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11 settembre 2011 - 12 Elul 5771
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Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino


"Nella giovinezza si impara a parlare, nella vecchiaia si impara a tacere. E questo è il problema: che l'uomo impara a parlare prima di aver imparato a tacere". (Rebbe di Kotzk)

David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
L’anno scolastico che inizia in questa settimana è segnato come sempre da malesseri, spesso proposti attraverso una sequela di punti esclamativi. Bisognerebbe guardare alla scuola – e dunque anche viverla – come quel luogo in cui si sviluppano passioni e  si dà un volto alla definizione di interessi comuni. Maturare interessi comuni è l’effetto di stare gomito a gomito con individui, che sono storie, vite, idee, scelte diverse dalle proprie. La passione si ha se si mette in gioco se stessi e dunque si è disposti a verificare quello che pensiamo ossia la parte più inalienabile e quella più consolidata di noi, ovvero la nostra identità. E tutto questo è possibile se si è curiosi. Ovvero se si sviluppa una cultura, comprensiva anche di una pedagogia del punto interrogativo.


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davar
Qui Mantova - Il grande Festival chiude i battenti
Yehoshua Kenaz racconta la sua Israele
Chiude questa sera i battenti il Festival della letteratura di Mantova. Decine di migliaia le presenze all'appuntamento, centinaia gli scrittori, gli intellettuali, gli artisti giunti nella città lombarda per raccontare e confrontarsi. Il Festival, che cresce di edizione in edizione e ha segnato ormai un decennio di vita culturale italiana, ha nuovamente costituito una vetrina di mille temi che si intersecano sulla cultura e le vicende ebraiche. Questo pomeriggio, fra le manifestazioni che contrassegneranno la giornata di maggior affluenza, il grande scrittore israeliano Yehoshua Kenaz racconta il suo lavoro e la sua Israele. L'autore ha rilasciato a Daniela Gross una lunga intervista che appare sul giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche di settembre attualmente in distribuzione.


Qui Mantova - Scoprire Bruno Schulz

Accovacciato come un cane ai piedi di donne bellissime. Con le sembianze di un nano o i riccioli di un pio chassid. Come uno Zelig ante litteram Bruno Schulz, il mitico autore de Le botteghe color cannella, assume nei suoi autoritratti le fattezze più singolari. Un gioco raffinato e una pulsione dell’animo in risposta all’interrogativo che torna, inquietante, nella sua tormentata esistenza: “Che aspetto ho?”. E’ proprio questo il titolo del bel racconto di Francesco Cataluccio e dell’attore Olek Mincer, in scena al Festivaletteratura di Mantova al Teatro Bibiena, che tra letture e immagini conduce lo spettatore nel mondo di Schulz.
E’ una volata dolorosa e al tempo stesso divertita che si snoda dalla nascita di Bruno, a Drohobycz, nell’allora California della Galizia (“un mondo urbano e in movimento che Schulz non riuscirà mai a lasciare e che ritrarrà come un universo immobile e senza tempo”, sottolinea Cataluccio) seguendolo nei primi successi letterari, soffermandosi sugli amori, il profondo affetto per il padre e la passione per il disegno. Fino alla tragica fine, per mano di un ufficiale nazista che nel novembre del 1942 lo uccide per strada, vendicandosi del “padrone” nazista di Schulze, Felix Landau. Una morte per tanti versi ancora avvolta nel mistero, come il destino dell’ultimo romanzo Il Messia, capace di ispirare ancora in tempi recenti autori come Cinthia Ozick o David Grossman che a Schulz ha dedicato Vedi alla voce amore.
E proprio un autore israeliano sarà il protagonista dell’evento conclusivo del festival. Dopo il magistrale intervento del filosofo Alain Finkielkraut che in mattinata ha parlato di libri e dell’utilità della letteratura a partire dal suo ultimo libro Un cuore intelligente edito da Adelphi, sul palco del Chiostro del Museo diocesano salirà Yeoshua Kenaz, uno dei massimi autori di lingua ebraica. In un evento che già da giorni si annuncia come tutto esaurito, dialogherà con lui Lella Costa.

Daniela Gross



Kenaz: “Racconto Israele tra innocenza e solitudine”

I suoi libri sono arrivati in Italia un po’ in sordina. Voci di muto amore, uno fra i testi più belli mai scritti sulla vita da vecchi. E poi Ripristinando antichi amori, forse il più noto perché ha ispirato Amos Gitai che ne ha tratto il film Alila. A seguire, alla spicciolata, gli altri. Quasi tutti, tranne Infiltrazione, in ebraico Hitganvut yehidim. Un’assenza chissà quanto casuale per un’opera considerata una pietra miliare della letteratura israeliana che ha però il difetto di affrontare un tema scabroso per l’opinione pubblica occidentale: la Tzavah e i suoi soldati. In Infitrazione Yehoshua Kenaz, ospite d’eccezione al Festivaletteratura di Mantova, narra di un gruppo di militari diciottenni. È un ritratto ambientato negli anni Cinquanta che affronta temi sempre attuali, dalla perdita dell’innocenza alle oscurità dell’esercito. Una storia di grande potenza, una sorta di Platoon in versione israeliana, capace di svelare al lettore un lato ancora poco noto di quella realtà e di sfatare il luogo comune che vuole Kenaz autore squisitamente intimista, attento solo ai moti dell’animo e al trasalire dei sentimenti. Lontano anni luce da quel tratto epico ed engagé che ha fatto amare, anche nel nostro Paese, scrittori come Amos Oz, A.B. Yehoshua o David Grossman. “Non posso scrivere di temi politici come i miei colleghi e buoni amici – spiega lui –. Non è un fatto di scelta ma di carattere: non ne sono capace. Ciò non significa però che non mi esprimo sui temi politici. Sono iscritto a un partito, Meretz (laico e di sinistra ndr); firmo spesso appelli pubblici e il pubblico sa bene come la penso”. Il punto è, chiarisce con un tratto garbato, accentuato dall’impeccabile francese con cui sceglie di rispondere alle domande, che ad attrarre come un polo magnetico la sua scrittura sono le persone, quell’aroma inconfondibile di voci, dolori, emozioni che si sprigiona dal vivere insieme: in una casa di riposo nel caso di Voci di muto amore o in un condominio nella prima periferia di Tel Aviv in Ripristinando antichi amori.
Yehoshua Kenaz, in quasi tutte le sue opere mette in scena dei complessi microcosmi da cui si dipanano le diverse storie. Perché questa scelta?
Credo che la verità dei personaggi passi proprio attraverso questa complessità e si esprima grazie all’intreccio di più voci. Per questo ho scelto di utilizzarlo anche in Infiltrazione.
Come mai questo romanzo non ha ancora avuto la diffusione che merita?
È un libro che parla dell’esercito israeliano, argomento che oggi gli europei non apprezzano molto. In questi anni ho sentito spesso persone di valore, intellettuali, che lo condannavano senza sapere ciò che realmente accade in Israele, giusto per il piacere di sentirsi politicamente corretti. Un libro che va al di là di questi cliché è difficile possa trovare una buona accoglienza, com’è accaduto d’altronde per Tredici soldati di Ron Leshem. Il romanzo, da cui è stato tratto il film Beaufort, ha avuto un gran successo in Israele ma in Europa è passato quasi inosservato.
I suoi personaggi emanano un senso molto forte di solitudine e talvolta anche d’isolamento. Una condizione che sembra smentire quel forte senso di comunità che, secondo l’immaginario collettivo, pervade Israele.
La loro condizione in Israele è vissuta come del tutto normale. Si trovano all’incrocio tra la collettività in cui vivono, in un ricovero o in un condominio, le relazioni che intrattengono con i vicini o gli amici e la solitudine che tocca inevitabilmente ciascuno di noi.
I suoi lavori hanno avuto anche una traduzione cinematografica. Voci di muto amore è stato adattato da Gurevitch, nel 2009 Dover Kosashvili ha tratto un film da Infiltrazione mentre Ripristinando antichi amori ha ispirato, nel 2003, Alila di Amos Gitai. Come ha vissuto l’esperienza di incontrare il suo stesso mondo poetico sul grande schermo?
Non ho partecipato alle trasposizioni cinematografiche: mi sono limitato a vendere i diritti d’autore. In linea generale il risultato è stato terribile. Quei film non hanno niente a che fare con il mondo raccontato dai miei libri, soprattutto Alila. Ma in un certo senso me lo aspettavo.
Lei ha tradotto in ebraico molti classici della letteratura francese, da Stendhal a Flaubert a Gide e ha regalato ai lettori israeliani la possibilità di leggere Simenon. È stato difficile trasportare quel mondo culturale nel suo Paese?
Non in modo particolare. Gli israeliani amano i libri, li comprano. Simenon è stato molto apprezzato come d’altronde i classici. Non mancano però le sorprese. Di recente ho tradotto Le père Goriot di Balzac. Un libro geniale che tratta un argomento di stringente attualità come il denaro e l’avidità che con mio grande stupore non ha avuto la risposta che mi attendevo.
Quali sono le principali difficoltà di tradurre in ebraico?
Qualche volta mi sento lacerato tra le due culture: devo riuscire a rendere il francese in un ebraico bello e buono. È un equilibrio che con Simenon si realizza invece facilmente grazie al suo francese così semplice ed esatto.
Qualcuno sostiene che l’ebraico è privo di molte sfumature che caratterizzano altre lingue.
Non sento questa difficoltà. Talvolta può essere vero, ma in ebraico vi sono termini che mancano in altre lingue. Il francese utilizza ad esempio il verbo jouer per indicare l’atto del recitare, del giocare o del suonare: in ebraico ognuna di queste azioni ha un verbo specifico. La rinascita dell’ebraico, con la fondazione dello Stato d’Israele, viene spesso rappresentata come un miracolo. È d’accordo?
Non conosco un fenomeno simile in altre nazioni. Ma non saprei dare un giudizio perché sono nato nell’ebraico. I miei genitori lo parlavano in Eretz Israel ancora prima dello Stato e quando ero bambino c’era una sorta di fanatismo su questo tema: la lingua nazionale era molto importante, soprattutto a scapito dell’yiddish, che rappresentava la lingua dell’esilio. Oggi invece siamo pronti a torturare il nostro ebraico.
In che senso?
Come tutte le lingue parlate anche l’ebraico è in costante cambiamento. I giovani parlano uno slang che non sempre gli adulti capiscono, sono entrate nell’uso molte parole arabe e spesso saltano le distinzioni fra maschile e femminile nella coniugazione dei verbi o nella concordanza degli aggettivi. È un problema legato a carenze del sistema scolastico. Ma non è un’evoluzione isolata: in Francia i ragazzi massacrano la loro lingua più o meno allo stesso modo.
Ma c’è anche chi stenta a impadronirsi della lingua. In Ripristinando antichi amori si riproduce il dialogo di alcuni anziani incapaci di parlare ebraico se non in modo elementare.
È un problema ormai in via di esaurimento. Grazie alla scuola e all’esercito le nuove generazioni parlano tranquillamente l’ebraico. Le difficoltà sono ormai appannaggio solo dei vecchi o dei nuovi arrivati.


Daniela Gross, Pagine Ebraiche, settembre 2011



Pagine Ebraiche di settembre è su tablet (Apple e Android). Leggi l'articolo arricchito dai contenuti multimediali.



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pilpul
Davar Acher - I motivi dell'odio
Ugo VolliDevo ammettere che ho provato un certo piacere a leggere qualche giorno fa il giovane leader designato dell'ebraismo di sinistra dichiarare di dubitare che questa non esista. Nel suo ragionamento, assai superiore alle mie capacità di comprensione, la sinistra ebraica, che dice molto di esistere, non esisterebbe proprio per questa ragione (e anche perché non si occupa abbastanza delle rivendicazioni sociali israeliane). La destra invece esisterebbe molto proprio perché nega di esistere e anche perché si occupa di Israele, il che è evidentemente male, tanto che Moni Ovadia, nelle idee di Tobia Zevi, è bravo quando una volta non ne parla. La polemica della destra esistente contro la sinistra che non c'è, nelle vette abissali del pensiero del leader della sinistra inesistente, sarebbe come quella della Lega contro Roma; peccato che per Zevi Roma equivalga alla sinistra, mentre nella realtà elettorale le cose vanno in maniera piuttosto diversa. Non importa, anche in Israele la sinistra non esiste e non sa far bene i conti con i voti.
Però per una volta mi dichiaro entusiasticamente d'accordo con Zevi: parlare di dentro il mondo ebraico destra e sinistra non ha senso, e dato che non è affatto vero, come dice lui che "gli ebrei della Diaspora concordano sul sostegno allo stato d’Israele", tant'è vero che ci sono gli anitisionisti alla Moni Ovadia e i "diversamente sionisti" come gli inesistenti politici della sinistra ebraica, la differenza è proprio questa, fra chi appoggia per davvero Israele e chi aiuta i suoi nemici dopo aver pagato un tributo verbale agli "ideali del sionismo". Lo penso da molto tempo e l'ho anche scritto di recente in maniera articolata. Dato che sono sicuro che questi miei piccoli pensieri non sono stati letti da buona parte dei frequentatori di questo sito, mi permetto di riproporli qui:
Spesso cose e persone si etichettano come di destra o di sinistra, come se questa distinzione fosse oggettiva e naturale. Non lo è, e storico-culturale e anche recente, ha meno di un secolo e mezzo, essendo stata coniata dai giornali francesi a partire dalle posizioni che prendevano i partiti politici nel parlamento della III Repubblica. Il Novecento ne è però stato pieno: ci sono stati pittori di destra e pittori di sinistra, scrittori di questo e di quel schieramento, perfino indumenti (jeans di sinistra, moncler di destra), accessori (clarks di sinistra, rayban di destra), per non parlare di cibi, musiche, luoghi di villeggiatura. Oggi questa distinzione ha sempre meno senso, fuori dal cabaret della politique politicienne europea. In particolare si applica male al mondo ebraico e in particolare a Israele, nonostante i tentativi ostinati di ideologizzare la sua politica interna secondo schemi antiquati per demonizzarne il governo. L'opposizione vera è fra sionisti e antisionisti, cioè fra nel grado in cui la difesa dello stato di Israele e la sua definizione territoriali è privilegiata su altre considerazioni, ma spesso questa viene appiattita sulla grande metaclassificazione destra-sinistra. Si vedrà allora che i vecchi laburisti come Ben Gurion e Golda Meir erano ben più intransigenti (di "destra") dei governanti attuali e che le posizioni di Netanyahu sui confini dei Territori sono più pragmatiche (di "sinistra") di quelle di Rabin. La politica israeliana insomma non è "andata a destra", come dichiarano gli ideologi di Haaretz e i loro imitatori all'estero, e il governo attuale non è "il più di destra della storia di Israele", almeno se si bada alla possibili concessioni ai palestinesi e non alla difesa dal modello collettivista che piaceva ai padri fondatori. Sono i palestinesi che, seguendo la "politica del salame", incassata ogni concessione ne reclamano una nuova, seguiti dagli ossequenti "pacifisti" che, da "sinistra" come loro ritengono lo stato ebraico un incidente da superare al più presto.

Ugo Volli


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Sorgente di vita: In ricordo dell'11 settembre 
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"Stavamo impazzendo sull'interpretazione di un brano del Talmud, e ci siamo trattenuti in sinagoga. Quei 15 minuti in più di studio ci hanno salvato la vita". Sono le prime battute del servizio di Sorgente di vita dedicato all’anniversario dell’11 settembre 2001 che va in onda  nella puntata di questa sera su Raidue. Il panico dei primi momenti, le esplosioni, la paura, la cenere, le difficoltà dei giorni successivi attraverso le voci  del rabbino e di alcuni frequentatori della sinagoga di Wall Street  a Manhattan insieme alla testimonianza del rabbino militare Michael Goldstein, impegnato nei soccorsi, con una riflessione di Maurizio Molinari, corrispondente de "La Stampa" da New York.


 
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