Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui   18 Novembre 2022 - 24 Cheshvan 5783

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Pagine Ebraiche 24, l'Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'UCEI sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Le testate giornalistiche non sono il luogo idoneo per la definizione della Legge ebraica, ma costituiscono uno strumento di conoscenza di diverse problematiche e di diverse sensibilità. L’Assemblea dei rabbini italiani e i suoi singoli componenti sono gli unici titolati a esprimere risoluzioni normative ufficialmente riconosciute. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo comunicazione@ucei.it Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: comunicazione@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio "cancella" o "modifica". © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.

 
La rubrica “Opinioni a confronto” raccoglie interventi di singoli autori ed è pubblicata a cura della redazione, sulla base delle linee guida indicate dall’editore e nell’ambito delle competenze della direzione giornalistica e della direzione editoriale. 
È compito dell'UCEI incoraggiare la conoscenza delle realtà ebraiche e favorire un ampio ed equilibrato confronto sui diversi temi di interesse per l’ebraismo italiano: i commenti che appaiono in questa rubrica non possono in alcun modo essere intesi come una presa di posizione ufficiale dell’ebraismo italiano o dei suoi organi di rappresentanza, ma solo come la autonoma espressione del pensiero di chi li firma.

Totalitarismo   

"Può darsi che fra vent’anni avrete ragione voi, ma per il momento sono io che ho ragione".
Sono le parole con cui il giudice istruttore interviene per esortare la corte a condannare Andrej Sinjavskij e Julij Daniel. Accontentato: cinque e sette anni di carcere e lavoro forzato nel lager. È il febbraio 1966. Per chi volesse saperne di più Ezio Mauro, nel suo Lo scrittore senza nome. Mosca 1966: processo alla letteratura (Feltrinelli), ha descritto quella storia con grande competenza, ma anche, cosa che non guasta, con profondo senso civico (una cosa che fa rima con giornalismo).
Più di mezzo secolo dopo, ci risiamo (chi avesse dubbi legga per favore Proteggi le mie parole, il libro che l’editore e/o manda in libreria prossimamente). Chissà se qualcuno, in un qualsiasi spazio dell’informazione pubblica, in mezzo alla fiumana di parole sull’orgoglio russo ferito avrà l’intelligenza - dismettendo la furbizia - di parlarne, chiamando le cose con il loro nome: "totalitarismo".
Aspetto, con scetticismo. (13/11/2022)

David Bidussa

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Solo poche righe sui libri di storia   

In questa fase di parole sbandate ed eccessive, tese più a colpire e a coprire che a significare concetti e a proporre contenuti, le parole di Liliana Segre spiccano sempre per la loro profondità, centralità, essenzialità. Già il suo discorso al Senato per l'inaugurazione della legislatura era emerso su tutti gli interventi per la concretezza pregnante del richiamo alla Costituzione quale timone irrinunciabile e direzione orientativa basilare di qualsiasi governo si apprestasse a guidare il Paese. Il recente intervento milanese al Forum delle Donne Ebree d'Italia è tornato a soffermarsi sul tema più legato al suo ruolo di testimone del passato per le generazioni attive nel presente, quello della memoria e della conoscenza storica. Una frase del suo discorso in particolare mi ha colpito e mi pare offrire stimoli per domande e riflessioni: fra non molto, del ricordo della Shoah resterà solo qualche riga sui libri di storia. È strano, la senatrice sempre così costruttiva e fiduciosa stavolta appare pessimista, quasi scettica rispetto alla nostra epoca e alla sua capacità di conoscere e di imparare dagli orrori del passato, forse anche dubbiosa nei confronti dell'efficacia del suo personale messaggio. Da cosa deriva questa sua attuale amarezza? È difficile – guardando al nostro tempo, alle sue amnesie, al suo linguaggio di odio, al suo riemergente e sempre rinnovato antisemitismo – darle torto. La società non rammemora le lezioni dei tempi bui, tende a cancellare gli abissi della storia per il terrore che suscitano, senza capire che il portarne memoria aiuta a comprenderne la genesi e ad allontanarne la replica.
I dubbi e le fosche previsioni della grande testimone, che rappresenta la saggia consapevolezza dalla quale dovremmo tutti essere guidati, ci spingono a interrogarci sulle cause di questo nostro progressivo scivolamento verso l'oblio totale, evidente e inarrestabile nonostante l'accumularsi delle testimonianze, il succedersi meritorio dei Giorni della memoria, la costruzione continua di percorsi scolastici che coinvolgono insegnanti e studenti. È come se ogni anno si tracciassero strade nuove e significative per poi cancellarle e dover ripartire ogni volta da zero, rammentando ogni volta di meno e perdendo progressivamente il senso degli eventi di fondo, il quadro della situazione storica in cui i totalitarismi fascisti hanno potuto affermarsi e tracciare il loro percorso distruttivo.
L'inevitabile eclissarsi delle testimonianze dirette di chi ha vissuto quegli anni è un fatto oggettivo, che certo contribuisce all'allontanamento generale dalla memoria e dalla storia della prima metà del Novecento. Ma temo che, al di là e in aggiunta rispetto alla perdita crescente delle narrazioni personali, si manifesti l'atteggiamento volontario di un'epoca e di una o forse due generazioni: si diffonde la paura del passato (paura di dipenderne, paura di ripeterlo o di esserne vittime/prigionieri); si tende quindi a sfuggirgli, ad annullarlo progressivamente da sé anche se immersi in una rete di ricorrenze legate alla memoria.
Questo timore, questo horror vacui e questa fuga dal passato potrebbero anche essere comprensibili, soprattutto se rapportati all'enormità e alla tragicità di "quella" memoria, alla difficoltà di sostenerla. Il problema è, però, che perdere la memoria del proprio passato (anche di quello più tragico) significa perdere la propria identità, il senso della propria storia. E permettere, con ciò, la progressiva cancellazione di fatto di quel passato annientatore (la Shoah) che invece è esistito come una delle più gravi responsabilità della storia; lasciare spazio cioè all'incunearsi crescente del negazionismo e della sua tendenza ad annacquare, poi ad annullare la realtà dello sterminio e le cause della sua genesi. Il clima negazionistico è a sua volta, come sappiamo, il terreno di coltura più propizio a un rinnovato (e oggi purtroppo evidente) sviluppo del pregiudizio antisemita.
Ecco perché il ruolo di chi, come Liliana Segre, non solo porta testimonianza della propria vicenda ma riflette dolorosamente sulla sua portata e sul proprio tempo è fondamentale. Ecco perché il pessimismo complessivo che traspare dalle sue recenti parole può paradossalmente trasformarsi in una spinta potente alla riflessione sulla funzione della memoria e alla presa di coscienza da parte delle giovani generazioni. (14/11/2022)

David Sorani

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 Machshevet Israel - Storiografia o storiosofia?   

Invitato a partecipare, giorni fa, a una tavola rotonda al Meis di Ferrara sul tema dell’esilio, ho proposto una riflessione sulla compresenza dialettica nel giudaismo di due approcci diversi a questo tema e in generale alla storia del popolo ebraico: un approccio storiografico e un approccio che, con termine desueto ma pregnante, alcuni studiosi (ad es. il prof. Aviezer Ravitzky) definiscono ‘storiosofico’. Qual è la differenza? La storiografia altro non è che la riflessione critica sui princìpi metodologici e sui presupposti ideologici con cui viene elaborata e scritta, in modo selettivo a fini interpretativi, la storia dei fatti accaduti in epoche passate. Come tale, si tratta di un concetto e un approccio tipici della modernità. Per storiosofia si intende una prospettiva sugli eventi considerati alla luce di precisi significati religiosi, in quanto inseriti in una catena di azioni umane sempre ‘sotto l’occhio divino’, per così dire; tali significati possono essere a noi palesi o nascosti, ma tracciano l’alveo di un volere divino che è, al contempo, una sapienza superiore; di conseguenza, nella storia occorre vedere la metaforica ‘mano di Dio’ al fine di comprendere cosa succede. Sin dalla stesura dei testi biblici e poi nella variegata produzione di midrashim (durata oltre un millennio), arrivando infine alla modernità – ma in alcuni ambienti ortodossi fino ad oggi – è questa la concezione dominante della storia, una storia che in realtà è una memoria, quasi una chokhmà, una sapienza religiosa fissata in una costellazione di racconti tesi a coltivare l’identità sulla base di quella memoria sapienziale, in modo quasi indifferente alla ‘verità storica’ (in senso moderno).
Nella storiosofia l’ordine del reale si sottopone all’ordine dell’ideale, e il positivo o il negativo si misurano sulla base della vicinanza o della lontananza tra i due ordini. In quest’ottica il senso degli eventi non scaturisce dalla ricostruzione ‘scientifica’ degli eventi stessi, ma gli eventi sono tali a partire dai significati che la fede attribuisce loro. Dunque il luogo della ricomprensione degli eventi non è tanto il racconto degli storici o la decifrazione e comparazione dei documenti, quanto il ciclo del calendario liturgico, la cui ratio trova in un dettaglio storicamente insignificante (ad es. una lampada ad olio che non si spegne per otto giorni) la chiave e il senso di eventi complessi come uno scontro armato tra opposti mondi politici e culturali, o addirittura una guerra civile intraebraica (alludo allo scontro tra seleucidi e maccabei nonché tra ebrei ellenizzati e non, a metà del II secolo a.e.c., che sta alla base della festa di Chanukkà). È questa prospettiva o meglio quest’acuta sensibilità religiosa, come hanno spiegato sia lo storico Yosef Hayim Yerushalmi (1932-2009 sia il biblista Yehezkel Kaufmann (1889-1963), ciò che ha anestetizzato il mondo ebraico all’istanza greca della valutazione critica della storia e ha reso di fatto inesistente una storiografia ebraica fino all’età moderna (culminata con la Wissenschaft des Judentums, fino a Simeon Dubnow e Salo Baron). Nondimeno, a partire dal XVI secolo – in particolare nel mondo ebraico italiano – emerge progressivamente anche la storiografia: si profila già nelle opere di Itzchaq Avravanel, e poi in Solomon Ibn Verga, Azariah de’ Rossi, Simone Luzzatto… I primi due sono esuli di rango dalla penisola iberica, e nel loro caso è proprio il bisogno di riflettere sul dramma dell’esilio, anzi dell’esilio dall’esilio, ciò che li spinge a cercare di capire cosa è successo e perché. In quella fase i due approcci sono ancora imbricati e compresenti, ma a poco a poco si dipanano delineandosi come due prospettive diverse e, di fatto, divergenti, sebbene coesistenti nell’orizzonte della cultura ebraica moderna.
Chi ha messo a fuoco tutto ciò nel Novecento sono stati due grandi storici che hanno offerto anche profonde riflessioni storiografiche: Itzcahq Baer (1888-1980) e lo stesso Yerushalmi, curiosamente due ashkenaziti appassionati di storia sefardita. Baer è autore di un illuminante studio intitolato Galut, esilio appunto, scritto in tedesco nel 1936, che può dirsi un vero e proprio manuale di storiografia ebraica, e dove questo termine/concetto emerge in una vasta gamma di significati nel corso della storia del popolo ebraico, fino al ritorno in Eretz Israel. Yerushalmi compie il medesimo percorso nel suo breve capolavoro Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, edito in inglese quarant’anni fa, nel ’82 (tradotto da Daniela Fink per Pratiche Editrice nel ’83 e ristampato da Giuntina nel 2011), opera che coglie il punto problematico della storiografia ebraica esattamente nel complesso e non di rado conflittuale rapporto tra storia e memoria, tra ricostruzione degli eventi e codificazione dei loro significati per le generazioni future. Chiudo con una sua potente intuizione: “Il declino della memoria collettiva nei tempi moderni è solo uno dei sintomi del dissolvimento di quel rapporto organico tra la fede e la prassi grazie ai cui meccanismi interni il passato poteva farsi presente. Sta qui la radice della malattia, e la memoria ebraica non può essere risanata se la vita comunitaria non trova un rimedio alla sua disgregazione interna… Ma per le ferite che l’ebraismo ha riportato negli ultimi duecento anni, lo storico può essere nella migliore delle ipotesi un patologo, ma non può certo suggerire una terapia”. (14/11/2022)

Massimo Giuliani

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