Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui      27 Marzo 2020 - 2 Nissan 5780
IL DIBATTITO IN ISRAELE E NEL MONDO EBRAICO 

I bagni rituali al tempo del virus

Talmud babilonese, Trattato Sotah, pagina 11b.
È stato insegnato da Rav Avira: “Per merito delle donne sagge che vivevano in quella generazione, furono redenti i figli d’Israele dall’Egitto: Quando vanno ad attingere l’acqua il Santo Benedetto prepara per loro dei pesciolini nelle brocche e così attingono per metà acqua e per metà pesce, vengono a casa e cuociono in due pentole: in una l’acqua calda e in una il pesce. Vanno dai loro uomini nei campi e li lavano, li ungono, li nutrono e li dissetano e si uniscono a loro nei solchi fra i campi. E quando sono gravide vanno a casa e quando arriva il tempo di partorire vanno a partorire nei campi sotto il melo (…)”.
La storia prosegue, e merita – provateci – di essere letta per intero, soprattutto in questi giorni. Giorni di incertezza e paura che ci conducono da Purim, dove è una donna salvare la situazione, a Pesach, dove sono schiere di donne – secondo questo midrash e altri – a meritare (e organizzare) la salvezza – la sopravvivenza fisica prima di tutto – del popolo ebraico. Questo racconto rabbinico, contenuto nella Gemarah e in altre fonti, si apre con una scena di disperazione: gli uomini, sovraccarichi di lavoro durante la schiavitù in Egitto e terrorizzati all’idea di mettere al mondo bambini destinati a morire innocenti, gettati nel Nilo per ordine del Faraone, si separano dalle mogli e non tornano più a casa: semplicemente, restano a dormire “al lavoro”, ossia nei campi (scordatevi un momento le piramidi, che qui non ci sono), per non rischiare di concepire. Le donne non ci stanno, e il Santo Benedetto le aiuta: quando vanno ad attingere acqua (il femminile), l’Eterno fornisce loro anche il pesce (il maschile), guizzante, vitale, che entra nelle brocche quasi da solo, spinto da una forza antica e da un istinto primordiale di vita e conservazione/moltiplicazione di sé. Le donne capiscono al volo: cuociono separatamente acqua e pesce e poi li portano entrambi ai campi, pronti a essere riuniti. Ecco allora che gli uomini vengono lavati e unti, poi nutriti e dissetati e finalmente sono pronti per l’amore. Le coppie concepiscono e poi le donne vanno a casa: a quel punto il resto lo possono fare anche da sole: partoriscono senza levatrici, sotto il melo, come nel Cantico dei Cantici. Dei neonati si occuperà direttamente l’Eterno (è il resto del midrash) che fa sgorgare da due pietre tonde come seni olio e miele per nutrire i bambini, i quali – una volta miracolosamente cresciuti nonostante le persecuzioni – saranno i primi a riconoscere la mano di Dio nell’apertura del Mar Rosso e cantare: “Questo è il mio Dio (e lo loderò)” (Esodo 15:2).

Mi è tornata alla mente questa storia sensuale e spirituale, mentre in questi giorni mi domandavo come i mikvaot (bagni rituali) stiano fronteggiando l’emergenza virus: da un lato bisogna tutelare la salute ed evitare qualsiasi possibilità di contagio (anche questo è un precetto della Torah: salvaguardare la vita e la salute, propri – Devarim 4:15 – e altrui – Vaikra 19:16 -) dall’altro, proibire alle coppie di avere relazioni sessuali o qualsiasi tipo di contatto fisico a causa dell’impossibilità di accedere al bagno rituale e quindi di ripristinare la vita fisica della coppia dopo la fine del periodo mestruale, in particolare in un momento come questo, di paura e incertezza, in cui si è bloccati in casa, con la propria famiglia come unico legame con il mondo, pare istintivamente contrario al senso comune. Com’era prevedibile, la questione è stata e sta essendo affrontata in modi alquanto diversi da autorità e voci varie dell’ortodossia israeliana e americana.
Shayna Abramson, che studia per l’ordinazione rabbinica presso il Beit Midrash Har’El e frequenta un MA in Scienze politiche presso l’Università ebraica di Gerusalemme, collabora con il quotidiano israeliano The Times of Israel, per il quale ha raccolto e descritto accuratamente alcune delle posizioni più interessanti.
L’ottimo sito web yoatzot.org, gestito dall’israeliana “Nishmat”, Scuola avanzata di studi ebraici per donne, sta mettendo tutte le sue risorse a servizio dell’emergenza, con consulenti esperte di Alachah e in particolare di “Taharat Hamishpachà”, purità familiare, e tutte le regole che la conservano. C’è una hotline a cui si può telefonare a qualsiasi ora da ogni parte del mondo, una sezione di domande e risposte sul sito, e aggiornamenti continui coordinati con il Ministero della Salute israeliano. Le domande sono le più svariate, dalla “semplice” paura di esporsi al contagio immergendosi in una vasca non necessariamente disinfettata (la pulizia e il rispetto degli standard igienici in molti mikvaot, soprattutto in Israele, è un problema che può rendersi più notevole in un tempo come questo, ma è lungi dal non porsi anche in periodi “normali”), a questioni più tecniche, quali la possibilità – suggerita da alcune autorità alachiche – di allungare “artificiosamente” il ciclo con la contraccezione chimica, in modo da non aver bisogno di usare il mikveh fin quando la situazione si sarà normalizzata. Le più “frivole” paiono alcune signore – io ne ho contate almeno tre – che domandano se possono immergersi nel bagno rituale nonostante la loro gel manicure (uno smalto al gel, che non si può né applicare né rimuovere a casa, perché necessita di specifici macchinari) non possa – appunto – essere né ritoccata né rimossa (normalmente non ci si può immergere con lo smalto sulle unghie perché costituisce una chazizà, o “separazione”, fra l’acqua e il corpo, ma nel caso di una manicure semi/permanente, come quella al gel, la regola è che deve essere perfetta, cioè senza intaccature o punti rovinati, per essere considerata parte integrante del corpo, nel qual caso non è necessario rimuoverla) prima dell’immersione poiché tutte le manicure sono chiuse. C’è la signora che vorrebbe immergersi perché è alle ultime settimane prima del parto, come “segulà”, buon auspicio, nonostante la sua condizione non lo richieda da un punto di vista normativo: la risposta delle “consigliere” è che ci sono altre mitzvot (precetti) la cui esecuzione può propiziare un parto facile: la separazione della challà, per esempio, oppure un evergreen: la tzedakà, gli atti di beneficienza, e la preghiera, in particolare la recitazione dei Salmi. Ci sono rabbini “simbolo” del movimento modern-orthodox israeliano, come rav Daniel Sperber, che hanno proposto di consentire – in via straordinaria – alle coppie che non possono accedere al mikve a causa della quarantena (ma che non sono in quarantena l’uno con l’altra) di avere scambi di affetto fisico come baci e abbracci mentre sono vestiti (concetto espresso nella Ghemarah come “lui nel suo abito e lei nel suo abito”), a patto che non consumino rapporti sessuali, durante questo periodo “di emergenza”. Rav Sperber propone di limitare cioè la proibizione a quanto è espresso nella Torah – il rapporto vero e proprio – “alleggerendo” quelli che sono i decreti rabbinici, le cosiddette “archakot”, allontanamenti, volti a evitare alla coppia qualsiasi “tentazione” proibendo alcun contatto fisico durante i (circa) 12 giorni di separazione prescritti: quelli del ciclo più i cosiddetti “sette puliti”. Il rav Shmuel Eliahu, rabbino capo di Zfat (Safed) e membro del rabbinato israeliano, ha pubblicato una risposta feroce rifiutando in pieno la proposta alachica del Rav Sperber, anzi dichiarandosi incapace di credere che questa proposta sia stata formulata da un tale conoscitore della alachà: si tratta sicuramente – parole del rav Eliahu – della errata comprensione e trascrizione a opera di una “allieva” del rav Sperber, che ha male intrepretato le sue parole.
Il rav Stav, dell’organizzazione modern-orthodox “Shoam”, ha dichiarato in una intervista che i mikvaot sono puliti, è compito del Ministero della Salute controllarli regolarmente e non è certo in un momento come questo che si deve mettere in discussione un regolamento rabbinico come quello delle “archakot”.
Due rabbini sefarditi israeliani, rav Haim Amsellam e rav Haim Ovadia, permettono – data la circostanza – di utilizzare la vasca di casa come bagno rituale, a patto però che contenga almeno 40 seà (= circa 575 litri) d’acqua, sia connessa direttamente al pavimento e perforata. Il corpo deve – come sempre – essere interamente sommerso, capelli compresi. Non sono probabilmente molte le persone che hanno in casa una vasca tanto capiente (la vasca da bagno media contiene circa 300 litri d’acqua): dovrebbe essere piuttosto una piscina, o una Jakuzzi, ma l’idea è allettante.
Ci sono poi donne che stanno considerando la possibilità di immergersi in un mikveh “naturale”, come un mare, una fonte, o un fiume, nei Paesi e nelle regioni del mondo in cui fa già sufficientemente caldo: di per sé questo è contemplato, ma viene escluso laddove costituisca potenziale pericolo per la donna, per il primo principio citato: proteggere la propria e altrui vita è un precetto positivo della Torah.
Dina Zimmerman, israeliana, osservante, medico pediatra, direttrice di Nishmat che lavora per il Ministero della Salute israeliano, ha convocato una conferenza alla fine dello scorso shabbat per aggiornare le donne di Gerusalemme e dintorni sulla situazione.
La Rabbanit Nechama Goldman Barash, dell’organizzazione Yoatzot, insegnante al Machon Pardes di Gerusalemme e consulente su questioni di alachà e sessualità, ha spiegato in una conferenza online – durante la quale le partecipanti potevano in tempo reale porre alla rabbanit da casa le loro domande – come si può gestire la situazione, includendo la possibilità che chi non vuole recarsi al mikveh rimanga nello stato di “niddah”, rimossa, proibita al marito, finché la situazione non migliori. La lezione è stata registrata e messa a disposizione sulla pagina Facebook di “Kolech”, influente forum di donne israeliane religiose.
I bagni rituali statali in Israele stanno – per il momento – continuando a funzionare, con importanti precauzioni: non possono recarvisi più di cinque donne ogni sera (il tempo di apertura è solitamente di un paio d’ore, attorno al tramonto), si puliscono con candeggina tutte le superfici, compreso il corrimano che scende alla vasca, fra una donna e l’altra, non devono mai essere presenti due persone per volta, la quantità di cloro versato nel mikveh normalmente è stata significativamente aumentata. Alle donne viene chiesto di arrivare già “pronte”: invece che fare il bagno o la doccia sul posto, devono prepararsi e lavarsi a casa, capelli compresi, venire vestite il più semplice possibile, con un solo strato, che si toglie, si può mettere in un sacchetto in modo che gli oggetti personali non tocchino nulla all’interno della struttura, si portino da casa asciugamani, ciabatte, etc. Si chiede alle donne di immergersi una sola volta, a prescindere dai diversi minhagim (usanze) che prevedono più immersioni, per fare il più in fretta possibile, ha spiegato R. Barash. La maggior parte dei bagni ha anche iniziato a stabilire dei turni, a prendere appuntamenti telefonici in modo che non ci sia mai contatto fra le donne, nemmeno mentre aspettano. Alle baalaniot – le donne preposte a controllare che il mikveh si svolga regolarmente – è stato imposto di evitare qualsiasi contatto fisico con le utenti del bagno e di mantenere i due metri regolamentari di distanza. Se a un certo punto i mikvaot chiuderanno sarà interessante vedere come reagiranno i rabbini e quali nuovi spazi alachici questo creerà.
La rabbanit Nechama conclude dicendosi sicura che su questo periodo si scriverà di sicuro parecchio sulle “donne sagge di questa generazione”, quando finalmente sarà finito. La conferenza si chiude con l’augurio di un buon mese di Nissan, iniziato ieri, promessa di redenzione e rinascita, il quale risuona assieme ai vagiti del neonato o della neonata di una delle partecipanti alla conferenza virtuale, e sorridere a questo bel segno mi viene spontaneo.

Miriam Camerini

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L'INDAGINE SWG ANALIZZATA DA PAGINE EBRAICHE

Gli italiani di fronte all'emergenza:
le paure nel presente e per il futuro

Qual è il grado di preoccupazione degli italiani rispetto al virus? Quanto pensano durerà l’emergenza? Come si trovano in questa condizione di quarantena forzata a casa? Cosa prevedono per il loro futuro lavorativo? Sono alcune delle domande a cui risponde la nuova edizione del Radar Coronavirus di Swg. Riccardo Grassi, direttore di ricerca dell’istituto, l’ha analizzato assieme alla redazione di Pagine Ebraiche nell’ultimo appuntamento del notiziario pilpul sui canali Facebook UCEI e Pagine Ebraiche.
“Niente più sarà come prima”: questa idea ormai si fa strada nel Paese, come dicono i numeri e come conferma l’elaborazione di Swg. Si guarda con preoccupazione al futuro, ma anche al presente. Se la speranza è che la situazione si possa risolvere entro due-tre mesi (così il 60% degli italiani), i timori per un possibile contagio infatti crescono, soprattutto pensando ai propri familiari.

Una dura prova di resilienza, anche se il Paese sembra tenere. Il 65% dichiara di stare reagendo senza particolari affanni. “Due intervistati su tre dichiarano di riuscire a reagire positivamente, per quanto sia comunque alto il bisogno di tornare alle proprie abitudini. I trend sono stabili. Ciò vuol dire che, per quanto poco più di un terzo dei nostri concittadini facciano fatica a reagire – viene spiegato nel Radar – la situazione non si sta deteriorando”.

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LA REPLICA DI SORGENTE DI VITA 

Firenze, il Ghetto in 3D

Si apre con un servizio sul Ghetto Mapping Project, progetto internazionale di studio e ricostruzione del ghetto di Firenze, la puntata di Sorgente di Vita in onda su Rai Due domenica 29 marzo.

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Simonino (di nuovo)
Come da tradizione secolare, con l’avvicinarsi delle festività pasquali in alcuni ambienti estremi e retrivi si fa strada un’incontenibile pulsione ad esternare sentimenti antiebraici. Lo schema è sempre lo stesso, e ogni volta che ci troviamo a raccontarlo la reazione è stupita: “Omicidio rituale?! Ancora ci si crede?”. Purtroppo sì, e non solo è merce comune (nonostante la splendida mostra organizzata sul tema a Trento di recente), ma c’è chi si mette d’impegno per comporre imponenti opere pittoriche riproponendo senza lasciare nulla al caso la classica iconografia antigiudaica della più vetusta tradizione cristiana, condannata dalla storia oltre che dalla Chiesa stessa.
 
Gadi Luzzatto Voghera
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Ce la possiamo fare
Sono passate più di due settimane da quando le disposizioni del nostro Governo hanno costretto noi tutti a vivere fra le mura domestiche.
Ci sembrava impossibile poter sopravvivere a questa costrizione, nell’impossibilità di svolgere le nostre quotidiane attività. Lo stress è stato per tanti motivo di malattie, a volte logoranti e invalidanti, ed essere calati in questa dimensione surreale e fin troppo rilassata sta provocando strani effetti.
 
Riccardo Pacifici
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Un nuovo rapporto
Questo Shabbat inizieremo a leggere il libro di Vaikrà, terzo libro della Torà.
Esso è conosciuto anche come “Torat ha Cohanim – la legge dei Cohanim” e quindi, per questo, chiamato anche Levitico.
Uno dei compiti dei Cohanim era quello di riconoscere quando un ebreo era affetto da una certa malattia che lo rendeva impuro (neg’a tzara’at) e per questo stabiliva un periodo di quarantena, più o meno lungo.
 
Rav Alberto Sermoneta
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Il seder e il pikuach nefesh
In mezzo a tante cose su cui gli ebrei – e anche i rabbini stessi – hanno opinioni divergenti, almeno una mette tutti d’accordo: il principio del Pikuach Nefesh, cioè l’idea che la salvaguardia anche di una sola vita umana debba avere la precedenza su tutto, e quindi talvolta anche sull’osservanza di un precetto. Essendo un principio rigoroso, spesso è interpretato in modo rigoroso. 
Anna Segre
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Il futuro incerto
In pochi mesi siamo passati da un diffuso scetticismo e da una certa antipatia nei confronti della comunità scientifica a pendere dalla labbra di qualunque persona ne possa capire un po’ meglio di noi sull’epidemia in corso. Soprattutto per intuire quando questo “stato d’emergenza” avrà termine. Virologi, infettivologi, epidemiologi, microbiologi fanno parte ormai del nostro quotidiano. Eppure, si da il caso che esistessero anche prima.
Francesco Moises Bassano
Machshevet Israel - Il Ba'al Shem Tov e l'epidemia
Non siamo certo la prima o l’unica generazione a vivere un’epidemia. Senza ricorrere al Boccaccio o al Manzoni, possiamo consultare nella storia ebraica almeno un episodio assai istruttivo, che ha come protagonista il fondatore del chassidismo, Israel ben Eliezer, noto come il Ba‘al Shem Tov (il Besht), vissuto tra i Carpazi orientali e il fiume Dnieper (regione della Podolia) nella prima metà del XVIII secolo. 
 
Massimo Giuliani
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