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11 gennaio 2012 - 16 Tevet 5772
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sciunnach
David Sciunnach,
rabbino


Solitamente tutti i Mefarshim – commentatori, giudicano il comportamento della figlia del Faraone le kav zecùt  dandone un giudizio positivo. Ciò però potrebbe non esser così. Innanzi tutto ci si deve domandare quando sia terminato il decreto del Faraone di uccidere i maschi ebrei, poiché più avanti nella Torah noi vediamo Moshè Rabbènu contornato da giovani (Yehoshua, Kalèv, etc.). Sappiamo che Moshè è stato destinato da Dio ad essere il Ghoèl – redentore d’Israele, e che da Dio stesso era protetto, ciò è dimostrato dal fatto che la madre Yoheveth riuscì a tenerlo nascosto per i primi 3 mesi, e che non gli accadde nulla anche quando fu messo nella Tevà – cesta. Quando però la figlia del faraone lo vide nella cesta prima ebbe compassione perché lo vide piangere, e poi disse: “Questo è uno dei bambini ebrei” (Shemòth 2,6) li capì che quel bambino era il Ghoèl –  il redentore annunciato dagli astri, e si rese conto che non sarebbe stato possibile ucciderlo poiché Dio lo proteggeva. Lei allora pensò che non potendo uccidere il corpo forse avrebbe potuto uccidere la sua anima, crescendolo in mezzo all’avodà zarà – il culto idolatrico e alla ricchezza sicuramente si sarebbe dimenticato della sua missione. Allora le diede un nome egiziano Moshè che significa “io l’ho tratto dalle acque”. I Maestri c’insegnano che una delle cose che ha mantenuto i figli d’Israele in Egitto è stato proprio mantenere la tradizione dei nomi ebraici. E se ci soffermiamo sul significato del nome Moshè e se a questo associamo il noto insegnamento dei Maestri che l’acqua è la Torah, allora ne deduciamo che la figlia del faraone gli dà questo nome con l’intenzione di sradicarlo dalla fonte della vita, che è la Torah. Ma i Maestri ci hanno insegnato che l’anima ebraica non si spegne mai, e anche quando il fuoco è spento i carboni sotto le ceneri sono sempre accesi e basta un piccolo soffio di vento per far riaccendere il fuoco che sembrava spento. Così accadde a Moshè Rabbènu, dopo essere stato cresciuto in mezzo all’avodà zarà e alla ricchezza, si risveglia quando vede l’egiziano picchiare un ebreo. Questa spiegazione può essere uno dei motivi perché il faraone permise a sua figlia di portare e crescere un bambino ebreo nella sua casa. E viene ad appoggiare questa tesi il Midrash che ci dice che Moshè quando era bambino fu messo davanti a un tavolo dove c’erano pietre preziose e carboni ardenti, e che la sua mano stava per prendere le pietre e Dio gliela spostò sui carboni, poiché se avesse preso le pietre il faraone lo avrebbe fatto uccidere. Molto probabilmente in quel momento il faraone decide di interrompere il suo decreto fermando il massacro dei bambini ebrei perché convinto di aver oramai traviato il loro redentore.
 
 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
A volte la contemporaneità insegna di più sul passato che molti libri di storia. Spinto dal clamore del caso ungherese, che fortunatamente ha offerto il pretesto per l’intervento attivo di UE e FMI con l’estensione della longa manu governativa sulla Banca Centrale della Stato, vado alla ricerca di opinioni della Chiesa e di politici cattolici sulla riduzione del Cristianesimo a religione nazionale. E cosa trovo? Grandi elogi per le tendenze antiaboriste del governo Orban (così anche il nostro Buttiglione), lo stesso per la difesa del matrimonio uomo-donna. Entusiasmo per il contrasto alla deriva laicista dell’attuale Europa e per la difesa della propria identità nazionale che resiste all’imperialismo europeo (non ha però fatto schifo prendere 20 miliardini nel 2008 dalla BCE e chiederne altri ancora oggi). Il silenzio di Pio XII può così essere letto in altra luce: forse non erano solo questioni diplomatiche ma anche convergenze fra alcuni rami della Chiesa e le idee cavalcate dall’estrema destra europea. Forse, dovendo analizzare il problema da un punto di vista filosofico, fra un universalismo astratto che non tiene conto delle differenze e un nazionalismo che considera gli Altri come un limite alla propria espansione identitaria. Spero che anche noi non si cada nella trappola di difendere la nostra specificità collocandoci pacificamente in uno dei due poli di questa dialettica.

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Sindrome di Stendhal a Gerusalemme
Israel Museum"L'arte per l'arte" (Art for art's sake), "Beauty is truth, truth is beauty", fino al più folkloristico: "Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace", sono alcune delle frasi che vertono intorno al concetto di estetica. Non bisogna essere un grande conoscitore, un esimio professore, una gallerista in tailleur per apprezzare l'Israel Museum di Gerusalemme. Non bisogna sciorinare date, tecniche e committenze per essere a proprio agio. Fingiamoci un visitatore che nella sua vacanza nella città dorata si è ritagliato un po' di spazio tra preghiere e shwarma e iniziamo il nostro tour virtuale in un museo che non ha nulla da invidiare ai vari Moma e Metropolitan. Probabilmente indosseremo degli occhiali da intellettuale e una di quelle borse in materiale riciclabile in puro stile 'laureata no logo con un attico in centro'. Ma sappiate che adottare il look 'Barbie e Ken fanno una visita culturale' è perfettamente inutile. Perché questo non è un museo (non pensate subito al magrittiano Ceci n'est pas une pipe), è molto di più. E lo si capisce varcata la soglia. Dopo aver discusso per una riduzione sul biglietto e aver preso una audioguida fingendo di essere perfettamente anglofoni, eccoci pronti per un vero e proprio viaggio. Un viaggio che inizia all'esterno, preda dei venti. La solerte audioguida spiega infatti che ci troviamo davanti a Shrine of the book, costruito dopo il fortunato ritrovamento dei rotoli di Qumran (attualmente esposti a New York). Gli edifici e le opere realizzate appositamente per il museo tengono conto di Gerusalemme e dei suoi mille significati allegorici. Nulla è lasciato al caso. Nulla è lasciato al puro estro creativo. Tutto segue la tipica filosofia rabbinica: 'Una domanda, tante possibili risposte'. Ma smettiamola di osservare il muro nero e la buffa cupola, il cammino è ancora lungo. Dopo aver ammirato la ricostruzione in miniatura di Gerusalemme ai tempi del secondo Beit Ha Mikdash, siamo ancora ignari di cosa ci aspetta seguendo il cartello 'Art garden'. Un vero e proprio museo en plein air con opere di artisti israeliani e internazionali. I giardini che incorniciano le meraviglie sono frutto dell'architetto Noguchi (studioso dell'arte dell'Ikebana), che traspone la spiritualità zen nella città delle tre religioni monoteiste. Una commistione di diverse ramificazioni di spiritualità che rendono questo posto un luogo di pace assoluta. Sembra quasi di tornare ai tempi nei quali i giovani artisti toscani studiavano le sculture negli opulenti giardini medicei. Con la differenza che l'Israel Museum non è adornato da statue antiche o pseudo antiche ma da ingegnose opere. Picasso, Rodin (con l'inconfondibile torsione del corpo di matrice michelangiolesca), Calder e persino Anish Kapoor, l'indiano famoso per Cloud Gate (The bean) di Chicago. L'opera di Kapoor è stata realizzata appositamente per il museo e mostra la Gerusalemme celeste e quella terrestre in un gioco di specchi e riflessi. Robert Indiana ci propone invece la versione in ebraico, Ahava, del celeberrico LOVE. L'opera di Oldenburg (esponente della pop art), un grande torsolo di mela, tipico dell'artista che ha fatto del cibo fuori misura la caratteristica principale del suo lavoro, ci introduce nella galleria interna. E pensare che solamente il giardino ci ha invaso la mente di spunti di riflessione. All'interno si dislocano tre sezioni principali. Dopo una breve sosta per rifocillarci nel ristorante interno Mansfeld, si può esplorare l'area dedicata ai reperti archeologici. Un tuffo nel passato che ci farà sentire i protagonisti di un kolossal di Spielberg. Interessante osservare ad esempio l'evoluzione dei caratteri ebraici. Il nostro viaggio nel tempo continua poi con l'ala dedicata al mondo ebraico, una delle parti più suggestive e ben allestite del museo. Il ciclo della vita segnato dalle fasi principali (nascita, matrimonio, morte), gli antichi testi sacri con preziose miniature, le teche illuminate che contengono channukkioth da ogni parte del mondo, sono alcune delle attrazioni di questo luogo magico. Anche se probabilmente la parte più commovente è la minuziosa ricostruzione di sinagoghe come quella di Vittorio Veneto, di Cochin in India e nel Suriname. Per concludere, un meraviglioso video che mostra immagini di Yom Azmauth mescolando spezzoni degli anni '50 e quelli più recenti. Cinque minuti che raccontano Israele più di qualsiasi libro di storia. Ma arrivati a questo punto, anche il più ingenuo visitatore si chiede: "Dove sono i grandi nomi? Insomma è tutto bellissimo ma non c'è nemmeno un quadro da asta da Christie's!". E qui l'Israel Museum ci stupisce ancora, annoverando una ricchissima collezione dall'impressionismo di Monet e Pisarro in poi. Il Ready-made di Duchamp, l'avanguardia di Kokoschka fino al pop di Lichtenstein e Wesselmann. Non dimenticandoci della serie di Warhol intitolata "Ritratti di dieci ebrei del XX secolo", tra cui l'attrice teatrale Sarah Bernhardt, Franz Kafka, i Fratelli Marx e Golda Meir. Un proliferare di opere non troppo conosciute ma dalla firma preziosa. Un museo che deve tutto ai generosi donatori e finanziatori. Persino l'ascensore che conduce il nostro visitatore errante reca una targa che porta il nome di un benefattore. Ci troviamo quindi all'ultimo piano con i piedi gonfi e probabilmente in piena sindrome di Stendhal, ma non possiamo rinunciare alla nuova mostra sul design che farà perdere la testa agli appassionati del settore e non. E dopo aver salutato timidamente con la manina il quadro a pois colorati di Damien Hirst, possiamo davvero ritenerci soddisfatti. Lo so, vi gira un po' la testa, probabilmente il nostro visitatore avrà bisogno di rilassarsi al Mar Morto con i fanghi sul viso o di ritrovare un po' di sana superficialità in qualche nuova discoteca di Tel Aviv. Ma anche quando ballerà scatenato, i suoi occhi brilleranno ancora, illuminati dalla concentazione di tanta bellezza in un unico luogo.

Rachel Silvera

Qui Roma - L'archivio virtuale della Memoria
Tour virtuale della MemoriaNel mare magnum di internet si trovano centinaia di portali negazionisti: dai forum dei movimenti neonazisti ai profili privati di Facebook. I negazionisti italiani e, soprattutto, i loro simpatizzanti, sfruttano il web per far circolare tesi che mirano a diffondere la convinzione che il piano di sterminio degli ebrei, disposto dal regime nazista, non sia mai esistito. Spesso la nuova follia antisemita vuole proseguire il ruolo della propaganda nazista negando l’esistenza delle camere a gas e accecando l’opinione pubblica con il diritto di espressione: in realtà, più semplicemente, in molti hanno capito che Internet è lo strumento più veloce per diffondere notizie false. La documentazione, la formazione e la divulgazione diventano quindi uno strumento decisivo per contrastare queste tesi, anche utilizzando il web e la multimedialità. In questa direzione la mostra virtuale su Auschwitz-Birkenau voluta dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma risulta uno strumento di grande utilità. Si tratta di un innovativo tour virtuale (Museodellashoah.it/tourvirtuale) all’interno del quale chiunque può consultare documenti, fotografie, atti che parzialmente ripercorrono la politica nazista nei confronti degli ebrei e il ruolo assunto dal campo di Auschwitz-Birkenau all’interno della soluzione finale. Il materiale, proveniente da diverse istituzioni internazionali e collezioni private, è stato raccolto e organizzato dallo staff scientifico della Fondazione Museo della Shoah, diretto da Marcello Pezzetti e sotto la supervisione di Sara Berger e Libera Picchianti, e ripercorre in parte la mostra “Auschwitz-Birkenau” esposta a Roma nel 2010 presso il Complesso monumentale del Vittoriano. La mostra virtuale che, altro elemento tecnico fondamentale, potrà essere percorribile anche off-line su supporto CD o DVD, è stata ideata e realizzata dalla Società Alé Comunicazione Srl sotto la direzione di Robert Hassan e il coordinamento tecnico di Alessandro Tortorella.

Benedetta Rubin
       

pilpul
Tempo
Francesco LucreziLe interessanti considerazioni svolte dal Rav Scialom Bahbout nella newsletter dello scorso 6 gennaio, dedicate al significato del capodanno, sollecitano anche una più generale riflessione sul senso e sul valore del tempo, del suo incessante scorrere. Tema, com’è noto, tipicamente ebraico, tanto che Heschel definì gli ebrei “costruttori del tempo” (come gli egiziani lo sarebbero stati dello spazio, i romani dello stato, e i cristiani del cielo). Cos’altro è, l’accanita fedeltà del popolo ebraico alla propria radice, la tenace custodia della memoria e la costante tensione verso il futuro, se non una sfida all’eterno fluire del tempo, al suo perpetuo inghiottire nell’oblio ogni cosa, ogni esistenza, ogni civiltà? La parola biblica tenta di ergersi a scoglio nel fiume dei millenni, esprime l’umano desiderio di cercare, comunque, un punto fermo. Eppure, il pessimismo sullo scorrere del tempo non è, a tale parola, estraneo, come ben rammentano le sconsolate parole del Qohelet: “Passa una generazione e ne succede un’altra, e la terra esiste sempre. Il sole sorge e tramonta, e poi torna al suo posto, da dove si leva di nuovo… Tutti i fiumi sboccano nel mare, e il mare non trabocca: là da dove i fiumi scaturiscono, essi ritornano, per poi rifluire nuovamente… Cosa è ciò che è stato? Ciò che sarà. Cosa è ciò che accaduto? Ciò che accadrà. Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.
Se il passare del tempo, col suo inesorabile portare via ogni cosa, induce, indubbiamente, alla tristezza, esso porta anche, però, una forma di consolazione, una sorta di ultima, estrema risorsa. Se tutto passa, passa anche il dolore. Nessuna sofferenza è eterna. E quante volte, di fronte a un problema apparentemente insolubile, ci si aggrappa, più o meno sensatamente, alla speranza, che, col tempo, esso possa trovare una qualche soluzione, grazie al sorgere di nuove circostanze più propizie, di cui, al momento, non si vede traccia, ma che potrebbero, comunque presentarsi l’indomani. Tale sentimento, comprensibilmente, emerge soprattutto di fronte a situazioni negative, di lunga durata, per le quali, a torto o a ragione, abbiamo la convinzione di non poter fare nulla, o quasi, per modificarle. È un pensiero che affiora molte volte, in particolare, riguardo alla spinosa questione mediorientale, alla penosa mancanza – anno dopo anno, decennio dopo decennio - di prospettive - per quanto remote, esili, ipotetiche – di soluzione.
Deve passare una generazione, si dice, i figli dei nemici di oggi non saranno così maldisposti come i padri, se non altro per stanchezza. La diffusione del benessere, della cultura, della comunicazione tra gli individui e i popoli porterà desiderio di conoscenza, di scambio, di amicizia. Ma capita, spesso, che i figli siano peggiori dei padri, che gli uomini non si stanchino mai di odiare. Che il benessere non cresca o, comunque, non a beneficio di molti. Che la cultura ceda al fanatismo, che la nascita di nuove minoranze metta paura alle maggioranze, alimentando sentimenti di chiusura, esclusione e disprezzo.
Disse Benedetto Croce che la storia tende al meglio, anche se non al bene. Ma si potrebbe anche, legittimamente, pensare l’esatto contrario, che tenda al peggio, al male. La Shoah è alla fine di millenni di civiltà, non all’inizio. Basterebbe questa semplice, terribile constatazione per sbriciolare per sempre qualsiasi illusione di una ‘naturale’ vocazione del genere umano al progresso, all’elevazione materiale e spirituale.
Cosa riserva il tempo di domani? Qualche spiraglio di luce, o nuovi lutti, nuove tragedie? Difficilmente la ragione può indurre all’ottimismo. Quindi, forse, meglio non pensarci e, invece di pensare, agire, seguendo la saggia Massima dei Padri (1.15): “parla poco, fai molto”.

Francesco Lucrezi, storico

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notizieflash   rassegna stampa
Israele - Netanyahu aumenta
il budget della Difesa
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"Aggiungeremo 3 miliardi di shekel (circa 700 milioni di dollari, ndr) al budget della Difesa". L'annuncio è del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e sembra contraddire l'indirizzo della commissione governativa guidata dall'economista Manuel Trajtenberg che aveva recentemente proposto un consistente taglio dal budget della Difesa in favore di alcune riforme sociali. "Ho riflettuto a lungo - ha detto Netanyahu in occasione di una riunione di governo - e alla luce di quanto recentemente successo nella regione sono giunto alla conclusione che tagliare questa voce sarebbe un grave errore".

 

Le elezioni israeliane sono previste nel prossimo anno e un editoriale pubblicato sul Foglio ne rivela i preparativi partiti fin da ora: il ministro della difesa Barak passerebbe al partito di Netanyahu, il popolarissimo giornalista televisivo Yair Lapid scenderebbe in politica (già suo padre ebbe un forte successo personale nel 2003) creando un nuovo partito che potrebbe sottrarre a Kadima tra 15 e 20 seggi, ed il padre di Gilad Shalit, Noam, si candiderebbe coi laburisti, dei quali possiede la tessera fin dal '96, sfruttando la fama raccolta nei terribili anni della prigionia di Gilad.

Emanuel Segre Amar










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