Quando è stata annunciata la sua vittoria del Pulitzer nella sezione della narrativa, Joshua Cohen si trovava a Gerusalemme. In pochi minuti, racconta, “la mia casa è stata presa d’assedio dai cronisti: palesemente nessuno di loro aveva letto il libro; è stato buffo ritrovarmi tempestato di domande per trarre il succo di questa trama e poterne scrivere in modo più pertinente”. Per quello che gli appare un paradosso il suo ultimo romanzo è stato così inserito da alcuni critici nel novero della letteratura israeliana. Eppure “The Netanyahus: An Account of a Minor and Ultimately Even Negligible Episode in the History of a Very Famous Family”, appena tradotto e pubblicato in Italia da Codice Edizioni, è stato scritto da un autore ebreo americano che guarda all’eredità di mostri sacri come Philip Roth e Saul Bellow e si svolge interamente negli Usa (tra l’altro nel 1959, l’anno dell’esordio rothiano con Goodbye Columbus). Israeliano è comunque il suo protagonista, lo storico Benzion Netanyahu, autore di un’opera monumentale quanto discussa sull’Inquisizione. Mescolando realtà e finzione, Cohen si immagina la sua visita a un ateneo di provincia alla ricerca di un incarico. Al suo seguito i chiassosissimi figli, pestiferi in modo irritante e parossistico. Alcuni anni dopo Benjamin diventerà uno degli uomini politici più importanti e discussi del Paese. Il fratello Yonatan morirà invece ad Entebbe, a capo di una delle più celebri operazioni condotte all’estero da Israele.
Identità ebraica fra passato e presente, Israele, l’America e la diaspora. Temi appassionanti che diventano esplosivi anche nelle loro contraddizioni nella prosa guizzante di Cohen, ospite d’onore dell’ultima edizione della Festa del Libro Ebraico in Italia.
Il libro, ha spiegato in tale occasione, “è il tentativo da un lato di descrivere e fare un resoconto di un aneddoto che mi ha raccontato il critico letterario Harold Bloom sull’incontro con Benzion Netanyahu e dall’altro di meditare su due concezioni diverse della storia: una per cui la storia esiste e l’altra per cui no”. Fronte, il secondo, cui apparteneva Netanyahu sr. La cui concezione e visione del mondo, prosegue Cohen, “non si fondava tanto sull’idea che la storia non esiste, ma su quella che è il tempo è circolare, e quindi la storia si ripete uguale a se stessa”. Un’idea impregnata di negatività. C’è infatti “un pessimismo, una sfiducia nel momento in cui inizia a documentare la ricorsività di alcune esperienze, andando a sviluppare un’idea di sofferenza necessaria”.
Lo abbiamo incontrato a Venezia, dove ha trascorso un periodo di residenza – coinciso con l’inizio del nuovo anno ebraico 5783 – ospite dell’associazione Beit Venezia e di Casa delle Parole.
Un’ottima occasione per ricaricare le pile dopo mesi sulla cresta dell’onda?
Beh, Venezia ha qualcosa di magico e corroborante. Confesso che della sua storia ebraica sapevo ben poco, a parte qualche indicazione generale. Sicuramente una bella circostanza per approfondire. E poi chissà, da cosa nasce cosa…
Magari farne lo sfondo di un nuovo racconto?
Non lo so, non è un aspetto che si può predeterminare. La creatività funziona diversamente. Ma certo non escludo di poter traslare personaggi e situazioni veneziane in qualche mio scritto futuro. Intanto prendo appunti.
Che rapporto ha con gli scrittori italiani? Quali i suoi punti di riferimento?
Ce ne sono molti. Così, d’impatto, citerei Leonardo Sciascia. Sia per la meccanica e costruzione del racconto che per l’efficace trasmissione del “colore” locale. E poi, tra gli altri, Curzio Malaparte e Cesare Pavese con i suoi racconti. Ma non posso senz’altro tralasciare alcuni pilastri della letteratura ebraica e italiana cui sono debitore. Primo Levi e Giorgio Bassani li ho scoperti nella mia adolescenza, leggendoli tra i 14 e 18 anni. Un altro autore che amo è Italo Svevo.
In passato è stato giornalista nell’Est Europa, documentando la complessa, travagliata ma anche affascinante realtà di quei Paesi. Cosa porta con sé di quell’esperienza?
Un ricordo molto vivido, in particolare dei miei trascorsi ucraini tra Leopoli e Odessa. Due città che, anche ebraicamente, sono custodi di identità e ferite profonde. Quello che ho riscontrato è la fame di Europa della sua gente. L’idea che ci sia qualcuno che questo anelito stia cercando di annientarlo è semplicemente sconvolgente.
Nell’odierna Ucraina si trova Brody, città d’origine del suo scrittore preferito: Joseph Roth.
Visitarla è stata un’emozione forte. Anche se in parte ricostruita, trasmette ancora tutto il suo essere città di frontiera. È la letteratura che più amo quella che parla di confini e precarietà esistenziale. Arte di cui Roth è stato un indiscusso maestro.
Netanyahu riceve l'incarico:
"Il popolo ha scelto chiaramente"
Come ampiamente previsto, il leader del Likud Benjamin Netanyahu ha ottenuto quest’oggi l’incarico a formare un nuovo esecutivo. “Il popolo, dopo tante elezioni, ha deciso in maniera chiara e netta per un governo guidato da me” le sue parole dopo l’incontro con il Capo dello Stato Isaac Herzog. Tra i temi trattati nel suo intervento, durante il quale ha detto di voler essere il premier di tutti, “Israele Stato-Nazione del popolo ebraico, protezione dei diritti civili di ogni cittadino, lotta al terrorismo, azione contro l’Iran e il suo nucleare diretto contro di noi, la ricerca di altri accordi di pace per mettere fine al conflitto arabo-israeliano come condizione per terminare quello con i palestinesi”. Vincitore dell’ultima tornata elettorale, con 64 seggi su 120 andati alla coalizione di cui era leader, Netanyahu avrà 28 giorni per formare un governo. Più un’eventuale proroga di altri 14 giorni.
Il 17 gennaio prossimo si svolgerà una nuova Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. Il Consiglio dell’Assemblea Rabbinica Italiana ha prodotto per l’occasione il seguente testo:
Anche quest’anno ci prepariamo a celebrare la giornata del 17 Gennaio come occasione di dialogo con la Chiesa Cattolica. Sono passati molti anni dalla sua istituzione, fin dall’inizio era stato concordato di scegliere ogni anno uno specifico tema intorno al quale indirizzare il confronto. Seguendo questo criterio, abbiamo affrontato l’intero ciclo delle “Dieci Parole” (i Dieci Comandamenti), poi le cinque Meghillòt, i “Rotoli”, piccoli e densi libri biblici. Esauriti questi temi si è posto il problema di come continuare, e in una riunione congiunta ci è stato proposto per quest’anno di trattare il brano profetico di Isaia 40. Abbiamo subito accettato, non senza un certo stupore, perché nella comunità ebraica quel brano è vissuto con tale intensità e specificità, che ci sembrava strano che avesse tanta importanza per un pubblico cristiano. Ma la ricchezza della Bibbia sta proprio in questo, che riesce a parlare a molti, anche se differenti per sensibilità e tradizioni.
In cosa consiste la specificità ebraica di quel brano? È innanzitutto la sua speciale collocazione liturgica, che a sua volta è espressione di un pensiero importante. Nel calendario ebraico si celebra d’estate un periodo speciale, particolarmente austero, di tre settimane, che inizia con un digiuno (il 17 di Tamuz) e finisce con un altro digiuno, ancora più rigoroso, quello del nove di Av. In questo giorno si ricordano le distruzioni del primo e del secondo Santuario di Gerusalemme e molte altri eventi luttuosi che hanno funestato la storia ebraica. Nel sabato che precede il 9 di Av si legge, con melodia struggente, il capitolo 1 di Isaia, quello della “Visione”, severa e minacciosa. Nel sabato successivo l’atmosfera cambia, è il momento della ripresa, della consolazione, il brano scelto per segnalarlo è proprio Isaia 40, che inizia con le parole Nachamù nachamù ‘amì, “Consolate, consolate il Mio popolo”. Questa volta la melodia è solenne e festiva. Tutto questo per dire che c’è una precisa interpretazione storica nell’uso di quel brano. Il popolo di Israele, pur colpito da sciagure, sa che dopo il lutto viene la consolazione, la vita riprende, il legame con il Signore torna ad esprimersi su toni più sereni, nell’attesa fiduciosa della completa redenzione, su questo percorso il messaggio è sempre valido. Tanto radicata è la consuetudine di quel brano, che si presta pure, nel linguaggio dialettale degli ebrei italiani, a un proverbio meteorologico: “Nachamù, nachamù e l’estate non c’è più”.
“Era importante aprirsi alla città per far conoscere la Comunità ebraica ai non ebrei, partendo prima di tutto dal quartiere, poiché il Pitigliani era nel cuore di Trastevere. La conoscenza dell’altro è il primo punto di partenza per una integrazione”, racconta Franca Eckert Coen nel libro intervista Farò e Capirò (ed. Efesto) a cura della giornalista Francesca Baldini. Testo di recente uscita che ripercorre le tappe e le molteplici sfumature dell’impegno non soltanto comunitario che l’ha vista protagonista nell’arco di vari decenni. Come artefice della trasformazione del Pitigliani da orfanotrofio in centro comunitario, ma anche come donna attenta allo sviluppo del Dialogo interreligioso, alla sfida del sociale, ai temi dell’integrazione. Numerose le testimonianze che hanno animato una serata in suo onore, svoltasi in quel centro Pitigliani in cui ha scritto pagine importanti del suo percorso.
Il Rinascimento parlò anche ebraico. Ad attestarlo una delle mostre che compongono l’itinerario permanente del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara a cura di Silvana Greco e Giulio Busi.
Proprio Busi, ospite del Circolo dei Lettori di Torino, tratterà domani il tema nel corso di una conferenza. L’idea di fondo proposta dallo studioso, docente presso la Freie Universität e direttore dell’Istituto di Studi Ebraici di Berlino, è che "non vi sia Rinascimento italiano senza ebraismo". Un tema che sarà esplorato valorizzando il contributo di intellettuali ebrei alle sperimentazioni filosofiche, artistiche e culturali del tempo.