La rubrica “Opinioni a confronto” raccoglie interventi di singoli autori ed è pubblicata a cura della redazione, sulla base delle linee guida indicate dall’editore e nell’ambito delle competenze della direzione giornalistica e della direzione editoriale.
È compito dell'UCEI incoraggiare la conoscenza delle realtà ebraiche e favorire un ampio ed equilibrato confronto sui diversi temi di interesse per l’ebraismo italiano: i commenti che appaiono in questa rubrica non possono in alcun modo essere intesi come una presa di posizione ufficiale dell’ebraismo italiano o dei suoi organi di rappresentanza, ma solo come la autonoma espressione del pensiero di chi li firma.
Senza base comune
Perché antifascismo e Resistenza, pur essendo stati il motore della Costituzione repubblicana, non sono più oggi la base comune del nostro sistema politico, che di continuo torna paradossalmente a dividersi sulla lettura del ventennio e dei partiti ad esso ispirati invece di fondarsi sulla sua inequivocabile e definitiva sconfitta per guardare oltre in maniera meno visceralmente divisa e settaria?
Questo mi pare l’interrogativo fondamentale da porsi dopo i vari recenti episodi della discussa visita della Premier Meloni alla Comunità ebraica di Roma condita da abbracci e lacrime, della celebrazione del MSI da parte della Vicesegretaria alla Difesa Isabella Rauti e soprattutto del Presidente del Senato Ignazio La Russa, della forte critica a questo orgoglio postfascista emersa nel dibattito pubblico, della presa di posizione ferma e chiara da parte dell’UCEI, delle polemiche ad essa seguite anche in ambito ebraico. Credo che al di là della raggelante constatazione di quanto salde siano ancora oggi le radici missine (e alle spalle repubblichine) di chi da ottobre occupa posizioni di vertice nelle nostre istituzioni e della incontestabile presa d’atto del fatto che il MSI era regolare partito politico nel quadro delle rappresentanze parlamentari nate nel dopoguerra, occorra riflettere sul processo che ha condotto a una progressiva erosione di contenuti e di coinvolgimento rispetto alla forza sociopolitica originaria dell’antifascismo.
Innanzitutto si tratta, banalmente, di una questione di tempo. Il trascorrere dei decenni ha fatto emergere realtà e nodi via via sempre più distanti dal clima della ricostruzione/rifondazione in cui sono nati e si sono sviluppati i fondamenti della nostra democrazia repubblicana. Nodi anche decisivi, fasi drammatiche (penso al terrorismo nero e rosso, alla violenza della malavita organizzata) che certo hanno potuto essere superate grazie alle istituzioni democratiche nate dall’antifascismo, ma che non hanno sollecitato adeguate riflessioni e concrete realizzazioni rispetto alle tematiche e ai valori frutto dell’opposizione al sistema totalitario e della lotta di Liberazione di cui il nostro Stato è figlio. E’ come se quei valori si fossero sì sviluppati nelle istituzioni e nelle procedure, ma non fossero stati introiettati in modo completo e attivo nella società, o piuttosto avessero gradualmente perso il loro autentico significato nel contesto della massa globalizzata. Conseguenza forse inevitabile del fattore tempo e della perdita di partecipazione diretta alla “sfida” della libertà e della democrazia (date entrambe eccessivamente per scontate) è stata allora lo svuotamento progressivo di significato del termine “antifascismo”, che ormai – se non viene riempito di senso dalla comprensione, dalla condivisione, dalla partecipazione comuni legate a realizzazioni “positive” – rischia di divenire una affascinante ed evocativa scatola vuota trasformandosi dunque in un puro “anti-” privo di elementi effettivamente costruttivi, e col trascorrere degli anni di scomparire di fatto, dato che per fortuna l’autentico fascismo non ha oggi dimora stabile ed effettivo potere in Italia. Rivitalizzare a attualizzare l’antifascismo credo sia in questa fase un obiettivo concreto per la democrazia italiana, più che mai oggi che la destra è al potere e dà nuovo vigore alle sue nostalgie nazionaliste. Altrimenti è inevitabile che siano proprio i temi accentratori, verticistici, nazionalistici della destra ad emergere e ad ammantarsi di valori patriottici legati alla “italianità”; come se l’ “italianità” rifuggisse dai contenuti propri dell’antifascismo.
Ma al di là degli aspetti ideologici e identitari, la concretezza della questione si misura su programmi e realizzazioni. L’incertezza sul futuro rispetto alla destra al potere non dipende tanto dai richiami più o meno espliciti di alcuni suoi esponenti al regime fascista o ai partiti postfascisti, quanto dalle sue attuali scelte politiche e sociali e dalle loro implicazioni. Così non è tanto sull’altezza dei principi astratti e sul richiamo ai nobili ideali che si valuta oggi la validità dell’antifascismo, quanto sulla sua capacità propositiva e sulla sua forza di coinvolgimento in termini di effettive realizzazioni.
Nei giorni scorsi l’interminabile contenzioso tra israeliani e palestinesi si è arricchito di due nuovi capitoli che in realtà, come vedremo, niente aggiungono alla storia di questo contenzioso.
Il primo riguarda la risoluzione con la quale l’Assemblea generale dell’Onu ha dato mandato alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja di “valutare le conseguenze dell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele”. Il secondo riguarda la discussa “passeggiata” del ministro israeliano Itamar Ben-Gvir sul Monte del Tempio (“Spianata delle moschee” per gli islamici).
Vediamo per prima la vicenda della votazione all’Assemblea generale dell’Onu, anche se le due vicende, pur così diverse, appaiono connesse se non altro dal punto di vista temporale.
Il primo aspetto da prendere in considerazione è il risultato stesso della votazione: apparentemente si tratta di un successo schiacciante dei paesi sostenitori della risoluzione: 87 voti a favore, 26 contrari. Ma se si osserva che ben 53 paesi si sono astenuti, allora il senso della votazione cambia. Astenersi in una votazione del genere significa non condividere l’opinione che è opportuno rimettere alla Corte internazionale dell’Aja una decisione politica come quella relativa ai territori contesi in Palestina. Se poi si guarda più da vicino quali sono i paesi che hanno preso questa o quella posizione, ci si accorge che, accanto ai paesi compattamente schierati a favore della risoluzione cioè i paesi islamici e quelli che hanno una posizione decisamente antioccidentale a prescindere dal merito della questione, Russia e Cina per primi, e prescindendo anche dai paesi che sono comunque a fianco di Israele, a partire dagli Stati Uniti (ma anche Australia e Canada), ci si accorge che tra gli astenuti (o addirittura tra i contrari) figurano grandi paesi come Francia, India, Giappone, Brasile, Gran Bretagna. Forse l’aspetto più interessante è dato dal comportamento dei paesi che fanno parte dell’Unione europea, che hanno votato in modo assolutamente sparso, dividendosi tra le tre posizioni possibili: cosi abbiamo paesi che si sono schierati a favore della risoluzione, come Danimarca, Malta, Irlanda, altri che si sono astenuti, come la già ricordata Francia, l’Olanda, la Spagna, altri ancora che hanno assunto una posizione decisamente contraria, come la Germania, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Romania, l’Austria, la Croazia e la stessa Italia.
Ma l’aspetto più rilevante che va messo in evidenza non è nemmeno il risultato numerico della votazione, anche se non si può non rilevare che, rispetto al problema del conflitto israelo-palestinese, nel corso dei decenni ci sia stata una sensibile dislocazione di molti paesi: in passato, infatti, votazioni simili registravano vaste maggioranze contrarie a Israele, che spesso si è trovato a contare solo sull’appoggio degli Stati Uniti e di pochi altri paesi.
Ma tutto ciò ci rimanda alla vera questione, che riguarda la strategia dell’Autorità Nazionale Palestinese. una strategia basata sulla convinzione che solo creando un massiccio schieramento internazionale a suo favore avrebbe potuto raggiungere l’indipendenza della Palestina, mentre rifiutava di fatto la strategia delle trattative dirette con Israele,
Bisogna dire che questa seconda – e sicuramente più fruttuosa – strada è stata bruciata, forse per sempre, dall’esito dei colloqui di pace di Camp David promossi dal presidente americano Bill Clinton nell’estate 2000, dove si arrivò a un passo dall’accordo, vanificato all’ultimo momento dal leader palestinese Yasser Arafat, che voleva aggiungere ai punti sui quali era stato raggiunto l’accordo il diritto per tutti i palestinesi che avevano lasciato la loro terra in seguito alla guerra del 1948-49 e a quelle successive. Non solo, ma tale diritto doveva essere esteso anche ai loro discendenti, anche se vivevano ormai in Egitto, in Giordania o in altri paesi. L’applicazione di questo principio avrebbe provocato un tale sconvolgimento nell’equilibrio demografico della popolazione complessiva di Israele che, nonostante la volontà di Ehud Barak e di Shimon Peres di arrivare a un accordo, esso non fu accettato. Il rifiuto provocò non soltanto il fallimento dell’accordo ma fu l’occasione per lo scatenamento della seconda intifada, ben più feroce e sanguinosa della prima. Da allora, nonostante vari tentativi da parte dei paesi occidentali e in particolare degli Stati Uniti, e nonostante varie ipotesi di accordo, di fatto la trattativa non è mai stata ripresa seriamente, senza contare la strategia terroristica di Hamas e della Jihad islamica.
La conclusione di questa vicenda – e di altre analoghe – ha messo in evidenza che la strategia dell’Olp è destinata al fallimento e che solo trattativa politiche dirette con Israele – magari mediate dalle grandi potenze come gli Stati Uniti – potrebbero far uscire dallo stallo in cui si trovano. Non si può non aggiungere che, mentre dopo gli accordi di Oslo e per molto tempo ancora, prevaleva nell’opinione pubblica israeliana ma anche in quella internazionale, la speranza che un accordo si sarebbe trovato, adesso la soluzione “due popoli due stati” trova un consenso sempre più debole da entrambe le parti. Tanto più che nessuna influenza sulle posizioni palestinesi hanno avuto gli Accordi di Abramo, che avevano fatto sperare che potessero avere un’influenza anche in campo palestinese. In realtà l’aspra concorrenza tra Olp e Hamas e il radicalismo di quest’ultima blocca in partenza ogni ipotesi di trattativa.
L’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si basa su un c.d. parlamentino, anziché su una formazione di soli Presidenti di Comunità. Ne consegue che l’Ucei riveste natura parlamentare anziché presidenziale. Quindi, anche in sedi particolari, troviamo il seme di questa problematica.
Leggo che “Presidents are more likely to be outsiders than prime ministers”(Robert Elgie, Political leadership, A pragmatic institutional approach, 2018, p. 68); apprendo anche che nel presidenzialismo ci sono maggiori conflitti col Parlamento che nel parlamentarismo (id), ma questa è una banalità, perché il Presidente non è designato dal Parlamento mentre il primo ministro lo è. Quando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si qualifica come “underdog” (un termine che ricorda Richard Nixon) potremmo desumere che il ruolo presidenziale secco le si attaglia maggiormente del premierato.
Vi è però anche un tertium genus. Nei manuali si apprende che la dottrina qualifica come semipresidenziale la forma di governo della V Repubblica francese (sorta con la Costituzione gollista del 1958), contraddistinta dalla contestuale presenza di un Presidente della Repubblica – eletto direttamente dal popolo e titolare di rilevanti attribuzioni di indirizzo politico – e di un governo (guidato da un Primo ministro) che deve godere della continuativa fiducia dell’Assemblea nazionale (anche se non è previsto un voto iniziale di investitura). Un ulteriore elemento che caratterizza il semipresidenzialismo francese deve individuarsi nella subordinazione del legislativo all’esecutivo, che si è realizzata anche grazie ad alcuni strumenti previsti dal testo costituzionale quali la questione di fiducia (il provvedimento su cui è posta la fiducia è considerato adottato nel testo voluto dall’Esecutivo a meno che entro ventiquattro ore non venga presentata una mozione di sfiducia, art. 49 Cost. 1958.
Si era concluso così: “Si può, dunque, affermare che l’elezione diretta del Capo dello Stato è il sistema più diffuso in Europa, e che non ha dato luogo a degenerazioni plebiscitarie o a pericoli per la tenuta democratica del sistema istituzionale. Non si comprende dunque perché solo l’Italia, e con essa il popolo italiano, dovrebbe fuoriuscire dal quadro europeo dominante; né credo si possa dire che l’elettorato italiano, in cinquant’anni di elezioni politiche e di referendum, abbia mai dato prova di comportamenti irrazionali o si sia mostrato facile preda di suggestioni demagogiche” (relazione sulla forma di governo e sulle pubbliche amministrazioni del senatore Cesare Salvi del 4 novembre1997). Sennonché, Salvi era reduce di un’epoca in cui campeggiava (era uscito..) il pensiero ottimista di Francis Fukuyama e non ancora quello pessimista di Zygmunt Bauman. Quest’ultimo sosteneva che si era passati da una società di produttori ad una società di consumatori, forse senza considerare che il binomio produttori/consumatori si era spostato dall’interno degli Stati al loro esterno, per cui l’Asia produceva e l’Occidente consumava. Come dire che dalla lotta di classe ci si era spostati alla lotta nazionale, un cambiamento sul quale Dov Ber Borochov si sarebbe precipitato mentre Karl Marx, che aveva sbagliato tutto l’inquadramento della questione nazionale, avrebbe ignorato del tutto. Non solo: la stabilità che tracciava il pur valido Cesare Salvi era già cambiata quando lui scriveva, a livello pratico con la c.d. Tangentopoli italiana e, a livello teorico, con gli scritti del predetto Bauman, il quale ammoniva: “And liquid is anything but soft. Think of a deluge, flood or broken dam”.
Quanto al Presidenzialismo, esso postula dei controlli che impediscano pericolose derive (vedi Rose-Ackerman, Susan and Desierto, Diane Alferez and Volosin, Natalia, Hyper-Presidentialism: Separation of Powers Without Checks and Balances in Argentina and the Philippines (November 15, 2010). Berkeley Journal of International Law (BJIL), Forthcoming, Yale Law & Economics Research Paper No. 418). Si discorre ora di introdurre in Italia il presidenzialismo oppure il semi presidenzialismo. Il dibattito sembrerebbe in qualche modo viziato perché incompleto, e qualche studioso non banale se n’è già accorto. Lo sottolineo perché dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali (Commissione D’Alema) sono trascorsi 26 anni, nei quali è sorta una nuova generazione che ha subìto un sistema scolastico non migliore dei precedenti e talvolta una certa (diciamo) usura culturale. La citata Bicamerale non considerava che secondo Bauman “As a matter of fact, however, the status of all norms, the norm of health included, has, under the aegis of ‘liquid’ modernity, in a society of infinite and indefinite possibilities, been severely shaken and become fragile”. Ciò significa (anche) che sostenere, nelle discussioni domestiche oppure amicali “voglio il presidenzialismo” oppure “voglio un esecutivo forte” è un modo di non dire nulla credendo di dire tanto. Per dire: quale sarebbe il ruolo del Presidente nell’emanazione delle leggi? Da sempre, diremmo, abbiamo un’esondazione della legislazione d’urgenza tramite il decreto-legge, così come una nemmeno tanto sottile differenza, in tesi inammissibile, fra legge delega e decreto legislativo. Questa non è una realtà normativa bensì fattuale, e quindi non è nei testi del nostro ordinamento bensì nella cronaca minuta. Potremmo scomodare la dottrina della c.d. costituzione materiale preconizzata da Costantino Mortati, descritta nei manuali come quella dottrina che pone un accento determinante sul ruolo svolto dalle forze politiche nella fissazione dei principi organizzativi e funzionali essenziali per la vita di un ordinamento, con una decisa rivalutazione del ruolo svolto dalla realtà sociale, non più confinata nel pregiuridico. Questo lo ha detto la Corte Costituzionale nella sentenza 1146/1988: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Questa teorizzazione della costituzione materiale, la troviamo, addirittura, richiamata in sede europea (R. Baratta, Il sistema istituzionale dell’Unione europea, Seconda edizione, p. 185).
Ci si dimentica sempre, però, di Montesquieu, colpevolmente confinato al solo principio della separazione dei poteri. Intendiamoci, ogni riforma sistemica degna di quel nome, deve per forza di cose mantenere l’equilibrio, perché se la società moderna si distingue per la complessità, negare i confini fra i poteri comporta l’anomia e l’anomia, Émile Durkheim docet (figlio e nipote di rabbini, padre della sociologia) conduce alla disgregazione. Dicevamo, però di Montesquieu, quando asserisce “S’il est vrai que le caractère de l’esprit & les passions du cœur soient extrêmement différentes dans les divers climats, les lois doivent être relatives & à la différence de ces passions & à la différence de ces caractères». L’insegnamento, spogliato delle sue ragnatele, rimane valido: le norme debbono essere adeguate alla natura dei popoli, come d’altronde dirà Max Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo poiché, malgrado il salto temporale, alcune indicazioni metodologiche andrebbero, se non seguite, quanto meno considerate. Non tener conto delle differenze, equivarrebbe a vestire gli italiani con un indumento normativo che porterebbe ad esiti imprevedibili; un poco come la passione dei giuristi italiani per la pandettistica ha portato l’ordinamento italiano all’applicazione di schemi teutonici ad una mentalità latina.
Il Presidenzialismo, infine, non potrebbe risolversi in una mera riforma dell’esecutivo, se non fosse corredata dalla coeva riforma di tutta la Parte Seconda della Carta costituzionale e di diverse leggi, in primis la legge elettorale. Finora le modifiche introdotte alla Costituzione, motivate dalla concorrenza fra forze unitarie e forze federali, hanno prodotto risultati insoddisfacenti e lo stesso dicasi per quelle introdotte per compiacere la c.d. antipolitica.
Inoltre, la proposta riforma deve rafforzare la democrazia italiana, onde evitare di nuocere le minoranze deboli. Si consideri che la tecnica non è asettica, ma riveste natura ideologica. Se si violano le norme tecniche, anche per carenze nella conoscenza del giure, tale disconoscimento della citata tecnica, rivestirà natura ideologica. La quale natura è risalente: vogliamo ignorare il carattere ‘progressista’ dell’uno vale uno, le cui altrettanto risalenti radici si trovano anche negli esami di gruppo sessantottini? No, riformare la Costituzione non è facile, e per riformare la Costituzione dobbiamo un poco riformare noi stessi, accrescendo lo studio e, la disponibilità al duro lavoro necessario per raggiungere gli scopi sbandierati.
Su Pagine Ebraiche di dicembre si discute sulle modifiche alla Legge del Ritorno spinte, apparentemente, da una frazione del rabbinato, sulla base di preoccupazioni halachiche. Non ho le preparazione per discuterne e pertanto mi astengo dal farlo. Noto però che la Legge del Ritorno non è un attestato halachico di ebraicità dell’individuo, ma ha una valenza civile. Con mia sorpresa non si ricorda il contesto storico che portò alla promulgazione della Legge del Ritorno, che fu una delle prime, se non addirittura la prima delle Leggi del nuovo Stato, proclamato il 14 maggio 1948. I parametri per essere ammessi a usufruire della nuova Legge risentivano del divieto all’immigrazione ebraica da parte della Potenza Mandataria, che catturava le navi cariche di sopravvissuti ai lager nazisti e li deportava in altri campi di concentramento a Cipro. Chi erano dunque i titolati ad usufruire della Legge del Ritorno? Non coloro che avevano tutti i requisiti halachici per essere definiti ebrei, ma, per ironia e significativamente, coloro che erano definiti ebrei dalle famigerate leggi naziste di Norimberga (e quindi candidati allo sterminio).
Cancellare questa traccia storica da una (se non la) Legge Basilare dello Stato mi sembra un’amputazione del suo background che dovrebbe essere evitata. Pur applicando con tutti gli scrupoli e il dovuto rigore le norme halachiche sull’ebraicità dell’individuo, questi può essere cittadino dello Stato, ma non necessariamente halachicamente ebreo.