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20 dicembre 2010 -  13 Tevet 5771
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Riccardo Di Segni
Riccardo
Di Segni,
rabbino capo
di Roma

Tra le ultime volontà del patriarca Yaqov c'è la richiesta di non essere sepolto in Egitto. Tra le spiegazioni che Rashi suggerisce per questa richiesta c'è la preoccupazione del patriarca di diventare oggetto di idolatria da parte degli egiziani. Rav Wolbe si chiede come mai, secondo Rashi, questo rischio lo correvano solo gli egiziani e non gli ebrei. La risposta è che esiste una costante storica per cui forti personalità del popolo ebraico possono diventare oggetto di culto, di vario tipo e intensità, presso gli altri popoli. Tra gli ebrei questo non accadrebbe per l'abitudine all'eccezionale e per un forte spirito critico che può essere anche autodistruttivo. Sarà vero anche adesso?


Anna
Foa,
storica
   

Anna Foa
"Come tutti quei nostri fratelli che ci riscattarono con la seconda ondata immigratoria, anche Isacco Kumer abbandonò il paese e la città che gli avevano dato i natali, per salire in Terra d'Israele, edificarla ed esserne a sua volta edificato". E' l'incipit del romanzo che è considerato il capolavoro di Shemuel Yosef Agnon, Appena ieri, uscito da Einaudi nella splendida traduzione di Elena Loewenthal, con una prefazione di A.B.Yehoshua. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1945 a Tel Aviv ed è uno straordinario viaggio tra Galizia e terra d'Israele, sionisti ed ortodossi, Tel Aviv e Gerusalemme. Tra i suoi protagonisti, oltre all'imbianchino Isacco, il cane matto Balac, che si interroga con invidiabile profondità e con irraggiungibile ironia sui gentili e sugli ebrei e sul senso dell'universo.   
davar
Michelstaedter e "Il segreto di Nadia B." 
il segreto di nadia BDonna, ebrea, russa, anarchica, colta, anzi coltissima: questo l’identikit della protagonista dell’ultimo libro di Sergio Campailla: Il segreto di Nadia B.
È un romanzo al femminile, una spy story. Scopriamo infatti che la misteriosa Nadia è una spia, ma una spia vera. Sì, perché la cosa più sorprendente è che il personaggio è esistito per davvero. È tutto documentato. L’autore cita le fonti, una per una. A cento anni di distanza, recupera gli articoli dei giornali dell’epoca che hanno parlato di lei, una straniera che, nel 1907, all’indomani del suo “suicidio-spettacolo” in Piazza Vittorio Emanuele, a Firenze, aveva destato scalpore, scandalo, ma che poi era stata presto dimenticata, rimossa.
“Pericolosa come una cometa”, Nadia ha intrecciato il suo destino con quello di Carlo Michelstaedter, di cui quest’anno ricorre il centenario, e di cui Campailla è il maggiore conoscitore, che ne ha curato il revival a livello internazionale. La grande rivelazione è che Nadia, di cui addirittura ormai si ignorava l’esistenza, è stata la sua musa segreta. Si scava nell’epistolario, dove i richiami alla donna sono evidenti, ma ancor più evidente, talvolta, è ciò che viene deliberatamente taciuto, omesso, cancellato. Con intuito da rabdomante, lo scrittore va alla ricerca proprio di ciò che è nascosto e che scorre sotterraneo. Nel Segreto di Nadia B., la verità sulla donna rappresenta quasi un tabù, ed è continuamente “insidiata dalla menzogna”.
Una verità sepolta che riemerge dopo tanto tempo. Un notte lunga un secolo e poi nel buio appare un volto: il volto di Nadia.
È cominciato tutto trentasette anni fa, per Campailla, quando per la prima volta, in qualità di curatore testamentario, ha avuto accesso alle carte di Michelstaedter, carte bagnate di sangue, a sancirne il sodalizio inscindibile tra vita e scrittura.
Trentasette anni fa, dunque, esaminando quelle carte, si è imbattuto in Nadia.
“La percezione di quelle due storie parallele, di Carlo e di Nadia, al maschile e al femminile – confessa – mi risultava angosciosa. Due storie parallele, a meno che una non fosse in rapporto con l’altra…
«Nadia, di nome», chiesi. «Ma il cognome?»
«Baraden.»
Baraden… Non lo avevo mai sentito… Non avrei potuto. Non era mai stato scritto in precedenza. Era la prima volta che saltava fuori”.
A cento anni di distanza dagli avvenimenti emerge un materiale inedito e scottante, un magma che irrompe nel presente.
Tutto ha inizio da quella curiosità, da quella domanda sul cognome della donna.
Alla ricerca di una verità perduta, Campailla consulta prima gli archivi italiani, poi quelli segretissimi dell’ex Unione Sovietica.
Salta fuori perfino una lettera di Albert Einstein a Carlo Winteler, nipote omonimo di Carlo Michelstaedter.
“Il passato è un giacimento imprevedibile – avverte all’inizio del romanzo – e nel buio, talora riserva sorprese e scoperte emozionanti. È come il mare, pieno di vita segreta, che deposita i suoi relitti sulla sponda, in successive ondate, nel tempo. Sulla sponda, io ho raccolto quei frammenti e li ho messi insieme”.
Con piglio da investigatore, l’autore segue le tracce lasciate dal suo personaggio. La donna è approdata a Firenze, dove studia presso la prestigiosa Scuola del Nudo, ma viene da lontano. Nadia è una donna in una società patriarcale, una figlia di un padre che avrebbe desiderato un maschio, una russa in terra straniera, un’anarchica nella sterminata Russia degli Zar, una ventenne sensibile e acculturata, un’aspirante artista in un secolo che appartiene ancora all’altra metà del cielo. Non solo. È bella, indicibilmente bella, di una bellezza esotica, e la bellezza è la sua maledizione. Tutte le contraddizioni e le tensioni di un secolo controverso sembrano coagularsi in lei.
Nata a San Pietroburgo, da una famiglia di ebrei ortodossi vicina agli Zar, spicca il volo appena adolescente. A Odessa, tristemente nota per il pogrom del 1905, al quale sopravvisse lo scrittore Isaak Babel’, partecipa all’attentato nei confronti di un principe antisemita. Condannata alla deportazione in Siberia, la sua pena viene poi commutata nell’espatrio.
Sono gli anni dei Protocolli di Savi di Sion, delle teorie del complotto giudaico-massonico, dell’Affaire Dreyfus. È una caccia alle streghe:
“Nichilismo e «lebbra ebraica», come ebbe a definirla Dmitrij Tolstoj, il ministro dell’Interno di Alessandro iii, i due gemelli della modernità, sono entrambi presenti nella storia di Nadia Baraden”.
Come Michelstaedter, si è allontanata dalla religione dei padri, non frequenta la sinagoga, eppure quando approda a Firenze, ultima tappa del suo pellegrinaggio in terra straniera, “le sue frequentazioni, in sottotraccia, sono prevalentemente ebraiche”. Con cognizione di causa, Campailla cita Einstein: “l’ebreo che abbandona la sua fede è in posizione simile a una chiocciola che abbandona la conchiglia. È ancora una chiocciola”.
Sembra uscita dalla penna di Dostoevskij, da un romanzo russo, e la sua storia è fascinosa “come una favola, una favola russa che sembra falsa”, eppure è tutto vero.
Che cosa rappresenta Nadia per Michelstaedter?, si domanda Campailla:
“L’immagine di un amore impossibile. Nadia viene da lontano ed è andata lontano. La Russia è un fondale della fantasia e la donna ne possiede la chiave. Ha dietro di sé un mondo mai visto se non nei romanzi di Tolstoj, di Gor’kij e di Merežkovskji”.
Un ritratto di lei, ad opera di Michelstaedter, forse ce ne restituisce l’aspetto. Senz’altro suggestivo, il quadro è stato inserito nella mostra Far di se stesso fiamma, curata dallo stesso Campailla, nell’ambito della quale sono esposti, presso la Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, dipinti, caricature, disegni e bozzetti dell’enfant prodige goriziano:
“Un olio su tela. Dedicato a una giovane donna. Con un colletto bianco alto a coprire per intero il collo, una collana, un fiore all’altezza del seno. Con i capelli biondo fulvo, o rossi, e degli occhi grandi e visionari, isolata in una luce spirituale”.
Ma i suoi ritratti, man mano che la ricerca procede, si moltiplicano, così come si moltiplicano i suoi doppi, i suoi sosia. La sua condanna è quella delle donne in ogni forma d’arte: quella di essere ritratta oppure cantata dall’uomo, passivamente. È la leggenda popolare della “moglie del muratore”. La donna deve morire perché l’uomo possa edificare la sua casa. È il suo sacrificio rituale, il suo sangue, a dare linfa all’edificio della società patriarcale. A questo schema culturale, a questa gabbia, Nadia si ribella, e soccombe. Non rinuncia alla libertà di autodeterminarsi, di scegliere chi vuole essere.
Chi è Nadia, allora?
È la straniera, la diversa, l’ebrea, la donna, l’anarchica, colta, anzi coltissima, per giunta aspirante artista. È una creatura che abita la soglia, nel segno della differenza. Proprio l’esotismo e l’inappartenenza, però, se da un lato alimentano il suo fascino, dall’altro ne fanno un capro espiatorio. Gli stessi uomini, che lei aveva ammaliato con la sua bellezza, la ingannano. La verità è che non è lei, una spia russa, ad averli irretiti, sono loro, al contrario, ad aver ordito trappole ai suoi danni, uno dopo l’altro: “C’era nella sua personalità un difetto originario, un’ingenuità che la predisponeva alla caduta”. Non è una Mata Hari Nadia: lei i suoi segreti se li è fatti rubare. Ne rimane solo uno, che lei aveva affidato in una lettera estrema a Michelstaedter e che noi preserviamo per il lettore, sconvolgente: il Caput Nili.
Una spy story dalle tinte noir alla ricerca della “vera verità”. Un thriller sulle tracce del colpevole, sì, perché alla fine del romanzo scopriamo che Nadia “è stata suicidata”.

Paola Culicelli


L’uomo che fece di se stesso fiamma
michelstaedterA cent’anni dalla morte il folgorante itinerario umano e culturale di Carlo Michelstaedter torna all’attenzione del grande pubblico grazie a una mostra, dal bel titolo Far di se stesso fiamma che a Gorizia ne ricostruisce il percorso in un’articolata galleria d’immagini che spazia dai dipinti ai libri. La vicenda di Michelstaedter si brucia in soli ventitre anni. Quando il 17 ottobre 1910 si toglie la vita con un colpo di pistola, poco prima della dissertazione della tesi di laurea, è soltanto uno studente sconosciuto che a Gorizia, alla periferia dell’Impero austro-ungarico, vive ed esprime un disagio oscuro. A distanza di cent’anni quel tragico gesto si configura come una parabola di significato ben diverso: quella tesi, non arrivata alla discussione, è infatti valutata come uno dei testi filosofici più alti del Novecento italiano, una delle più brillanti tesi di laurea mai scritte. E la pubblicazione interamente postuma delle sue opere filosofiche, poetiche e pittoriche, ci pone di fronte all’impressionante creatività di un talento precocemente maturo. In un intreccio inestricabile tra riflessione e biografia Carlo Michelstaedter è così diventato un’icona inconfondibile, il simbolo di una giovinezza integra e incorruttibile, visionaria ed estranea alle lusinghe borghesi della carriera. La mostra, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, in collaborazione con la Biblioteca statale isontina e il Comune di Gorizia e curata da Sergio Campailla, scrittore e docente di letteratura italiana all’Università Roma3 si compone di oltre 250 pezzi e racconta il mistero di una vocazione esuberante e tratragica attraverso una rassegna di dipinti, schizzi, fotografie, documenti, manoscritti, edizioni e cimeli, in parte inediti. In questa pagina il lettore ritrova fra l’altro il ritratto dei grandi rabbini goriziani Isacco Samele Reggio (1784-1855) e Abraham Vita Reggio (1755-1841)da cui il filosofo discendeva e altri preziosi documenti della vita ebraica d’allora. Il percorso prende il via da Gorizia, la “Nizza austriaca”, una città-giardino a misura d’uomo, circondata da dolci alture e sovrastata dal castello, sede di una piccola e fiorente comunità ebraica destinata a essere spazzata via dalla persecuzione nazifascista. La seconda parte è dedicata a Firenze dove Michelstaedter frequenta l’Istituto di studi superiori venendo a contatto con professori famosi e colti condiscepoli. Qui si scoprono le prime relazioni sentimentali e amorose di Carlo, rimaste sino ad ora in ombra. Nella terza parte il discorso ci riconduce a Gorizia dove Michelstaedter rientra definitivamente dopo l’esperienza fiorentina e, una volta consegnata la tesi si laurea, decide di togliersi la vita. La rassegna, aperta fino al 27 febbraio, si chiude con l’esposizione dei libri provenienti dalla biblioteca di Carlo e con le edizioni postume dei suoi scritti.



(Sala Espositiva della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, via Carducci 2, Gorizia  
tel. 0481537111 info@fondazionecarigo.it - Orario di apertura : martedì-venerdì 10.00-13.00 • 16.00-19.00 sabato-domenica 10.00-19.00 - Chiuso tutti i lunedì)


L'albero genealogico della famiglia Michelstaedter
albero genealogicoVorrei informare i lettori che l’albero genealogico della famiglia Michelstaedter riprodotto a pag. 29 di “Pagine Ebraiche” di dicembre 2010 fa parte del fondo documentario donato dalla famiglia Gandus all’Archivio storico del CDEC. Prestandolo alla bella mostra goriziana - sia pure, date le sue fragili condizioni, in scansione e non in originale - abbiamo svolto il nostro ruolo di conservatori e divulgatori della storia dell’ebraismo italiano. Posso aggiungere che il documento è del 1922 ed è una copia dell’albero originale, del quale purtroppo non sappiamo quale sia stata la sorte. Ecco, ora il lettore sa qualcosa in più sia sul documento esposto a Gorizia e pubblicato da Pagine Ebraiche, sia sull’utilità di donare documenti al CDEC.


Michele Sarfatti, Direttore Fondazione CDEC

pilpul
Hatzèr - Italia, Europa, Mondo
gadi luzzatto vogheraLa parola Europa non compare mai nello statuto dell’ebraismo italiano; Israele tre volte, ma in modo vago; per il resto solo due accenni alla diaspora. Può sembrare un paradosso, ma se ci si pensa è il segno di una intrinseca debolezza che va superata con un paziente lavoro di ripensamento della nostra collocazione geo-culturale. Gli ebrei italiani hanno rivisto il loro statuto guardando fisso al proprio ombelico e senza darsi gran cura di alzare lo sguardo al mondo. Non è – sia detto per chiarezza – che manchino contatti a livello internazionale. Studiosi ed esponenti delle organizzazioni ebraiche visitano regolarmente le nostre istituzioni. Migliaia di turisti visitano con piacere i nostri luoghi di cultura e si avvicinano con autentica sorpresa a “scoprire” dell’esistenza di comunità ebraiche italiane (magari stupendosi perché non capiamo l’yiddish). La cultura italiana è letteralmente stregata dalla letteratura israeliana, e i vari Grossman, Oz o A.B. Yehoshua vivono più da noi che in Israele. Insomma, non è che siamo isolati, non è questo il problema, e non potrebbe esserlo: in fondo siamo storicamente comunità di immigrazione, metà degli ebrei a Milano parlano meglio il francese o l’ebraico dell’italiano, e l’ebraico (consideriamolo una fortuna e un valore!) sta diventando lingua ampiamente diffusa fra la nostra gioventù. Insomma, non siamo “provinciali”, siamo donne e uomini di mondo, viaggiamo e abbiamo buoni contatti in ogni dove. Eppure le nostre istituzioni stentano a pensarsi in prospettiva per lo meno europea. Non mancano contatti con lo European Jewish Congress o con il Maccabi, un italiano siede nel board del World Jewish Congress, ma esistono anche altri organismi importanti che ci ignorano completamente, come noi ignoriamo loro: lo European Council of Jewish Communities, lo Euro-Asian Jewish Congress, lo European Jewish Fund, lo European Center for Jewish Students e ce n’è altri di più specifici. Raramente i loro siti web rimandano al nostro Moked, mentre le nostre istituzioni hanno solo vaghe idee sulla loro esistenza e struttura.
Le ragioni di questa situazione sono certamente molteplici, non ultima la nostra distorta idea del hatzèr, che ci vede ancorati alle realtà locali e a una particolare idea di storia, senza tener conto che i nostri avi erano forse più mobili di noi, di certo meno chiusi. Tuttavia in un mondo grande, in cui l’intera Italia ebraica rientra – in un’ottica globale – nel concetto di comunità “diversamente grandi” di cui si è discusso a congresso, l’istituzione UCEI dovrebbe collegarsi strutturalmente con maggior decisione alle organizzazioni d’oltralpe. Le piccole comunità già lo fanno: Trieste da tempo fa da madrina alle comunità di Slovenia e Croazia e guarda naturalmente ad Est; Venezia si va gemellando con Monaco di Baviera, e forse altre iniziative sono già in atto altrove: seguirne l’esempio non farebbe male e ci aiuterebbe ad aprire gli orizzonti.

Gadi Luzzatto Voghera

Spinoza sul potere politico
Donatella Di CesareÈ ottimo – per Baruch Spinoza – quel governo «sotto il quale gli uomini trascorrono la vita in concordia e le cui leggi restano inviolate». Se uno Stato è continuamente in bilico, dilaniato dai conflitti, minacciato dall’alto numero di delitti commessi, la causa non sta nella «malizia dei sudditi»; la colpa è piuttosto dello Stato che non ha creato un clima di pace. Perché la pace «non è la privazione della guerra, ma una virtù che nasce dalla forza dell’animo». Il potere politico garantisce se stesso promuovendo la vita serena dei cittadini.
Altrimenti è un potere che non ha più sovranità. Ed è dunque il potere imposto per diritto di guerra o quello del «tiranno» che, sentendosi esposto a insidie quotidiane, nutre per il popolo sentimenti di diffidenza più che di affezione. D’altronde – ammonisce Spinoza indicando l’esempio della storia italiana – un popolo libero non si affida «ad un solo individuo» che necessariamente baderà solo a se stesso e sarà «costretto a congiurare contro la moltitudine più che provvedere ad essa». Tutt’altra cosa è la democrazia.

Donatella Di Cesare, filosofa

Piccole Comunità, "Ecco i limiti del vogliamoci bene"
dario calimaniQuesta volta quando si dice ‘piccole comunità’ si intendono proprio le più piccole, ossia le otto comunità che sono rimaste penalizzate dal nuovo statuto che assegna loro soltanto mezza rappresentanza ciascuna in Consiglio UCEI. Dunque, Modena-Parma, Vercelli-Casale, Ferrara-Mantova, Merano-Verona varranno di fatto un solo voto a coppia.
Si potrà pensare che sia giusto così, date le loro dimensioni, ma ci si dimentica innanzitutto che l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane è, per statuto, una federazione di comunità, non il club dei singoli ebrei da contare uno per uno. E ora si è accettato di dimezzare il valore delle comunità più piccole.
Ciò che desta più sconforto, e un po’ di sanissima rabbia, è l’ipocrisia con cui, sin dall’inizio del dibattito con le comunità, è stata presentata questa modifica di statuto: si affermava da ogni parte che si stava mirando a una maggiore democrazia, a un maggiore coinvolgimento di tutte le comunità attraverso la rappresentanza in Consiglio UCEI di tutti i presidenti. Peccato che strada facendo coloro che hanno elaborato la norma e coloro che l’hanno discussa in Congresso se ne siano dimenticati e abbiano fatto il gioco del più forte e il gioco del più furbo.
E a chi diceva che così si andava alla conta dei singoli ebrei e alla prevaricazione culturale sui più piccoli, si dava del ‘disfattista’.
Ora, grazie ai grandi strateghi delle elezioni bulgare, le piccole comunità sono molto più deboli, e sempre più sole sulla strada del loro declino. Soltanto chi ha un generoso protettore in Consiglio avrà la possibilità di sperare nella salvezza. Chi non ce l’ha dovrà vendere l’anima al diavolo.
Ora, alla luce del risultato finale, è chiaro a tutti che cosa ci fosse davvero nella mente di chi ha voluto queste modifiche di statuto. La retorica del ‘vogliamoci bene’ ha mostrato il suo terribile volto. “A terrible beauty is born”, diceva il poeta.

Dario Calimani, Venezia 

"Laicità, un tema trascurato"
gadi polaccoMi ritrovo nel commento che Tobia Zevi, partendo dalla proposta Melandri che prevede l’istituzione di un’«Introduzione alle religioni» nella scuola superiore, ha pubblicato recentemente su Ucei Informa: ricordando il "vulnus" dell'ora di religione cattolica unica nella scuola pubblica (direi avendo anche presente la carenza di laicità che progressivamente, nonostante la previsione costituzionale, si afferma in Italia, in concreto afferma un concetto pragmatico, ovvero che al momento e, direi, ancora per un bel pezzo una piena Laicità rimane utopia in questo paese e quindi occorre accontentarsi di passi in avanti sul tipo della proposta Melandri.
E' praticamente il concetto che  ho cercato di porre in discussione, in verità senza grande successo, nel nostro recente Congresso e che potrebbe trovare varie applicazioni nella società italiana
Mi conforta quindi che altri abbiano a cuore questo delicato tema nella speranza che, una volta smaltita la sbornia da nuovo statuto, si riesca ad approfondirlo visto che attiene alla cittadinanza di ciascuno di noi.

Gadi Polacco, Livorno 

notizieflash   rassegna stampa
Netanyahu respinge le critiche
della Ong Human Rights Watch
 
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Secondo il premier israeliano Benyamin Netanyahu, pecca di "ipocrisia", la Ong per la difesa dei diritti umani 'Human Rights Watch' (Hrw) che ieri ha pubblicato un rapporto molto critico sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi. In un discorso pronunciato ieri di fronte ai membri di una organizzazione ebraica giunti degli Stati Uniti Netanyahu ha sostenuto, secondo la radio militare, che Hrw si astiene dal criticare regimi repressivi "che sono abituati a lapidare donne e ad impiccare omosessuali"
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