Roma – Con il rav Lau per la Memoria viva |
Ospite
d'eccezione, stamane a Roma, il rav Israel Meir Lau, che questo
pomeriggio interviene alle 15.30 nella sala polifunzionale della
Presidenza del Consiglio dei Ministri in via Santa Maria in Via 37 alla
tavola rotonda “Il coraggio di resistere” promossa dal Comitato di
coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah della
Presidenza del Consiglio dei ministri, organizzata in collaborazione
con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’incontro sarà introdotto dal ministro per la Cooperazione
internazionale e l’Integrazione Andrea Riccardi e dal presidente
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. Quest’anno
ricorre il settantesimo anniversario della rivolta nel ghetto di
Varsavia e il convegno sarà incentrato sulla tematica dell’opposizione
ai regimi totalitari. Sono in programma gli interventi dello storico
del Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme David Silberklang, su “La
ribellione nei ghetti”, del direttore della Fondazione Museo della
Shoah di Roma Marcello Pezzetti su “La rivolta nei campi”, e del
direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano
Michele Sarfatti su “La resistenza ebraica in Italia”. Rav Israel Meir
Lau, rabbino capo di Tel Aviv-Yafo, già rabbino Capo di Israele,
presidente del Consiglio di Yad Vashem e superstite dei campi di
sterminio, interverrà su “Il coraggio di tornare alla vita”.
(nell'immagine il rav Lau insieme al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni)
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Qui Roma - Il ritorno alla vita |
Il
ritorno alla vita. Questo il tema della quarta edizione dell'incontro
con i deportati al Tempio Maggiore di Roma organizzato in occasione del
Giorno della Memoria dal presidente della Consulta della Comunità
ebraica e consigliere UCEI Elvira Di Cave. Ospite d'onore
dell'incontro, in una sinagoga gremita in ogni ordine di posto dagli
studenti delle scuole (ebraiche e non) della Capitale, il rabbino capo
di Tel Aviv e già gran rabbino ashkenazita di Israele rav Israel Meir
Lau, sopravvissuto all'inferno di Buchenwald. Incalzato dalla storico e
direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti e
dai ragazzi, con al fianco i rabbanim rav Riccardo Di Segni e rav
Benedetto Carucci Viterbi e alcuni sopravvissuti romani alla Shoah, Lau
– la cui famiglia fu totalmente annientata dalle persecuzioni
all'infuori del fratello, con lui emigrato dalla Polonia nell'allora
Palestina sotto mandato britannico – si è soffermato a lungo sul
percorso di elaborazione del lutto e sulla costruzione, mattone dopo
mattone, di un nuovo futuro. Il ritorno alla vita. Il ritorno ai
sentimenti – al pianto, ma anche alla risata – il ritorno alla
possibilità di intravedere la speranza oltre la coltre di morte che
aveva devastato la sua e milioni di famiglie. Con un monito da scolpire
nella testa e nel cuore: “Non possiamo dimenticare e non abbiamo
diritto di perdonare. La nostra vendetta è essere vivi”.
Nell'introdurre l'iniziativa Elvira Di Cave ha citato alcune
riflessioni di Settimia Spizzichino, unica donna a fare ritorno dai
rastrellamenti al vecchio ghetto del 16 ottobre 1943, e il suo impegno
per la Memoria mai venuto meno nel tempo. In sala, assieme al leader
degli ebrei romani Riccardo Pacifici e a numerosi esponenti del
Consiglio comunitario, una vasta rappresentanza del rabbinato e del
Consiglio UCEI. Per le istituzioni, tra gli altri, il presidente
uscente della Regione Lazio Renata Polverini e quello della Provincia
Nicola Zingaretti.
a.s. twitter @asmulevichmoked
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Memoria - "Scolpitelo nei cuori", l'Italia e i conti con la Storia
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Esce
oggi in libreria "Scolpitelo nei cuori - L'Olocausto nella cultura
italiana (1944-2000)" Bollati Boringhieri editore, il lucido studio di
Robert Gordon (Università di Cambridge) sull'incapacità italiana di
fare i conti sul proprio passato. Il numero di febbraio del giornale
dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche pubblica in anteprima un brano
del libro dedicato alle difficoltà che ha attraversato il progetto di
un muro della Shoah a Roma e un intervento del professor Gordon,
considerato uno dei massimi esperti viventi dell'opera di Primo Levi,
dedicato all'uso e all'abuso della parola "Shoah" nella cultura
italiana. Siamo capaci, noi italiani, si chiede l'editore presentando
questa edizione italiana, di elaborare, metabolizzare e comprendere
l'Olocausto che ci ha colpiti? Siamo in grado di tramandarne la
memoria? Che uso abbiamo fatto, noi, pubblicamente, nella nostra
dimensione culturale condivisa, dell'immane sterminio che ha coinvolto
gli ebrei e i non ebrei del nostro paese, non certo meno che altrove?
Quali ricadute nelle nostre vite, quali insegnamenti, quali
comportamenti ci deve imporre la storia di quell'orrore? Sono domande
dure come macigni, sono le fondamenta stesse dell'Italia repubblicana.
È su queste domande che si possono porre le basi di una società che
vuole voltare pagina e ricostruire se stessa dopo il ventennio fascista
e una guerra al massacro. A sessant'anni di distanza, questo è il primo
libro che affronta nel dettaglio il tema di quanto si è sedimentato
dell'Olocausto nella nostra identità, attraverso i libri degli
intellettuali, le canzoni popolari, il cinema, la televisione, i
monumenti innalzati o quelli che non sono mai stati inaugurati; ma
anche attraverso l'operato del nostro Parlamento e delle sue leggi.
Robert Gordon ha studiato in profondità la storia dell'elaborazione
della Shoah in Italia, e ce ne offre qui un quadro complesso,
ripercorrendo questi sessant'anni su più livelli, evidenziando la
figura centrale di Primo Levi, ma anche il diffuso sentimento
autoassolutorio degli italiani, che ancora oggi vivono spesso se stessi
come esecutori "riluttanti" di ordini altrui, faticando a farsi carico
del proprio passato.
Di seguito i link per leggere gli interventi apparsi su Pagine Ebraiche:
Memoria all’italiana, i conti non tornano
"Il museo e le ambiguità della politica"
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Israele – Le elezioni sui grandi giornali
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Come hanno reagito i grandi giornali israeliani al
risultato delle elezioni così sorprendenti rispetto ai tanti sondaggi
preelettorali e alle aspettative riportate dagli stessi quotidiani? Le
prime pagine sono state tutte ovviamente dedicate all'esito delle urne.
In risalto soprattutto il contrasto tra l’esultanza di Yair Lapid, che
con i 19 seggi conquistati dal suo Yesh Atid è andato oltre le più
rosee aspettative, e la delusione del premier Benjamin Netanyahu.
Maariv titola “Una destra indebolita, un colpo a Netanyahu, il grande
vincitore è Yair Lapid”, il quotidiano di sinistra Haaretz scrive nella
sua versione in ebraico “Straordinario successo di Yair Lapid,
delusione per il Likud”, in quella in inglese “Netanyahu aggrappato
alla vittoria, nonostante il calo di consensi, Lapid sbalordisce con 19
seggi”, Israel Hayom, quotidiano considerato molto vicino al primo
ministro sceglie “Sorpresa Lapid, delusione Likud”, il Jerusalem Post
apre con “Il primo ministro soffre un colpo, Lapid esce dalle elezioni
forte”, infine Yedioth Ahronoth sottolinea “Israele voleva il
cambiamento, un colpo a Netanyahu, un balzo per Lapid”.
Per quanto riguarda i commenti, l’editorialista di Yedioth Ahronoth
Nahum Barnea attribuisce la vera vittoria delle elezioni alle proteste
sociali del 2011”. Haaretz chiama il premier un uomo del passato. Matti
Tuchfeld di Israel Hayom sottolinea amaramente come la campagna
intrapresa da Netanyahu contro Naftali Bennet sia servita, ma a
beneficio di Lapid, rimarcando però che nonostante tutto, sarà sempre
Bibi il capo del prossimo governo”. Maariv però fa notare come avendo
chiesto all’elettorato di supportarlo come primo ministro forte, si
ritrovi invece più debole che mai.
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Israele - Verso la coalizione, le contraddizioni restano |
La
chimera di un gruppo di partiti che potesse bloccare Netanyahu è
svanita per due ragioni: il conteggio dei voti aumenta il divario fra
il gruppo di destra e quello di sinistra che passa dal pareggio a
61-59; inoltre Yair Lapid ha dichiarato che non appoggerà il progetto
di un gruppo che possa bloccare l’attuale Primo Ministro.
Netanyahu dal canto suo si allinea sul programma di Lapid e richiede
ora l’eguaglianza di obblighi per il servizio militare, alloggi a
prezzi raggiungibili: cambiamenti nel sistema di governo (non
specificati). Lapid propone un metodo graduale per imporre gli obblighi
militari in base al quale entro cinque anni verrà stabilito per legge
che ogni cittadino all’età di 18 dovrà arruolarsi nell’esercito o nel
servizio civico. Gli ultrareligiosi reagiscono dicendo che il loro
servizio (divino) non è meno importante di quello militare.
Nel campo economico la crescita del 3 per cento annuo è soddisfacente
ma bisogna sanare un deficit di bilancio di quasi dieci miliardi di
dollari e Netanyahu ha la tendenza a colmare il deficit con tasse sui
consumi, piuttosto che sul reddito. Potrebbero aiutare a salvare la
situazione gli introiti del gas naturale che però non è ancora entrato
in produzione.
La questione del negoziato coi palestinesi non è urgente per Netanyahu.
Lapid ha fatto dire che richiede anche la riapertura del negoziato, ma
ciò sembra in contrasto con le idee di Bennett che quasi certamente
verrà associato al Governo. Insomma, prima ancora di essere costituita,
la coalizione scricchiola. Né si possono dimenticare gli altri problemi
di politica estera, come la minaccia iraniana, le relazioni col
presidente Obama, il peggioramento delle relazioni con l’Europa.
Shelly Yachimovich, leader dei laburisti, ha svolto una pregevole
attività nella Knesset uscente, ma non è riuscita a ottenere altro che
15 seggi. Un deputato del suo gruppo le consiglia stamane di aggregarsi
al Governo Netanyahu. Ma Shelly non è stata invitata.
Sergio Minerbi, diplomatico
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Qui Milano - Il dialogo ebraico-cristiano di fronte alla Bibbia
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L'Aula
magna dell'Università cattolica del Sacro Cuore gremita per un
appuntamento d'eccezione: una conversazione sul tema delle Scritture
tra il rabbino capo emerito di Milano Giuseppe Laras e l'arcivescovo
Angelo Scola.
Presenti tra gli altri in sala il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib,
rav Roberto della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e
cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, rav Elia
Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, il vicesindaco
Maria Grazia Guida, il vicepresidente UCEI Roberto Jarach, il
presidente della Comunità milanese Walker Meghnagi, il vicepresidente
delle Comunità religiose islamiche Yahya Pallavicini, il rettore della
Cattolica Franco Anelli, che ha portato il saluto dell’Università.
Ospite speciale della serata Maris Martini, sorella del cardinale Carlo
Maria Martini, cui è stato dedicato l'incontro organizzato dalla
Fondazione culturale S. Fedele e dalla Fondazione Maimonide nell’ambito
delle iniziative di Dialogo a due voci, appuntamento aperto proprio con
la lettura di brani dedicati all’ebraismo scritti dall’arcivescovo
emerito di Milano scomparso alcuni mesi fa.
“Un cammino positivo eppure difficile quello del dialogo, perché
segnato da secoli di sofferenza del popolo ebraico”, ha ricordato
Giocchino Pistone, rappresentante della Chiesa valdese chiamato a
introdurre la lectio tenuta dal rav Laras e dal cardinale Scola.
“A proposito del dialogo ebraico-cristiano una cosa è essenziale
sottolineare: esiste, è una realtà: con tutte le sue difficoltà, le
critiche, gli ostacoli da superare. Un traguardo importante dopo
duemila anni in cui le occasioni di incontro sono state pochissime, se
non inesistenti”.
Così rav Laras ha introdotto il suo intervento, ricordando anche “il
sincero amore di Martini per il popolo ebraico, nato dal profondo
rapporto con le Scritture e dalla consapevolezza della tragedia della
Shoah”, prima di immergersi nel tema delle Bibbia, e dei fondamentali
insegnamenti etici e morali che la sua lettura e conoscenza offrono
alla società moderna, non soltanto nella dimensione spirituale del
rapporto tra l’uomo e D-o, ma anche in quella orizzontale “Pensiamo
all’insegnamento che possiamo trarre dalla storia di Caino e Abele.
Quando D-o interroga Caino sulla sorte di Abele, ed egli risponde ‘Sono
forse io il custode di mio fratello?’. Il brano ci insegna che la
risposta da dare è quella positiva. Siamo chiamati a essere custodi gli
uni degli altri. Pensiamo ancora a Noè, Giusto nella sua epoca, ma non
in assoluto, perché per quanto camminasse con D-o, non si curava
abbastanza degli altri uomini. Lo impariamo dal fatto che sull’Arca
salì soltanto la sua famiglia. Perché? Perché egli non si era speso
abbastanza per convincere il resto dell’umanità a tentare di salvarsi.
Mi sono sentito dire talvolta che non vale la pena continuare a
insistere sull’importanza dei Dieci Comandamenti, in quanto essi sono
già e comunque acquisiti al patrimonio comune. Ma la domanda che io
pongo è se, per quanto acquisiti, siamo sicuri che essi siano anche
applicati”.
“La Bibbia è il documento scritto del dialogo con cui D-o si rivolge a
Israele e poi, tramite Gesù, alla Chiesa per coinvolgere ogni uomo
nella sua totalità - le parole del cardinale Scola, che nel suo
intervento ha citato gli insegnamenti di Benedetto XVI, la Nostra
aetate del Concilio Vaticano II, e il teologo Hans Urs von Balthasar,
che del Concilio Vaticano II fu considerato un precursore - Antico e
Nuovo Testamento appaiono dunque inseparabili per il cristianesimo. Le
Sacre Scritture che insieme veneriamo, e che insieme abbiamo
l’opportunità di studiare e meditare, pur rimanendo fedeli alle nostre
rispettive specificità, ci chiamano tutti a una risposta di fede e di
santità di vita personale e comunitaria, in una reciproca sfida per
servire il Signore unico. Il giogo della Torah non può essere portato
da soli. Inoltre l’attenzione per le Scritture deve stimolarci nel
dialogo verso l’Islam, sempre più urgente nelle nostre società plurali
e accomunato dal dovere fondamentale dell’obbedienza a D-o”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked
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Qui Firenze - Il compleanno degli
alberi |
I
giovani del Talmud Torà, i bambini della scuola materna Nathan Cassuto
e della Comunità, le famiglie, gli insegnanti, insieme nel giardino del
Tempio di Firenze per festeggiare anticipatamente Tu Bishvat, piantando
un albero da frutto molto importante per la tradizione ebraica: un
melograno, simbolo della moltitudine e insieme dell'unione.
In questa ricorrenza adulti e bambini hanno ballato e cantato,
festeggiando appunto il forte legame con la terra, che ci nutre con i
suoi ricchi frutti.
Dopodiché il rabbino capo Joseph Levi ha invitato grandi e piccini a
partecipare a un piccolo Seder didattico durante il quale ridendo,
scherzando, cantando e mangiando sono state ricordate le
caratteristiche principali della festa.
E' stato divertente vedere come i bambini hanno interpretato a modo
loro questa ricorrenza, forse la più semplice e vicina alle loro
piccole ma grandi vite.
Tutti festeggiano il proprio compleanno, la propria nascita, il
miracolo della vita, e nessun bambino si stupisce all'idea di
festeggiare il compleanno degli alberi, piccoli e fragili o grandi e
imponenti, tutti importanti, ognuno a modo suo. Chi per la sua
imponenza,chi per i suoi frutti.
Sorrido, pensando a una domanda divertente. Mi è stato infatti
chiesto,con naturalezza e vivacità: "Possiamo cantare tanti auguri a
tutti gli alberi?"
Yael Frare Grünwald
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Qui Roma – Le emozioni del Brundibar |
Ha
suscitato molte emozioni la messa in scena al Teatro dell'Opera, in
collaborazione con la Comunità ebraica romana, del Brundibar. L'opera,
composta dal musicista cecoslovacco Hans Krasa a Terezin su libretto di
Adolf Hoffmeister, rappresenta ad oggi una delle testimonianze
artistiche più significative dai campi di sterminio e dai ghetti
nazisti. A Terezin infatti, come noto, la macchina della propaganda del
nazionalsocialismo mise in atto una delle sue più bieche
rappresentazioni cercando di mascherare agli occhi dell'opinione
pubblica internazionale, attraverso una patina di apparente normalità,
attraverso la costituzione di iniziative assolutamente fittizie come
l'Organizzazione del tempo libero e il comitato ad esso preposta, i
crimini che vi furono commessi al pari degli altri lager e luoghi di
detenzione. Riunito il cast che aveva lavorato a una prima stesura a
Praga negli anni addietro, Krasa ricostruì l’intera partitura
dell’opera basandosi sulla propria memoria e su una parte dello
spartito del pianoforte che ancora possedeva. L'opera, costellata da
numerosi elementi fiabeschi e da messaggi impliciti ed espliciti di
opposizione al nazifascismo, fu portata per la prima volta in scena il
25 settembre del 1943 ed ebbe in tutto 55 repliche tra cui la
celeberrima interpretazione per gli ispettori della Croce Rossa inviati
a controllare le condizioni del campo. Ieri sera, salutata con un lungo
applauso, la struggente interpretazione del Coro delle Voci Bianche e
dall’Orchestra giovanile diretta dal maestro José Maria Sciutto.
Ad accogliere i molti ospiti presenti in sala il presidente della
Comunità ebraica Riccardo Pacifici. In platea, tra gli altri,
l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon e l'ex sottosegretario
alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. “Brundibar – come è stato
sottolineato – va letto come un manifesto etico che invita ad avere
fiducia nel bene che non potrà trionfare sul male. Un messaggio che ha
infuso ai prigionieri di Terezin la speranza nel futuro e la forza di
conservare dignità e rispetto per se stessi”
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La cucina a parole |
"Lo
storico dovrà dedicare una pagina appropriata alla donna ebrea in
questa guerra (…) È grazie a loro che molte famiglie sono riuscite a
superare il terrore di questi giorni...", scrisse Emmanuel Ringelblum
prima di essere eliminato. Wilhelmina “Mina” Pächter morì nell'ospedale
di Theresienstadt il giorno di Kippur del 1944, il giorno
dell'espiazione e del digiuno. Di lei ci resta un ricettario, scritto
nel ghetto/lager insieme ad altre donne, la cui vicenda è raccontata in
Sognavamo di cucinare, LeChâteau Editore. Più che il rocambolesco
viaggio che dalla terra ceca ha condotto quel pacchetto (c'erano anche
una fotografia e alcune lettere) prima in Palestina e finalmente nelle
mani del destinatario, la figlia Anny, in un appartamento in Manhattan
East Side, più che le ricette in sé, austro-ungariche, più o meno o per
nulla kosher, a colpire è l'insegnamento di tutto ciò. Annientate dalla
fame, quelle donne resistono, si sforzano di mantenere un legame con le
proprie radici, con i sapori e i colori e i ricordi dell'infanzia, la
famiglia intorno a una tavola, le feste, le usanze. Cucinano “a
parole”, e non soccombono. Vincono perché non perdono l'umanità e,
forse, la speranza. Sopravvivono a una fame per noi inimmaginabile che
annulla il passato e inchioda soltanto all'attimo presente, al subito,
non c'è ieri, non c'è domani. Mina e le sue compagne, con quelle
ricette, sconfiggono Amalek.
Stefano Jesurum, giornalista
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Equivoci |
Tra
i meriti che vanno attributi all’istituzione della Giornata della
Memoria, vi è sicuramente quello di aver contribuito a diffondere nella
società una maggiore sensibilità da parte degli italiani riguardo la
Shoah e la deportazioni degli ebrei. I benefici sono evidenti: in ormai
ogni scuola del paese si dedica una giornata al ricordo dello stermino
nazista e sono tanti gli istituti che scelgono di accompagnare i propri
studenti nei campi di concentramento per far vedere con i propri occhi
ai ragazzi di cosa l’uomo fu capace. Ai meriti però, va aggiunto un
pericoloso equivoco che talvolta gli stessi ebrei contribuiscono a non
chiarire: l’identificazione del popolo ebraico come popolo della Shoah.
Sia chiaro: qui non si tratta di smentire la tragicità della Shoah, né
il suo carattere indissolubile con la storia degli ebrei, ma va
chiarito che essa, per quanto unica e irripetibile, è soltanto un
capitolo, seppur drammatico, della nostra storia. Lo scopo di ogni
antisemitismo è stato sì, quello di annientare il popolo ebraico, ma
non certo perché gli ebrei numericamente raffigurassero un rischio per
l’umanità, quanto perché i valori di giustizia, libertà ed uguaglianza
da noi rappresentati erano invece una minaccia perpetua che andava
soppressa. Per questo l’equazione è così tanto pericolosa, perché,
seppur in modo involontario, l’identificazione tra ebraismo e Shoah
finisce per eterogenesi dei fini per raggiungere l’effetto opposto,
ovvero quello di negare quanto il contributo ebraico sia importante e
vitale per l’intera collettività. Perciò, proviamo a spiegare meglio
chi siamo senza dimenticare mai cosa abbiamo vissuto. Ricordiamo che è
per i valori che ci hanno insegnato i nostri maestri che hanno provato
a sterminarci, ma che è proprio grazie a quei valori che siamo ancora
qui oggi e che lo saremo, se Dio vuole, ancora per molto altro tempo.
Daniel Funaro
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Storia di un popolo
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Questa
è la storia di Betty Schimmel, che a quindici anni si è ritrovata ad
attraversare l’Ungheria in mezzo a tormente di neve, per approdare in
una baracca di Buchenwald da cui il nemico sperava di non farla più
uscire. La storia di sua madre, che con le narici piene di fumo di
anime innocenti, ripeteva ogni sera ai propri figli le parole dello
Shemah. Proclamando con le ultime forze la propria fede nel D-o di suo
padre. Questa è la storia di Emma Tedeschi, un’ebrea italiana che
nell’ottobre del 1943, sentendo giungere il proprio momento, prese
carta e penna e scrisse. “Figli miei, considerate queste parole il mio
testamento. Vi scongiuro, sebbene vediate intorno a voi solo buio e
dolore, non desistite. Non concedete al nostro nemico ciò per cui ci
sta combattendo. Non rinunciate alla vostra fede, rimanete attaccati
all’ebraismo e al suo modo di vivere. Solo così, ne sono sicura,
usciremo vivi da questo inferno”. Questa è la storia di Elie Wiesel,
che perse tutta la propria famiglia tra Auschwitz e Buchenwald. La
storia di un uomo che rinnegò D-o, con tutta la rabbia che si trovava
in corpo. La nascita di suo figlio gli fece ricordare il dovere della
circoncisione. E lentamente, si insinuò in lui una risoluzione. “Non
rinnegherò mai l’eredità dei padri dei padri. Non posso rompere la
catena iniziata con il grande Rashi, Rabbi Shlomo Itzchaki, mio
antenato, nè tradire la fiducia che gli avi hanno in me riposto.
Continuerò a protestare contro D-o, come il profeta Geremia nelle sue
Lamentazioni, ma anche a invocarLo e ad amarLo.” Questa è la storia di
un popolo che più di ogni altro è stato messo alla prova. Di un insieme
di genti che nel quindicesimo secolo scavava tunnel segreti per potere
pregare D-o nella lingua dei propri genitori. Di anime sperdute che nel
1942 cercavano disperatamente delle patate. E invece di nutrirsene per
poter durare ancora un solo giorno, le incidevano meticolosamente. Per
potere accendervi i lumi di Hanukkah, festa imminente. Questa è la
storia di uomini, donne e bambini che nel corso dei secoli non hanno
desistito. Ma hanno continuato a combattere il buio più profondo con
circoncisioni clandestine, sabati osservati di nascosto e preghiere al
proprio Creatore. Ani Maamin, io credo in te, D-o dei miei padri, così
cantavano pur sentendo la fine vicina. Sapendo che l’ebreo è in grado
di dare vita a un’eco nell’eternità solo rimanendo attaccato con
pensiero, parola ed azione alla religione tramandata dai propri
antenati con orgoglio e ostinazione.
Gheula
Canarutto Nemni
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Un concerto per Shlomo e Settimia
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"Ma come posso cantare" è il titolo del concerto, tratto dal "Canto del popolo ebraico massacrato" di Yitzhak
Katzenelson organizzato dal Coro Ha Kol in collaborazione con
l'XI Municipio di Roma Capitale, che si svolgerà questa sera alle 21 al
Teatro Il Portico. Lo spettacolo è incentrato sulla voce recitante di
Lauigi Tani, che ha curato l'adattamento letterario del testo e
sulle esecuzioni musicali del Coro ha Kol diretto dal maestro Andrea
Orlando. La voce è quella di un morituro, atrocemente consapevole del
proprio destino e di quello del proprio popolo, un destino imminente e
irrevocabile, senza speranza. Il Coro, diretto dal maestro Andrea
Orlando, eseguirà fra gli altri i brani Ad Maadàm, Aschivenu,
Hamavriach, Unter di Churves, Miktam Le David, Halichà Lekeisarya, Ani
Ma Amin. Violinista Marco Valabrega. Organizzata nell'ambito degli
eventi di celebrazione del Giorno della Memoria, la serata è dedicata
al ricordo di Settimia Spizzichino e Shlomo Venezia.
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L’attenzione
oggi torna al Giorno della Memoria, con numerosi articoli che danno
conto delle numerosissime celebrazioni, mostre, spettacoli
sull’argomento.
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