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12 ottobre 2018 - 3 Cheswan 5778
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SOCIETà

Esercizi di Memoria

img headerVorrei proporre un esercizio di memoria. Voglio giocare a carte scoperte e perciò dichiaro in apertura la logica che seguirò. Si articola in tre postulati. Postulato n. 1: Senza memoria, non c’è futuro. Vero, ma anche improprio. Perché senza memoria, forse di futuro ce n’è un altro. Di solito terribile. O almeno così è per chi assume la memoria come un grimaldello e uno stimolo per pensare futuro. Postulato n. 2: La memoria non è solo un cumulo di fatti del passato. La memoria si sceglie, non si eredita (e anche quando si eredita ancora si sceglie). In conseguenza di ciò che si sceglie ci si costruisce un’idea di passato e una memoria del passato che riteniamo abbia valore per tentare di disegnare un futuro. Postulato n. 3: Il punto di partenza è sempre il presente. Meglio «le rime» che riteniamo di individuare nel presente, verso il passato, in funzione di un futuro che ci presentiamo come possibile (da conseguire, o da evitare). Propongo un esercizio di memoria sulla base di questa sequenza: Uomo in fuga, confine, timore di essere respinto, disperazione, suicido. Sequenza molte volte accaduta nella storia – passata e anche recente. Il Novecento ne è pieno. La sequenza più che un prototipo è un archetipo e ha la sua scena-madre a Portbou nel settembre 1940. Quella scena ha anche un protagonista, noto: Walter Benjamin. È una scena narrata varie volte, ma che conviene riprendere. Prima però, è bene ricordare un dato: Walter Benjamin non giunge a quella linea di frontiera avendo alle spalle una storia di successo (che Benjamin peraltro non conobbe mai in vita). Quella è l’ultima sequenza di un lungometraggio, che dura ormai da almeno sette anni (ovvero dal 19 marzo 1933, il giorno in cui egli in fuga da Berlino giunge a Parigi).

David Bidussa, Pagine Ebraiche, settembre 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

La tenda di Abramo, cifra dell’accoglienza  

img headerVi sono parole e concetti il cui significato si trasforma e si arricchisce in base a certi eventi e certe situazioni storiche. Si consideri il concetto di ‘resistenza’. Da mero concetto fisico-chimico, esprimibile anche in formule matematiche, essa è divenuta una potente metafora morale nel contesto delle etiche religiose (resistere alla tentazione, al male), e oggi, a partire dall’esplosione dei totalitarismi del XX secolo, è sinonimo di lotta per certi diritti e di opposizione a ciò che lede la dignità e la libertà umane, un’autentica virtù sociale e politica, non importa da che parte o in nome di quali valori venga fatta. Ai nostri giorni un’altra parola, un altro concetto sta evolvendo uscendo dalla sfera privata, direi quasi dal galateo domentico, per assurgere similmente a virtù sociale e politica: è la parola ‘accoglienza’. Il fenomeno dei flussi migratori ha creato, negli ultimi decenni, una crisi identitaria che ha posto tale parola e prassi al centro del dibattito pubblico-istituzionale, a tutti i livelli e in ogni angolo del pianeta. Ma di che valore si tratta? Possiamo dirlo sinonimo di ‘ospitalità’? Dal concetto di ospitare molte lingue, anche l’ebraico, derivano nomi di luoghi centrali della nostra vita sociale: ospedale, ospizio, ostello (cioè hotel). In ebraico ospitalità si dice haknasat orchim e indica l’azione di far entrare qualcuno – gli ospiti, appunto – dove? Nelle nostre tende, nelle case del nostro clan. E’ un’immagine presa dalla vita dei nomadi e dei pastori, che usavano spostarsi e attraversare terre aride e deserte. L’ospitalità, per le antiche civiltà semitiche, era un dovere sacro perché senza riceverla/offrirla si rischiava la morte: era dunque un valore vitale, un obbligo di tutti verso tutti, in quanto accomunati dalla condizione di nomadi e viandanti.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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leggende       

Nella Puglia antica
il progenitore del golem 

Una volta, tanti di quegli anni fa che anche a volerli contare non si riuscirebbe perché ci si perderebbe nel buio dei secoli e persino dei millenni, Oria e tutta la regione di Puglia erano piene di ebrei: medici e filosofi, musicisti e rabbini, e tanti di quei «sussurratoci dell'arcano», come li chiama Ahimaaz nella sua cronaca, che se ne trovavano a quasi ogni angolo di strada. Costoro erano in grado di maneggiare le parole della lingua santa, a dar loro corpo, anima e vita propria. Perché l'alfabeto ebraico non è solo un insieme di segni, ma lo strumento divino per eccellenza. Insieme agli altri, i sussurratori dell'arcano erano approdati al tacco del nostro Stivale dall'altra sponda di quel mare Mediterraneo che divide ma anche unisce. Proteso com'è verso l'Oriente quasi in forma di braccio che si tende gentile ad accogliere, all'alba di un tempo di chissà quanto tempo fa, la Puglia era diventata la «Porta di Sion».

Elena Loewenthal, La Stampa

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1938-2018 

La Bucarest matrigna dell'ebreo Sebastian

Era calda a Bucarest l'estate del 1938, calda sino all'asfissia, e non solo in senso meteorologico. All'inizio dell'anno erano entrate in vigore le leggi antisemite varate dal governo Gogo-Cuza dopo il successo elettorale delle Guardie di ferro, il movimento nazionalista dei legionari di Codreanu. Erano misure umilianti per gli ebrei rumeni, ormai vessati, banditi dagli incarichi pubblici, esclusi dalle professioni, privati di quei diritti di cittadinanza ottenuti solo nel 1923, quando il regno di Romania aveva ancora le parvenze di uno stato liberaldemocratico, frutto dell'unione di Valacchia e Moldavia, divenuto indipendente nel 1877 dopo la guerra contro i Turchi, e rinato dalle ceneri dell'Impero asburgico con un territorio triplo rispetto al passato, grazie all'annessione di Transilvania e Banato a est, e di Bucovina e Maramures a nord, dopo la Grande guerra.


Marina Valensise, Il Messaggero 

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