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La rubrica “Opinioni a confronto” raccoglie interventi di singoli autori ed è pubblicata a cura della redazione, sulla base delle linee guida indicate dall’editore e nell’ambito delle competenze della direzione giornalistica e della direzione editoriale. 
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Il duca  

Come abbiano già ricordato, Mosè è indicato, nel IV Canto dell’Inferno, tra gli spiriti dell’antico Israele che, confinati nel Limbo fino alla venuta e alla morte del figlio di Dio, furono poi da lui portati con sé in Paradiso, subito dopo la Passione, allorché scese appositamente nell’Inferno per assolvere a questo compito.
Virgilio racconta a Dante di essere stato personale testimone di questo evento, al quale assisté poco dopo essere sceso anch’egli nel Limbo (“Io era nuovo in questo stato”: Inf. IV. 52: tra la data della sua morte [19 a. E.V.] e quella di Gesù [33 E.V.] passano in realtà 52 anni; un lasso di tempo lungo secondo il metro della durata della vita umana, ma indubbiamente breve di fronte all’eternità). Abbiamo già detto come il poeta, in quei versi, con straordinaria capacità di sintesi, riesca in pochissime parole a indicare le caratteristiche essenziali dei padri e delle madri dell’antico Israele. Il profeta, segnatamente, è ricordato come “legista e ubidiente” (Inf. IV. 57): diede al suo popolo (e all’umanità intera) le leggi di Dio, e lo fece ubbidendo alla sua volontà. Ma la grandezza di Mosè, e il suo posto di assoluta centralità nel disegno soteriologico, è eloquentemente attestata dal fatto che egli compare in tutte e tre le cantiche: oltre alla già citata menzione dell’Inferno, ne abbiamo infatti un’altra nel Purgatorio e due nel Paradiso.
Nel XXXII Canto del Purgatorio, nel Paradiso terrestre – situato, com’è noto, sulla sommità della montagna del Purgatorio –, ove è ormai arrivato, Dante narra come si svegliò da un sonno che lo aveva colto, e, per descrivere questo risveglio, ricorda l’episodio evangelico della trasfigurazione, alla quale assistettero gli apostoli Pietro, Giovanni e Iacopo, i quali, finita la visione, videro dissolversi le immagini di Mosè e di Elia, che erano a loro apparse accanto al figlio di Dio (XXXII. 79-80). In questo passo la figura di Mosè non è quindi evocata per la sua funzione nella storia ebraica, ma solo come personaggio della narrazione evangelica, atto a sottolineare il nesso di continuità tra quello che i cristiani (e quindi anche Dante) considerano in Vecchio (o Antico) Testamento e il Nuovo. E non è qui il caso di soffermarsi sulla questione di come debba essere interpretata la parola Vecchio (Antico). In Dante, senza alcun dubbio, non voleva dire ‘superato’ o ‘cancellato’.
Nella prima citazione di Mosè nel Paradiso, nel XXIV Canto, il profeta è menzionato all’interno di una solenne dichiarazione di fede fatta dal poeta, il quale asserisce di credere nel Dio unico senza bisogno di prove, ma unicamente “per Moïsè, per profeti e per salmi,/ per l’Evangelio e per voi che scriveste” (XXIV. 136-137), ossia per quelli che i cristiani chiamano Pentateuco, per i libri profetici, per i salmi (richiamati per indicare la totalità dei cd. Agiografi), per i Vangeli e per gli altri testi neotestamentari (“voi che scriveste”: il poeta si rivolge agli autori degli Atti degli Apostoli, delle lettere di Paolo e dell’Apocalisse). Nell’elenco, come si vede, sono menzionati degli scritti (i salmi e il Vangelo) e delle persone (Mosè, i profeti e gli apostoli), ma queste ultime sono considerate un tutt’uno con i testi da loro redatti. Mosè, in questo senso, è citato come sinonimo del Pentateuco. Chi crede in quei libri, crede in Mosè.
Nella seconda citazione, contenuta nel XXXII Canto (a cui abbiano già fatto cenno in una scorsa puntata), Dante racconta di come San Bernardo gli descriva la visione delle anime beate che hanno il privilegio di circondare Maria, guardandola da vicino: Adamo, Mosè, Pietro, Giovanni Evangelista, Anna (madre di Maria) e Lucia. Mosè non è chiamato col suo nome, ma con l’espressione “quel duca sotto cui visse di manna/ la gente ingrata, mobile e ritrosa” (131-132), con ciò richiamando la traversata del deserto, che vide gli ebrei cibarsi di manna sotto la guida del profeta. L’espressione “gente ingrata, mobile e ritrosa, come abbiano già spiegato, non ha assolutamente un senso di generalizzata disistima verso il popolo ebraico, ma, solo di condanna per coloro che si dimostrarono recalcitranti a seguire con fiducia il loro “duca”.
Ma credo che il debito di Dante nei confronti di Mosè vada al di là de queste quattro citazioni, in quanto lo stesso tragitto ultramondano del poeta trae ispirazione dal percorso del profeta, così come dagli altri tre viaggi più famosi di tutti i tempi, quelli di Abramo, Ulisse ed Enea. Sul senso di questi cinque viaggi (Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante) torneremo nelle prossime puntate.

Francesco Lucrezi

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