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  24 gennaio 2013 - 13 Shevat 5773
l'Unione informa
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
elia richetti Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
 

Non è particolarmente difficile immaginare la scena di ciò che poteva essere l’uscita dall’Egitto, la moltitudine di essere umani, di animali, di carri in marcia, il loro brusio, il pianto dei neonati... Possiamo anche immaginare lo sgomento di questa folla eterogenea nell’accorgersi di essere inseguita dalla veloce cavalleria egizia in assetto di guerra, armata di carri falcati (l’arma più micidiale dell’epoca), e capirne l’impaurita reazione. Moshè sa usare le parole giuste: “Non temete, state saldi e guardate la salvezza divina che Egli metterà in atto per voi oggi Il Signore combatterà per voi; voi state quieti!”. Però anche Moshè è un essere umano, ed anche se la Torah non lo dice espressamente è evidente che anche lui è impaurito, tanto che Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ deve dirgli: “Mà titz‘àq elày? Dabbèr el benè Israèl we-yissà‘u!”, “Perché gridi verso di Me? Parla ai figli d’Israele, che partano!”. In altri termini: non aspettare la salvezza dall’alto, comincia ad agire! Questa frase andrebbe scolpita a lettere di fuoco nel cuore e nella mente di ogni singolo ebreo, in modo che arda in ogni momento della sua vita. Molte volte si sentono persone che lamentano la decadenza delle nostre Comunità, la difficoltà di avere Minyan per le funzioni, il fatto che nei giorni feriali non si riesce ad avere funzioni regolari... ma in realtà il Minyàn si ha quando ognuno fa tutto il possibile per averlo, quando ognuno non perde un’occasione per partecipare ad una Tefillah e magari riesce a farci venire anche qualcun altro. Si lamentano le difficoltà di approvvigionamento di generi kasher, ma non si utilizzano le strutture comunitarie per averli o ci si accontenta di qualcosa di non kasher, senza rendersi conto che se ognuno si servisse di ciò che già esiste, ci sarebbe molto di più di ciò che c’è. Molte volte, anzi sempre, la nostra salvezza ebraica non dipende da un miracoloso intervento dall’alto, bensì dal nostro sforzo, da una nostra volontà che si traduce in azione.

Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola

Le bocce sono finalmente ferme dopo che sono stati tabulati i voti dei soldati, dei marinai e dei diplomatici in missione all'estero. Dai risultati finali del voto di martedí in Israele è chiaro che i grandi sconfitti non sono (come vorrebbe qualcuno) i sondaggisti, che avevano previsto 32 seggi a Likud-Beitenu, bensí Benyamin Netanyahu – l'apparente vincitore e candidato naturale a premier – e la sua equipe che di seggi ne hanno raggranellati 31. La caduta di Bibi da 42 a 31 seggi ha stupito quasi più della folgorante ascesa di Yair Lapid da 0 a 19. Per meglio capire la radiografia della politica israeliana, al di là dei dettagli delle liste e dei personaggi, conviene esaminare i flussi elettorali rispetto alle elezioni del 2009. Se dividiamo il campo esageratemente frazionato dei partiti in quattro aree politiche principali, vediamo che i partiti religiosi-Haredim (Shas e Yahadut Hatorah) passano da 16 a 18 seggi – un guadagno di 2; i partiti Arabi (Hadash, Ram-Tal, Balad) restano fermi a 11; i partiti della destra, i "repubblicani" (Likud-Beytenu e Habayit Hayehudi), passano da 49 a 43 (-6); e i partiti del centro e della sinistra, i "democratici" (Laburisti, Yesh Atid di Lapid, Hatnuah di Livni, Meretz, e Kadima), passano da 44 a 48 (+4). Dunque, un leggero spostamento del baricentro verso sinistra. La sfiducia nei confronti di Bibi è accentuata dal fatto che la sua formazione (insieme a Lieberman) perde 11 seggi, ma 5 di questi vengono risucchiati dal vicino e rivale Naftali Bennett. Degno di nota il sorpasso dei "democratici" nel confronto con i "repubblicani" che ricalca il modello dell'alternanza in atto senza eccezioni fin dagli anni '80, mentre Haredim e Arabi vanno avanti in forza del loro lento incremento demografico. Il risultato fondamentale è che la somma "repubblicani"+Haredim, ossia il governo uscente, passa da 65 a 61 seggi, mentre l'opposizione "democratici"+Arabi passa da 55 a 59. A prima vista, dunque, la coalizione di Bibi conserva un minimo vantaggio. Ma non è certo la compagine che ha dovuto anticipare le elezioni perché incapace di approvare la legge di bilancio (che va comunque passata entro giugno) quella che potrà attuare gli inevitabili tagli alla spesa dello Stato. Da questa situazione di impasse si esce in primo luogo cambiando radicalmente la retorica del discorso pubblico, e Netanyahu sembra averlo percepito nelle sue prime dichiarazioni. Contrariamente all'opinione di molti osservatori nel mondo, amici e nemici, la maggioranza dell'elettorato non pensa al futuro di Israele in termini di shoah nucleare o della prossima collina in Giudea e Samaria su cui piazzare nottetempo una roulotte, bensí nei termini di una società moderna, competitiva, culturalmente tollerante, in cui l'alloggio deve essere accessibile a tutti, i servizi devono funzionare, e la distribuzione delle risorse deve essere più egualitaria. È questa la grande sfida per Bibi da cui uscirà o un grande uomo politico o una breve nota a piè pagina nei futuri libri di storia. La coalizione governativa si forma mettendo insieme 61 seggi, concordando fra questi un programma di legislatura, e poi semmai invitando altri partiti a condividere qualche spoglia nella spartizione del potere. Il governo uscente avrebbe i 61, ma non funziona più, e quindi bisogna cambiare. Likud-Beytenu (31, di cui 20 Likud e 11 Lieberman), Yesh Atid (19) e Habayit Hayehudi (12) hanno insieme 62 seggi. La chimica fra questi partiti non è semplice, ma non è impossibile. Lapid e Bennett sono due tipi simili, nati in Israele figli di immigrati, fra i 40 e i 50, nuovi alla politica, professionisti affermati e indipendenti sul piano economico, residenti nei sobborghi bene della grande Tel Aviv, interessati a migliorare la posizione delle classi medie super-tartassate fiscalmente. Bibi è fatto degli stessi materiali, anche se leggermente più anziano, molto più esperto, e condizionato dalle sue intense convinzioni ideologiche (e da quelle del padre Ben Zion) e dalle vecchie alleanze politiche. Lapid e Bennett condividono con Lieberman l'impegno a una suddivisione paritaria dei diritti e dei doveri dei Haredim: servizio militare, istruzione che includa un minimo di storia ebraica, di matematica, e di inglese, e partecipazione al lavoro. Lapid è intensamente secolare (come suo padre Tommy), Bennett è religioso, ma sotto la kippah si nascondono narrative ben diverse: negli ultimi giorni il rabbino Ovadia Yosef, capo spirituale di Shas, ha lanciato un attacco violento contro Bennett, definendolo "partito di goyim". D'altra parte Bibi e Bennett condividono una linea di non patteggiamento con i palestinesi e di attivismo nella costruzione degli insediamenti, linea che Lapid stigmatizza anche se forse non con la stessa fermezza di Tzipi Livni o di Shelly Yachimovich prima maniera. L'accordo tripartito è comunque possibile se Bibi avrà il coraggio e la capacità di farlo. Dopo affluiranno, ammansiti politicamente e in cerca di qulche spezzone di potere, gli altri: per primo Kadima, che stabilisce quasi un record da Guinness (da 28 a 2 seggi, anche se la somma di Yesh Atid, Hatenuah e Kadima fa 27: dunque un cambio di leaders più che di elettorato). Poi Shas che non essendo più l'ago della bilancia non può più imporre le sue condizioni e dovrà accettare qualche compromesso sul tema servizio militare-studi-lavoro. Poi forse ancora qualcun altro, estendendo magari fino a oltre 80 la piattaforma iniziale degli essenziali 61 seggi di maggioranza. Esistono ovviamente molti altri copioni, in parte sprovvisti dei numeri, in parte impossibili per l'incompatibilità degli attori. Lapid non andrà da solo con Shas a fare la foglia di fico alla solita coalizione di Bibi. Yachimovich non andrà da sola con Habayit Hayehudi. Né Lapid può andare con Hanin Zuabi, la passionaria della destra nazionalista palestinese. Infine, per concludere con un sorriso, estraiamo un coniglio dal cappello. Lieberman aveva dichiarato che dopo le elezioni la sua fazione parlamentare sarebbe rimasta separata da quella del Likud. Ed ecco un rapido macchiavellico conteggio: Liberman 11, Lapid 19, Laburisti 15, Bennett 12, Livni 6 = 63. Con Bibi leader dell'opposizione. Fantastico? Staremo a vedere. Specialmente quando l'alternativa potrebbe essere nuove elezioni anticipate.

davar
Qui Roma – Con il rav Lau per la Memoria viva
Ospite d'eccezione, stamane a Roma, il rav Israel Meir Lau, che questo pomeriggio interviene alle 15.30 nella sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri in via Santa Maria in Via 37 alla tavola rotonda “Il coraggio di resistere” promossa dal Comitato di coordinamento per le celebrazioni in ricordo della Shoah della Presidenza del Consiglio dei ministri, organizzata in collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
L’incontro sarà introdotto dal ministro per la Cooperazione internazionale e l’Integrazione Andrea Riccardi e dal presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna. Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della rivolta nel ghetto di Varsavia e il convegno sarà incentrato sulla tematica dell’opposizione ai regimi totalitari. Sono in programma gli interventi dello storico del Memoriale Yad Vashem di Gerusalemme David Silberklang, su “La ribellione nei ghetti”, del direttore della Fondazione Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti su “La rivolta nei campi”, e del direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano Michele Sarfatti su “La resistenza ebraica in Italia”. Rav Israel Meir Lau, rabbino capo di Tel Aviv-Yafo, già rabbino Capo di Israele, presidente del Consiglio di Yad Vashem e superstite dei campi di sterminio, interverrà su “Il coraggio di tornare alla vita”.
(nell'immagine il rav Lau insieme al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni)

Qui Roma - Il ritorno alla vita
Il ritorno alla vita. Questo il tema della quarta edizione dell'incontro con i deportati al Tempio Maggiore di Roma organizzato in occasione del Giorno della Memoria dal presidente della Consulta della Comunità ebraica e consigliere UCEI Elvira Di Cave. Ospite d'onore dell'incontro, in una sinagoga gremita in ogni ordine di posto dagli studenti delle scuole (ebraiche e non) della Capitale, il rabbino capo di Tel Aviv e già gran rabbino ashkenazita di Israele rav Israel Meir Lau, sopravvissuto all'inferno di Buchenwald. Incalzato dalla storico e direttore scientifico del Museo della Shoah di Roma Marcello Pezzetti e dai ragazzi, con al fianco i rabbanim rav Riccardo Di Segni e rav Benedetto Carucci Viterbi e alcuni sopravvissuti romani alla Shoah, Lau – la cui famiglia fu totalmente annientata dalle persecuzioni all'infuori del fratello, con lui emigrato dalla Polonia nell'allora Palestina sotto mandato britannico – si è soffermato a lungo sul percorso di elaborazione del lutto e sulla costruzione, mattone dopo mattone, di un nuovo futuro. Il ritorno alla vita. Il ritorno ai sentimenti – al pianto, ma anche alla risata – il ritorno alla possibilità di intravedere la speranza oltre la coltre di morte che aveva devastato la sua e milioni di famiglie. Con un monito da scolpire nella testa e nel cuore: “Non possiamo dimenticare e non abbiamo diritto di perdonare. La nostra vendetta è essere vivi”.
Nell'introdurre l'iniziativa Elvira Di Cave ha citato alcune riflessioni di Settimia Spizzichino, unica donna a fare ritorno dai rastrellamenti al vecchio ghetto del 16 ottobre 1943, e il suo impegno per la Memoria mai venuto meno nel tempo. In sala, assieme al leader degli ebrei romani Riccardo Pacifici e a numerosi esponenti del Consiglio comunitario, una vasta rappresentanza del rabbinato e del Consiglio UCEI. Per le istituzioni, tra gli altri, il presidente uscente della Regione Lazio Renata Polverini e quello della Provincia Nicola Zingaretti.  

a.s. twitter @asmulevichmoked


Memoria - "Scolpitelo nei cuori", l'Italia e i conti con la Storia
Esce oggi in libreria "Scolpitelo nei cuori - L'Olocausto nella cultura italiana (1944-2000)" Bollati Boringhieri editore, il lucido studio di Robert Gordon (Università di Cambridge) sull'incapacità italiana di fare i conti sul proprio passato. Il numero di febbraio del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche pubblica in anteprima un brano del libro dedicato alle difficoltà che ha attraversato il progetto di un muro della Shoah a Roma e un intervento del professor Gordon, considerato uno dei massimi esperti viventi dell'opera di Primo Levi, dedicato all'uso e all'abuso della parola "Shoah" nella cultura italiana. Siamo capaci, noi italiani, si chiede l'editore presentando questa edizione italiana, di elaborare, metabolizzare e comprendere l'Olocausto che ci ha colpiti? Siamo in grado di tramandarne la memoria? Che uso abbiamo fatto, noi, pubblicamente, nella nostra dimensione culturale condivisa, dell'immane sterminio che ha coinvolto gli ebrei e i non ebrei del nostro paese, non certo meno che altrove? Quali ricadute nelle nostre vite, quali insegnamenti, quali comportamenti ci deve imporre la storia di quell'orrore? Sono domande dure come macigni, sono le fondamenta stesse dell'Italia repubblicana. È su queste domande che si possono porre le basi di una società che vuole voltare pagina e ricostruire se stessa dopo il ventennio fascista e una guerra al massacro. A sessant'anni di distanza, questo è il primo libro che affronta nel dettaglio il tema di quanto si è sedimentato dell'Olocausto nella nostra identità, attraverso i libri degli intellettuali, le canzoni popolari, il cinema, la televisione, i monumenti innalzati o quelli che non sono mai stati inaugurati; ma anche attraverso l'operato del nostro Parlamento e delle sue leggi. Robert Gordon ha studiato in profondità la storia dell'elaborazione della Shoah in Italia, e ce ne offre qui un quadro complesso, ripercorrendo questi sessant'anni su più livelli, evidenziando la figura centrale di Primo Levi, ma anche il diffuso sentimento autoassolutorio degli italiani, che ancora oggi vivono spesso se stessi come esecutori "riluttanti" di ordini altrui, faticando a farsi carico del proprio passato.
Di seguito i link per leggere gli interventi apparsi su Pagine Ebraiche:

Memoria all’italiana, i conti non tornano


"Il museo e le ambiguità della politica"

Israele – Le elezioni sui grandi giornali
Come hanno reagito i grandi giornali israeliani al risultato delle elezioni così sorprendenti rispetto ai tanti sondaggi preelettorali e alle aspettative riportate dagli stessi quotidiani? Le prime pagine sono state tutte ovviamente dedicate all'esito delle urne. In risalto soprattutto il contrasto tra l’esultanza di Yair Lapid, che con i 19 seggi conquistati dal suo Yesh Atid è andato oltre le più rosee aspettative, e la delusione del premier Benjamin Netanyahu. Maariv titola “Una destra indebolita, un colpo a Netanyahu, il grande vincitore è Yair Lapid”, il quotidiano di sinistra Haaretz scrive nella sua versione in ebraico “Straordinario successo di Yair Lapid, delusione per il Likud”, in quella in inglese “Netanyahu aggrappato alla vittoria, nonostante il calo di consensi, Lapid sbalordisce con 19 seggi”, Israel Hayom, quotidiano considerato molto vicino al primo ministro sceglie “Sorpresa Lapid, delusione Likud”, il Jerusalem Post apre con “Il primo ministro soffre un colpo, Lapid esce dalle elezioni forte”, infine Yedioth Ahronoth sottolinea “Israele voleva il cambiamento, un colpo a Netanyahu, un balzo per Lapid”.
Per quanto riguarda i commenti, l’editorialista di Yedioth Ahronoth Nahum Barnea attribuisce la vera vittoria delle elezioni alle proteste sociali del 2011”. Haaretz chiama il premier un uomo del passato. Matti Tuchfeld di Israel Hayom sottolinea amaramente come la campagna intrapresa da Netanyahu contro Naftali Bennet sia servita, ma a beneficio di Lapid, rimarcando però che nonostante tutto, sarà sempre Bibi il capo del prossimo governo”. Maariv però fa notare come avendo chiesto all’elettorato di supportarlo come primo ministro forte, si ritrovi invece più debole che mai.


Israele - Verso la coalizione, le contraddizioni restano
La chimera di un gruppo di partiti che potesse bloccare Netanyahu è svanita per due ragioni: il conteggio dei voti aumenta il divario fra il gruppo di destra e quello di sinistra che passa dal pareggio a 61-59; inoltre Yair Lapid ha dichiarato che non appoggerà il progetto di un gruppo che possa bloccare l’attuale Primo Ministro.
Netanyahu dal canto suo si allinea sul programma di Lapid e richiede ora l’eguaglianza di obblighi per il servizio militare, alloggi a prezzi raggiungibili: cambiamenti nel sistema di governo (non specificati). Lapid propone un metodo graduale per imporre gli obblighi militari in base al quale entro cinque anni verrà stabilito per legge che ogni cittadino all’età di 18 dovrà arruolarsi nell’esercito o nel servizio civico. Gli ultrareligiosi reagiscono dicendo che il loro servizio (divino) non è meno importante di quello militare.
Nel campo economico la crescita del 3 per cento annuo è soddisfacente ma bisogna sanare un deficit di bilancio di quasi dieci miliardi di dollari e Netanyahu ha la tendenza a colmare il deficit con tasse sui consumi, piuttosto che sul reddito. Potrebbero aiutare a salvare la situazione gli introiti del gas naturale che però non è ancora entrato in produzione.
La questione del negoziato coi palestinesi non è urgente per Netanyahu. Lapid ha fatto dire che richiede anche la riapertura del negoziato, ma ciò sembra in contrasto con le idee di Bennett che quasi certamente verrà associato al Governo. Insomma, prima ancora di essere costituita, la coalizione scricchiola. Né si possono dimenticare gli altri problemi di politica estera, come la minaccia iraniana, le relazioni col presidente Obama, il peggioramento delle relazioni con l’Europa.
Shelly Yachimovich, leader dei laburisti, ha svolto una pregevole attività nella Knesset uscente, ma non è riuscita a ottenere altro che 15 seggi. Un deputato del suo gruppo le consiglia stamane di aggregarsi al Governo Netanyahu. Ma Shelly non è stata invitata.

Sergio Minerbi, diplomatico

Qui Milano - Il dialogo ebraico-cristiano di fronte alla Bibbia
L'Aula magna dell'Università cattolica del Sacro Cuore gremita per un appuntamento d'eccezione: una conversazione sul tema delle Scritture tra il rabbino capo emerito di Milano Giuseppe Laras e l'arcivescovo Angelo Scola.
Presenti tra gli altri in sala il rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, rav Roberto della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, rav Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, il vicesindaco Maria Grazia Guida, il vicepresidente UCEI Roberto Jarach, il presidente della Comunità milanese Walker Meghnagi, il vicepresidente delle Comunità religiose islamiche Yahya Pallavicini, il rettore della Cattolica Franco Anelli, che ha portato il saluto dell’Università. Ospite speciale della serata Maris Martini, sorella del cardinale Carlo Maria Martini, cui è stato dedicato l'incontro organizzato dalla Fondazione culturale S. Fedele e dalla Fondazione Maimonide nell’ambito delle iniziative di Dialogo a due voci, appuntamento aperto proprio con la lettura di brani dedicati all’ebraismo scritti dall’arcivescovo emerito di Milano scomparso alcuni mesi fa.
“Un cammino positivo eppure difficile quello del dialogo, perché segnato da secoli di sofferenza del popolo ebraico”, ha ricordato Giocchino Pistone, rappresentante della Chiesa valdese chiamato a introdurre la lectio tenuta dal rav Laras e dal cardinale Scola.
“A proposito del dialogo ebraico-cristiano una cosa è essenziale sottolineare: esiste, è una realtà: con tutte le sue difficoltà, le critiche, gli ostacoli da superare. Un traguardo importante dopo duemila anni in cui le occasioni di incontro sono state pochissime, se non inesistenti”.
Così rav Laras ha introdotto il suo intervento, ricordando anche “il sincero amore di Martini per il popolo ebraico, nato dal profondo rapporto con le Scritture e dalla consapevolezza della tragedia della Shoah”, prima di immergersi nel tema delle Bibbia, e dei fondamentali insegnamenti etici e morali che la sua lettura e conoscenza offrono alla società moderna, non soltanto nella dimensione spirituale del rapporto tra l’uomo e D-o, ma anche in quella orizzontale “Pensiamo all’insegnamento che possiamo trarre dalla storia di Caino e Abele. Quando D-o interroga Caino sulla sorte di Abele, ed egli risponde ‘Sono forse io il custode di mio fratello?’. Il brano ci insegna che la risposta da dare è quella positiva. Siamo chiamati a essere custodi gli uni degli altri. Pensiamo ancora a Noè, Giusto nella sua epoca, ma non in assoluto, perché per quanto camminasse con D-o, non si curava abbastanza degli altri uomini. Lo impariamo dal fatto che sull’Arca salì soltanto la sua famiglia. Perché? Perché egli non si era speso abbastanza per convincere il resto dell’umanità a tentare di salvarsi. Mi sono sentito dire talvolta che non vale la pena continuare a insistere sull’importanza dei Dieci Comandamenti, in quanto essi sono già e comunque acquisiti al patrimonio comune. Ma la domanda che io pongo è se, per quanto acquisiti, siamo sicuri che essi siano anche applicati”.
“La Bibbia è il documento scritto del dialogo con cui D-o si rivolge a Israele e poi, tramite Gesù, alla Chiesa per coinvolgere ogni uomo nella sua totalità - le parole del cardinale Scola, che nel suo intervento ha citato gli insegnamenti di Benedetto XVI, la Nostra aetate del Concilio Vaticano II, e il teologo Hans Urs von Balthasar, che del Concilio Vaticano II fu considerato un precursore - Antico e Nuovo Testamento appaiono dunque inseparabili per il cristianesimo. Le Sacre Scritture che insieme veneriamo, e che insieme abbiamo l’opportunità di studiare e meditare, pur rimanendo fedeli alle nostre rispettive specificità, ci chiamano tutti a una risposta di fede e di santità di vita personale e comunitaria, in una reciproca sfida per servire il Signore unico. Il giogo della Torah non può essere portato da soli. Inoltre l’attenzione per le Scritture deve stimolarci nel dialogo verso l’Islam, sempre più urgente nelle nostre società plurali e accomunato dal dovere fondamentale dell’obbedienza a D-o”.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Qui Firenze - Il compleanno degli alberi 
I giovani del Talmud Torà, i bambini della scuola materna Nathan Cassuto e della Comunità, le famiglie, gli insegnanti, insieme nel giardino del Tempio di Firenze per festeggiare anticipatamente Tu Bishvat, piantando un albero da frutto molto importante per la tradizione ebraica: un melograno, simbolo della moltitudine e insieme dell'unione.
In questa ricorrenza adulti e bambini hanno ballato e cantato, festeggiando appunto il forte legame con la terra, che ci nutre con i suoi ricchi frutti.
Dopodiché il rabbino capo Joseph Levi ha invitato grandi e piccini a partecipare a un piccolo Seder didattico durante il quale ridendo, scherzando, cantando e mangiando sono state ricordate le caratteristiche principali della festa.
E' stato divertente vedere come i bambini hanno interpretato a modo loro questa ricorrenza, forse la più semplice e vicina alle loro piccole ma grandi vite.
Tutti festeggiano il proprio compleanno, la propria nascita, il miracolo della vita, e nessun bambino si stupisce all'idea di festeggiare il compleanno degli alberi, piccoli e fragili o grandi e imponenti, tutti importanti, ognuno a modo suo. Chi per la sua imponenza,chi per i suoi frutti.
Sorrido, pensando a una domanda divertente. Mi è stato infatti chiesto,con naturalezza e vivacità: "Possiamo cantare tanti auguri a tutti gli alberi?"

Yael Frare Grünwald


Qui Roma – Le emozioni del Brundibar
Ha suscitato molte emozioni la messa in scena al Teatro dell'Opera, in collaborazione con la Comunità ebraica romana, del Brundibar. L'opera, composta dal musicista cecoslovacco Hans Krasa a Terezin su libretto di Adolf Hoffmeister, rappresenta ad oggi una delle testimonianze artistiche più significative dai campi di sterminio e dai ghetti nazisti. A Terezin infatti, come noto, la macchina della propaganda del nazionalsocialismo mise in atto una delle sue più bieche rappresentazioni cercando di mascherare agli occhi dell'opinione pubblica internazionale, attraverso una patina di apparente normalità, attraverso la costituzione di iniziative assolutamente fittizie come l'Organizzazione del tempo libero e il comitato ad esso preposta, i crimini che vi furono commessi al pari degli altri lager e luoghi di detenzione. Riunito il cast che aveva lavorato a una prima stesura a Praga negli anni addietro, Krasa ricostruì l’intera partitura dell’opera basandosi sulla propria memoria e su una parte dello spartito del pianoforte che ancora possedeva. L'opera, costellata da numerosi elementi fiabeschi e da messaggi impliciti ed espliciti di opposizione al nazifascismo, fu portata per la prima volta in scena il 25 settembre del 1943 ed ebbe in tutto 55 repliche tra cui la celeberrima interpretazione per gli ispettori della Croce Rossa inviati a controllare le condizioni del campo. Ieri sera, salutata con un lungo applauso, la struggente interpretazione del Coro delle Voci Bianche e dall’Orchestra giovanile diretta dal maestro José Maria Sciutto.
Ad accogliere i molti ospiti presenti in sala il presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici. In platea, tra gli altri, l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon e l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta. “Brundibar – come è stato sottolineato – va letto come un manifesto etico che invita ad avere fiducia nel bene che non potrà trionfare sul male. Un messaggio che ha infuso ai prigionieri di Terezin la speranza nel futuro e la forza di conservare dignità e rispetto per se stessi”



pilpul
La cucina a parole
"Lo storico dovrà dedicare una pagina appropriata alla donna ebrea in questa guerra (…) È grazie a loro che molte famiglie sono riuscite a superare il terrore di questi giorni...", scrisse Emmanuel Ringelblum prima di essere eliminato. Wilhelmina “Mina” Pächter morì nell'ospedale di Theresienstadt il giorno di Kippur del 1944, il giorno dell'espiazione e del digiuno. Di lei ci resta un ricettario, scritto nel ghetto/lager insieme ad altre donne, la cui vicenda è raccontata in Sognavamo di cucinare, LeChâteau Editore. Più che il rocambolesco viaggio che dalla terra ceca ha condotto quel pacchetto (c'erano anche una fotografia e alcune lettere) prima in Palestina e finalmente nelle mani del destinatario, la figlia Anny, in un appartamento in Manhattan East Side, più che le ricette in sé, austro-ungariche, più o meno o per nulla kosher, a colpire è l'insegnamento di tutto ciò. Annientate dalla fame, quelle donne resistono, si sforzano di mantenere un legame con le proprie radici, con i sapori e i colori e i ricordi dell'infanzia, la famiglia intorno a una tavola, le feste, le usanze. Cucinano “a parole”, e non soccombono. Vincono perché non perdono l'umanità e, forse, la speranza. Sopravvivono a una fame per noi inimmaginabile che annulla il passato e inchioda soltanto all'attimo presente, al subito, non c'è ieri, non c'è domani. Mina e le sue compagne, con quelle ricette, sconfiggono Amalek.

Stefano Jesurum, giornalista

Equivoci
Tra i meriti che vanno attributi all’istituzione della Giornata della Memoria, vi è sicuramente quello di aver contribuito a diffondere nella società una maggiore sensibilità da parte degli italiani riguardo la Shoah e la deportazioni degli ebrei. I benefici sono evidenti: in ormai ogni scuola del paese si dedica una giornata al ricordo dello stermino nazista e sono tanti gli istituti che scelgono di accompagnare i propri studenti nei campi di concentramento per far vedere con i propri occhi ai ragazzi di cosa l’uomo fu capace. Ai meriti però, va aggiunto un pericoloso equivoco che talvolta gli stessi ebrei contribuiscono a non chiarire: l’identificazione del popolo ebraico come popolo della Shoah. Sia chiaro: qui non si tratta di smentire la tragicità della Shoah, né il suo carattere indissolubile con la storia degli ebrei, ma va chiarito che essa, per quanto unica e irripetibile, è soltanto un capitolo, seppur drammatico, della nostra storia. Lo scopo di ogni antisemitismo è stato sì, quello di annientare il popolo ebraico, ma non certo perché gli ebrei numericamente raffigurassero un rischio per l’umanità, quanto perché i valori di giustizia, libertà ed uguaglianza da noi rappresentati erano invece una minaccia perpetua che andava soppressa. Per questo l’equazione è così tanto pericolosa, perché, seppur in modo involontario, l’identificazione tra ebraismo e Shoah finisce per eterogenesi dei fini per raggiungere l’effetto opposto, ovvero quello di negare quanto il contributo ebraico sia importante e vitale per l’intera collettività. Perciò, proviamo a spiegare meglio chi siamo senza dimenticare mai cosa abbiamo vissuto. Ricordiamo che è per i valori che ci hanno insegnato i nostri maestri che hanno provato a sterminarci, ma che è proprio grazie a quei valori che siamo ancora qui oggi e che lo saremo, se Dio vuole, ancora per molto altro tempo.

Daniel Funaro

Storia di un popolo
Questa è la storia di Betty Schimmel, che a quindici anni si è ritrovata ad attraversare l’Ungheria in mezzo a tormente di neve, per approdare in una baracca di Buchenwald da cui il nemico sperava di non farla più uscire. La storia di sua madre, che con le narici piene di fumo di anime innocenti, ripeteva ogni sera ai propri figli le parole dello Shemah. Proclamando con le ultime forze la propria fede nel D-o di suo padre. Questa è la storia di Emma Tedeschi, un’ebrea italiana che nell’ottobre del 1943, sentendo giungere il proprio momento, prese carta e penna e scrisse. “Figli miei, considerate queste parole il mio testamento. Vi scongiuro, sebbene vediate intorno a voi solo buio e dolore, non desistite. Non concedete al nostro nemico ciò per cui ci sta combattendo. Non rinunciate alla vostra fede, rimanete attaccati all’ebraismo e al suo modo di vivere. Solo così, ne sono sicura, usciremo vivi da questo inferno”. Questa è la storia di Elie Wiesel, che perse tutta la propria famiglia tra Auschwitz e Buchenwald. La storia di un uomo che rinnegò D-o, con tutta la rabbia che si trovava in corpo. La nascita di suo figlio gli fece ricordare il dovere della circoncisione. E lentamente, si insinuò in lui una risoluzione. “Non rinnegherò mai l’eredità dei padri dei padri. Non posso rompere la catena iniziata con il grande Rashi, Rabbi Shlomo Itzchaki, mio antenato, nè tradire la fiducia che gli avi hanno in me riposto. Continuerò a protestare contro D-o, come il profeta Geremia nelle sue Lamentazioni, ma anche a invocarLo e ad amarLo.” Questa è la storia di un popolo che più di ogni altro è stato messo alla prova. Di un insieme di genti che nel quindicesimo secolo scavava tunnel segreti per potere pregare D-o nella lingua dei propri genitori. Di anime sperdute che nel 1942 cercavano disperatamente delle patate. E invece di nutrirsene per poter durare ancora un solo giorno, le incidevano meticolosamente. Per potere accendervi i lumi di Hanukkah, festa imminente. Questa è la storia di uomini, donne e bambini che nel corso dei secoli non hanno desistito. Ma hanno continuato a combattere il buio più profondo con circoncisioni clandestine, sabati osservati di nascosto e preghiere al proprio Creatore. Ani Maamin, io credo in te, D-o dei miei padri, così cantavano pur sentendo la fine vicina. Sapendo che l’ebreo è in grado di dare vita a un’eco nell’eternità solo rimanendo attaccato con pensiero, parola ed azione alla religione tramandata dai propri antenati con orgoglio e ostinazione.

Gheula Canarutto Nemni



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Un concerto per Shlomo e Settimia
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"Ma come posso cantare" è il titolo del concerto, tratto dal "Canto del popolo ebraico massacrato" di Yitzhak Katzenelson  organizzato dal Coro Ha Kol in collaborazione con l'XI Municipio di Roma Capitale, che si svolgerà questa sera alle 21 al Teatro Il Portico. Lo spettacolo è incentrato sulla voce recitante di Lauigi Tani, che ha curato l'adattamento letterario del testo  e sulle esecuzioni musicali del Coro ha Kol diretto dal maestro Andrea Orlando. La voce è quella di un morituro, atrocemente consapevole del proprio destino e di quello del proprio popolo, un destino imminente e irrevocabile, senza speranza. Il Coro, diretto dal maestro Andrea Orlando, eseguirà fra gli altri i brani Ad Maadàm, Aschivenu, Hamavriach, Unter di Churves, Miktam Le David, Halichà Lekeisarya, Ani Ma Amin. Violinista Marco Valabrega. Organizzata nell'ambito degli eventi di celebrazione del Giorno della Memoria, la serata è dedicata al ricordo di Settimia Spizzichino e Shlomo Venezia.
 

L’attenzione oggi torna al Giorno della Memoria, con numerosi articoli che danno conto delle numerosissime celebrazioni, mostre, spettacoli sull’argomento.









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