Ariel Sharon (1928-2014)
Ariel Sharon, già primo ministro dello Stato d’Israele, generale e, soprattutto combattente, è scomparso dopo otto anni di coma. Nato nel 1928 da genitori bielorussi a Kfar Malal, una comunità agricola nella Palestina del Mandato britannico, un ictus lo aveva colpito il 4 gennaio 2006, mentre era a capo del governo israeliano. “Un bulldozer in guerra e in pace” lo ricorda il Jerusalem Post, “indomito protettore di Israele, Ariel Sharon era l’emblema della politica militare, audace, in evoluzione” titola il Times of Israel, “Sharon, controverso leader militare, ebbe una lunga e tumultuosa carriera politica che culminò con il ritiro da Gaza” l’apertura di Haaretz. Come scrisse il New Yorker nel 2006, “Arik” (così era conosciuto da tutti), fu l’uomo cui Israele guardava nei momenti più bui. 1967, la battaglia in cui aveva condotto le truppe israeliane contro la roccaforte di Abu Agheila nel Sinai è ancora oggi insegnata nelle accademie militari del mondo. Fu a lui che il paese si affidò durante la Guerra del Kippur del 1973, quando guidò i suoi soldati oltre il Canale di Suez, rompendo le difese egiziane. David Ben Gurion lo definì “il più grande comandante sul campo della storia di Tzahal”. La vita di Sharon fu tuttavia segnata anche dalla tragedia personale. La prima moglie, Margalit, conosciuta quando lei aveva appena 16 anni e sposata dopo una fuga d’amore, morì in un incidente d’auto nove anni dopo il matrimonio. Cinque anni più tardi loro figlio Gur si sparò accidentalmente mentre giocava, non visto, con un vecchio fucile del padre. Sharon si era nel frattempo risposato con la sorella di Gali, Lily, che spiegò per la biografia del marito “Ariel Sharon. A life”: “Non si è mai ripreso da quello che è accaduto. Ha solo imparato a conviverci”. Per molti anni, per il mondo, Sharon fu il ministro della Difesa responsabile dell’invasione del Libano nel 1982, e di non aver impedito i massacri operati dalla falange cristiana maronita nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila. Poi nel 2000, quando rivendicò il diritto per gli ebrei di recarsi sul Monte del Tempio, visitando lo spiazzo (sopra il Kotel) dove sorgono la Moschea della Roccia e la Moschea al-Aqsa, fu accusato di aver scatenato la seconda Intifada. In quei mesi di caos e sangue il primo ministro laburista Ehud Barak si dimise, anche in seguito al fallimento dei negoziati di Camp David, con il rifiuto del leader palestinese Yasser Arafat dell’offerta di Israele che comprendeva tra l’altro anche ampie concessioni circa lo status dei quartieri arabi di Gerusalemme. Con le elezioni del 2001, alla guida del Likud, Sharon fu eletto primo ministro ottenendo il 62 per cento dei voti contro il 38 di Barak (era il periodo in cui in Israele vigeva l’elezione diretta del premier). Quello stesso anno aveva per la prima volta dichiarato che i palestinesi avevano diritto a un proprio Stato. Come capo del governo, nell’estate 2005, portò a termine il ritiro dagli insediamenti nella Striscia di Gaza, evento che rappresentò una svolta storica e sofferta nella storia e nella politica dello Stato d’Israele. Pochi mesi dopo, annunciò l’abbandono del Likud, che aveva contribuito a fondare nel 1973, per dar vita a un nuovo partito centrista, Kadima (“Avanti”). Il 22 settembre aveva parlato di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite. “Sono qui di fronte a voi, alla porta delle nazioni, come ebreo e come cittadino del democratico, libero e sovrano Stato d’Israele, l’orgoglioso rappresentante di un popolo antico” disse. “Sono nato in Terra d’Israele, figlio di pionieri, gente che coltivava la terra e non cercava battaglie, che non era arrivata in Israele per spodestare i residenti. Se le circostanze non lo avessero richiesto, non sarei stato un soldato, ma un agricoltore, un agronomo. Il mio primo amore era ed è rimasto il lavoro manuale”. Continuò con parole che colpirono il mondo: “Io, come qualcuno i cui sentieri della vita hanno condotto a essere un guerriero e un comandante in tutte le guerre d’Israele, oggi mi rivolgo ai nostri vicini palestinesi chiamandoli alla riconciliazione e al compromesso per mettere fine a un conflitto sanguinoso e percorrere la via che conduce alla pace e alla comprensione tra i popoli. Considero questa la mia chiamata e il mio primo dovere negli anni a venire”. “La nostra dottrina è che non ci sono missioni che non si possono portare a termine” sosteneva Sharon. Forse, con la sua guida, anche la pace non avrebbe fatto eccezione. Ma nei primi giorni del 2006, con Kadima che era data in nettissimo vantaggio nei sondaggi per le elezioni che si sarebbero svolte da lì a poco, la tragedia, e gli otto anni di coma. In cui tante volte ci si è chiesto chi sarà capace di esserne l’erede.
Rossella Tercatin