Abu Mazen corteggia la Nato
“L’esercito israeliano può rimanere nel futuro Stato palestinese per cinque anni, poi potranno subentrare truppe Nato guidate dagli Stati Uniti senza scadenze temporali”. A poche ore dalla sua pubblicazione, sembra essere questa la dichiarazione più enfatizzata della rara intervista rilasciata dal presidente dell’Autorità nazionale palestinese Mahmoud Abbas al New York Times.
Un colloquio che la caporedattrice a Gerusalemme dell’influente quotidiano americano Jodi Rudoren racconta come rilassato, con un Abbas pronto a scherzare e quasi a professare ottimismo circa gli esiti dei negoziati di pace promossi dal Segretario di Stato John Kerry.
Cinque anni anche la finestra temporale per il graduale ritiro degli insediamenti israeliani nel territorio della futura Palestina, che rimarrà smilitarizzata e dotata di sola forza di polizia. A prevenire l’infiltrazione di armi e di terroristi dovrebbe essere la stessa missione Nato “per un lungo tempo e dove vogliono, non solo lungo il confine orientale, ma anche lungo quello occidentale, ovunque – ha specificato il presidente Anp – Possono rimanere per rassicurare gli israeliani e proteggere noi”. Una dichiarazione che rimane comunque lontana dalla necessità posta sul tavolo da Israele di tutelare la propria sicurezza con una prolungata presenza militare nella Valle del Giordano per prevenire le minacce, non solo dal futuro Stato palestinese, ma anche dagli altri potenziali fronti rappresentati dai tanti paesi dell’area in tumulto, Libano, Siria, Iraq (un funzionario israeliano interpellato sulla questione del Times of Israel ha ricordato come per esempio nel 1980 le truppe americane si ritirarono dal Libano quando attaccate).
Abbas si è detto pronto a prolungare i colloqui di pace oltre la scadenza fissata del 29 aprile purché nell’ambito di un orizzonte promettente e specificando che, se Kerry ha il diritto di proporre ciò che vuole nel documento quadro che dovrebbe essere presentato nei prossimi giorni, anche loro si riservano il diritto di rispondere ciò che ritengono opportuno.
“Fuori questione” è stata definita la richiesta di riconoscere Israele come Stato ebraico, uno dei punti su cui insiste maggiormente il primo ministro Benjamin Netanyahu e che dovrebbe essere parte della proposta americana, mentre il presidente Anp ha promesso che resisterà alle “pressioni della piazza e della leadership palestinese” per presentare le richieste di adesione alle varie agenzie delle Nazioni Unite e a portare Israele davanti alle corti internazionali, per ora. “Nella mia vita non tornerò mai alla lotta armata” ha promesso.
“Dobbiamo rivolgerci, prima di tutto a Netanyahu – conclude Abbas nell’intervista – È Netanyahu la chiave. Se crede lui nella pace, sarà tutto facile”.
Un assunto che definire semplicistico sarebbe probabilmente un eufemismo. A spiegare i motivi è, sulle pagine di Haaretz, l’autorevole politologo dell’Università ebraica di Gerusalemme Shlomo Avineri. Che si dice scettico sulla reale necessità che il leader palestinese riconosca Israele come Stato ebraico come requisito o prerequisito, ricordando come il riconoscimento avvenga secondo il diritto internazionale solo tra Stati sovrani e senza la necessità di ulteriori qualifiche, ma sottolineando la delicatezza della questione. “Sin dal 1948, quando i palestinesi rifiutarono il piano di partizione ONU, neanche una parola si è levata da parte palestinese a proposito di quella decisione. Sarebbe troppo per gli israeliani aspettarsi che i palestinesi, come parte del processo di pace accettino, lo Stato-nazione ebraico contro cui scatenarono la guerra?” domanda.
“È Abbas a tenere in mano la chiave della pace” ribalta dunque il concetto l’intervento di Avineri.
“Non c’è bisogno di un riconoscimento diplomatico. Ma c’è la necessità che coloro che ci hanno respinto si avvicinino direttamente al popolo d’Israele e lo persuadano che oggi hanno la volontà di accettarci. Non servono formule o linguaggio sofisticati. Soltanto parole semplici e prive di ambiguità”.
Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked