L’ebraismo secondo l’Economist
Alive and well, vivo e in buona salute. Così il prestigioso settimanale inglese The Economist ha definito l’ebraismo e il popolo ebraico nel suo speciale Judaism and The Jews pubblicato alla fine del mese di luglio. Un report a 360 gradi sulla vita ebraica in Israele e nella Diaspora che è stato commentato da autorevoli voci dell’ebraismo italiano sul numero di Pagine Ebraiche di settembre attualmente in distribuzione, dalla storica Anna Foa al demografo Sergio Della Pergola.
Pubblichiamo qui di seguito il primo articolo dello speciale, nella versione italiana di Ada Treves.
L’ebraismo sta avendo un inaspettato revival, dice David Landau. Ma, principalmente sull’argomento Israele, ci sono profonde divisioni, sia di carattere religioso che politico.
L’ebraismo è in ottima salute, sia in Israele, dove risiede ora il 43 per cento degli ebrei, sia nella Diaspora. Anche gli ebrei in quanto Stato sono in ottima salute. Pur con tutti i loro problemi, gli israeliani sono la quattordicesima popolazione al mondo per felicità, prima di francesi e britannici, secondo un recente rapporto sulla felicità globale commissionato dalle Nazioni Unite. Nella Diaspora la vita ebraica non è mai stata così libera, prospera e priva di minacce.
In America un ebreo osservante, il senatore Joseph Lieberman, è stato nel 2000 candidato alla vicepresidenza e, con Al Gore come candidato presidente, era quasi riuscito a ottenere la nomina. Il suo ebraismo non solo non è stato un ostacolo, ha dichiarato, ma al contrario ha avuto un effetto positivo su quegli elettori cristiani che prendono la propria religione sul serio. Joseph Lieberman e sua moglie Hadassah “sognavano una grande sukkah” (una sorta di capanna coperta di rami in cui gli ebrei consumano i pasti durante Sukkot, la festa del raccolto) nel giardino della residenza del vicepresidente. “Abbiamo avuto la sensazione che saremmo potuti essere noi”. Se la corsa verso la Casa Bianca fosse andata avanti “Sarei stato osservante anche lì.”
“In America essere ebrei è cool – dice J.J. Goldberg, scrittore – Un tempo le persone famose si cambiavano il cognome per nascondere l’identità ebraica. Ora vanno in televisione a raccontare proprio di come cercano di dare una forte identità ebraica ai propri figli, ebrei per metà. Prendete [l’attrice] Gwyneth Paltrow. Suo padre è discendente di rabbini, sua madre è una protestante. E lei scrive nel suo blog sul cibo quali sono le sue ricette kosher preferite per il seder [la cena-preghiera familiare in cui si celebra Pesach, la festa primaverile]. Il seder è popolare fra i non ebrei. Anche il bar mitzvah [la maggiorità religiosa] è diventato chic. I bambini lo vedono in televisione, vedono i loro amici che lo festeggiano – e lo vogliono anche loro”.
Anche nelle più piccole comunità della diaspora gli ebrei prosperano, nonostante in nessun luogo ci sia esattamente la stessa sensazione di appartenenza completa che si ha in America. In Russia e Ucraina, dove l’ebraismo e il sionismo hanno subito repressioni sotto il comunismo, gli ebrei sono importanti nel mondo degli affari. La filantropia ebraica sta ricostruendo la vita nelle comunità per coloro che hanno scelto di restare invece di emigrare in Israele o all’ovest.
Inoltre Israele e la diaspora ebraica sono allineati, con forza e lealtà. Gli ebrei della diaspora, pur generalizzando, amano e si prendono cura di Israele. Lo sostengono contro i nemici, sia reali che percepiti, danno supporto ai suoi governi e patiscono i suoi critici.
Nulla di tutto questo era prevedibile solo qualche decina di anni addietro. Hitler aveva spazzato via un terzo degli ebrei. Un millennio di civilizzazione ebraica nell’Europa centrale e orientale era stata rasa al suolo. Fortunatamente per la sopravvivenza dell’ebraismo la “soluzione finale” nazista era stata preceduta da un susseguirsi di pogrom attraverso l’allora impero zarista che era iniziato una sessantina di anni prima, spingendo varie ondate di ebrei a emigrare verso ovest. Al momento in cui Hitler colpì, circa sei milioni di ebrei erano al sicuro nell’America del Nord e del Sud, in Gran Bretagna e più di tre milioni vivevano nell’Unione Sovietica.
L’educazione e l’osservanza religiosa tradizionale nell’Europa dell’Est erano sulla difensiva già da 150 anni, da quando l’emancipazione in alcune parti della regione aveva aperto i cancelli dei ghetti e scosso la tradizione degli shtetl (piccole comunità ebraiche). Ora la vecchia vita era stata annientata, insieme a molta della cultura ebraica moderna, liberale. Le comunità sefardite del nord Africa e del levante, a lungo minoritarie nell’ebraismo, guadagnarono così una nuova rilevanza numerica. Insieme ai tristemente pochi sopravvissuti dell’Europa occupata dai nazisti, diventarono il nucleo della popolazione del nuovo stato di Israele.
L’errore di Ben Gurion
I suoi padri fondatori, principalmente socialisti-sionisti, pensavano che le vestigia dell’antica religione sarebbero presto sparite. David Ben Gurion, il primo capo del governo, sosteneva che duemila anni di ebraismo diasporico erano una deviazione dal vero adempimento dell’ethos ebraico. Pensava che il Talmud (l’antico corpus di leggi e tradizioni) fosse troppo cavilloso, il nuovo stato doveva tornare ancora più indietro, alla Bibbia. Fu però d’accordo a esentare poche centinaia di studenti di Talmud dal servizio militare, sicuro che fossero una specie in via d’estinzione.
Prima della Shoah, il Sionismo, il movimento per l’indipendenza ebraica in Palestina, aveva bisogno di lottare per ottenere il sostegno degli ebrei. Ora, per lo meno ai suoi stessi occhi, questo sostegno era rivendicato. Alcuni ebrei, però, specialmente in America, non erano ancora convinti. Israele, che combatteva per la sopravvivenza, dove arrivavano ondate di immigrati indigenti, sembrava loro molto precario. In America la parola chiave era assimilazione. Forme attenuate delle pratiche religiose nate nella Germania del XIX secolo venivano adottate dai figli e dai nipoti della generazione immigrata, protagonisti di una notevole scalata sociale. La distanza degli ebrei americani dalla loro appartenenza ebraica cambiò in maniera brusca dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967. L’esperienza collettiva della paura, seguita da sollievo e giubilo, produsse una grande solidarietà con il bistrattato stato ebraico. Mescolate a queste emozioni vi era anche un senso di disagio, addirittura di colpa, per l’inefficacia della lobby ebraico-americana durante la Shoah nel cercare di portare il presidente Roosevelt a salvare gli ebrei.
I sociologi sostengono che Israele – e il fare lobby e raccogliere fondi per Israele – sono diventati la “religione secolare” dell’ebraismo americano. E anche una campagna spontanea per rendere libera l’emigrazione degli ebrei sovietici è stata capace di attrarre grande appoggio soprattutto fra gli ebrei più giovani.
All’inizio del XXI secolo, inoltre, il postmodernismo faceva inaspettatamente vacillare l’assenza di D-o nella realtà israeliana e l’assimilazionismo della diaspora. “Il postmodernismo è stato gentile con tutte le religioni – sostiene Moshe Halbertal, un filosofo che vive a Gerusalemme – la ragione è stata spodestata; non c’è più una narrativa grandiosa là fuori”. Identità ed eticità tratteggiate incoraggiano la gente a godere e mostrare le proprie differenze invece di nasconderle alla vista.
Sono molti gli ebrei della diaspora che oggi si allontanano lentamente dall’ebraismo o dall’ebraicità, oppure decidono di abbandonarle del tutto. E tuttavia, molti altri decidono consapevolmente di restare, scegliendo una delle miriadi di nuove modalità in cui esprimere il proprio impegno. Cosa esattamente definisca l’ebraicità è ancora materia di molti dibattiti. Questo rapporto vuole concentrarsi su coloro che si identificano formalmente con la fede, ma in Israele anche i non religiosi sono influenzati dalla cultura e dalle usanze ebraiche.
L’ortodossia ebraica sta tornando, aumentata. I matrimoni precoci e un alto tasso di natalità hanno prodotto un’esplosione demografica tra i haredim (timorosi di D-o) ultra ortodossi. Questo ha fatto salire notevolmente il loro numero, compensando il deflusso costante dall’ebraismo attivo a causa dell’assimilazione. Il numero totale – in tutto il mondo – degli ebrei è maggiore di 40 anni fa. Pur facendo un calcolo cautelativo, oggi un ebreo su dieci è haredi. E un altro 10 per cento è modern-orthodox.
Molti israeliani amano pensare a se stessi come “tradizionalisti”. Ma anche coloro che sono dichiaratamente secolarizzati vivono un’esistenza ebraica, e davvero religiosa, in molti modi subliminali; e Israele irradia sempre di più la propria ebraicità nazionale, culturale e religiosa nelle comunità della diaspora.
In seguito al collasso del processo di pace con i palestinesi nel 2000 e alla violenta intifada (insurrezione) successiva, la posizione politica israeliana si è indurita in maniera evidente. In teoria tutti i principali partiti politici israeliani si impegnano nella direzione di una “soluzione a due stati”; in pratica il crescente movimento di coloni modern-orthodox nella West Bank fa da punta di lancia a una politica di governo di occupazione senza fine. Per sostenere e giustificare tale tendenza si sta evolvendo uno stridente Zeitgeist nazionalista. In assenza di progressi verso la pace, potrebbe essere inevitabile. E forse è anche inevitabile che questo stia prendendo piede nell’anima dell’ebraismo della diaspora.
A ognuno la sua pace
Senza dubbio la maggior parte dei membri di una sinagoga non ortodossa dei sobborghi del Connecticut, come la maggior parte degli israeliani e degli ebrei della diaspora, se intervistato, dichiarerebbe di essere favorevole alla pace e alla soluzione a due stati. L’atmosfera, in una recente domenica, non sarebbe potuta essere più civile. Ebrei, cristiani e musulmani mangiavano insieme hot dog e insalata prima di impegnarsi a pulire il parco del quartiere. Il rabbino ha pronunciato parole adatte allo spirito interconfessionale. Nella biblioteca il personale della sinagoga aveva steso dei tappeti sul pavimento per permettere ai musulmani di pregare.
Nel corridoio al di fuori di quella moschea temporanea due ragazzini musulmani in età scolare leggevano la dichiarazione israeliana di indipendenza: “Stendiamo le nostre mani di pace e unità a tutti gli stati vicini e ai loro popoli”. Era esposta insieme ad una mappa della regione. “Non compare Gaza” ha sottolineato uno dei due. “Neppure la West Bank” ha commentato suo fratello. Un custode della sinagoga ha poi spiegato che la mappa era “biblica, non politica”.
Il sentimento politico prevalente nei confronti di Israele oggi è di un difensivismo aggressivo, un curioso amalgama di vittimismo e intolleranza. L’essere discordi su Israele viene scoraggiato, se non proprio censurato. Tra gli ebrei britannici, circa 300mila, “si è creata una atmosfera maccartista – dice Jonathan Freeland, cronista politico – la gente è terrorizzata di dire quello che prova!”. In America “le oneste discussioni su Israele vengono spesso bloccate” nota Arnold Eisen, storico e rettore del Jewish Theological Seminary, scuola rabbinica di New York. “Alcuni rabbini diranno quello che pensano… la gente però non ha voglia di litigare e si tende a evitare di discutere di Israele. La destra dice che se si prende una posizione critica nei confronti della politica di Israele si aiuta e si appoggia il nemico”. Visto il potere di Israele e la forza e l’influenza della diaspora ebraica sembra un’affermazione paradossale.
La religiosità, che sta riprendendo forza, è coinvolta in maniera profonda in queste dinamiche. Nazionalismo, xenofobia ed ebraismo si confondono e si mescolano. Gli ebrei si scoprono sfasati rispetto alla maggior parte delle opinioni del mondo, cosa che aumenta un diffuso senso di apprensività. Le pretese e le minacce nucleari iraniane permettono a questi sentimenti di concentrarsi su qualcosa. I leader ebrei nella diaspora insistono sul fatto che Israele non viene compreso. Attribuiscono le critiche all’antisemitismo, che sta tornando.
Arthur Green, studente di misticismo ebraico e professore a una scuola rabbinica di Boston, ritiene responsabili la politica israeliana e la copertura fornitale dall’ebraismo americano “per il fatto che tantissimi ebrei pensanti se ne stiano andando. E così si dice, beh, non sono ebrei che si impegnano, comunque, quindi a chi importa cosa fanno?”.
L’accusa a Israele che la posizione “da falco” allontani i giovani ebrei della diaspora dal loro ebraismo e dalla loro ebraicità è stata portata aventi in maniera tranchant da Peter Beinart, giornalista a Washington. Ha causato una enorme controversia nell’ebraismo americano. Molti altri esperti smentiscono invece che ci sia un legame causale. Gli ebrei, molti soprattutto fra i più giovani, si sono allontanati negli ultimi anni, come sottolinea Eisen. “Man mano che il loro attaccamento all’ebraismo si riduce, si riduce anche il loro impegno nei confronti di Israele. Coloro che criticano Israele e quindi incorrono nell’ira della comunità almeno si impegnano almeno quanto coloro che cercano di zittirli. L’amore ha una voce”.
The Economist, Special Report: Judaism and the Jews, 28 luglio 2012 (versione italiana di Ada Treves)