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21 ottobre 2012 - 5 Cheshwan 5773
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Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino

 

Un rabbino che non aveva mai visto rabbi Israel Meir ha Cohen, il grande Hafetz Haim, andò una volta a Radin per incontrarlo. Arrivato verso sera, incontrò un ebreo per la strada e gli domandò dove poteva trovare una pensione. L'uomo gli disse "Ti porto io lì" e lo portò in casa sua dove servì il rabbino così come un albergatore  fa con i suoi avventori. La mattina dopo, nella sinagoga, il rabbino domandò a qualcuno di indicargli chi fosse rabbi Israel Meir ha Cohen ed enorme fu il suo stupore quando si rese conto non essere altro che l'albergatore. Andò dunque dal Hafetz Haim  e gli chiese perdono per essersi fatto servire da lui. Rabbi Israel Meir rispose semplicemente: "Sono forse esente dal precetti della ospitalità?"

David Bidussa, storico sociale
delle idee


Treves Editore ha pubblicato una nuova edizione del testo di Theodor Herzl – “Lo Stato degli ebrei”, con una presentazione di Shimon Peres e una introduzione di Amos Luzzatto. Non so come si discuterà di questa edizione. Ma penso che sarebbe un'occasione sprecata se tutto si limitasse a discutere di Dreyfus o della improvvisa conversione di un giornalista emancipato di successo. Mi piacerebbe che qualcuno provasse a condividere in pubblico la storia del suo rapporto con questo libro che è anche in modo diverso di raccontare la storia del suo rapporto con la dimensione ebraica nel tempo attuale: quella del suo “essere ebreo”, ma anche quella del suo “guardare gli ebrei”.
E per ciò mi chiederei, più che cosa spingesse Herzl a scrivere quel libro, cosa ha spinto ieri o cosa spinge oggi a leggerlo; se e dove sia collocato nella propria libreria di casa; quanto sia parte delle letture di un israeliano; come lo legge un adolescente o un ebreo osservante (tanto per mettere insieme le prime figure che mi vengono in mente). Insomma quale sia e quante sfaccettature abbia l’altra metà del libro “Lo Stato degli ebrei”, ovvero il mondo variegato e in movimento dei suoi lettori, effettivi e potenziali. Per capire anche quanti e quante volte lo abbiano avuto tra le mani. Oppure non abbiano mai sentito il bisogno di leggerlo.  E a tutti chiederei: perché?

davar
Qui Roma - La Fondazione Zevi festeggia 10 anni di lavoro
A segnare la sua nascita, il 28 settembre del 2002, furono un concerto dell’orchestra dell’Accademia nazionale Santa Cecilia nell’appena inaugurato Auditorium Parco della musica di Roma con Walter Veltroni, Luciano Berio e Renzo Piano e con musiche ebraiche e dodecafoniche, e una donazione importante: i 400 bozzetti originali e prove di stampa realizzati da Marcello Nizzoli e Mario Olivieri per le copertine della rivista L’Architettura - cronache e storia nell’arco di oltre quarant’anni. Scenari e protagonisti d’eccezione per accogliere una realtà, la Fondazione Bruno Zevi, destinata a fare scuola nel mondo della cultura italiana. Da allora sono trascorsi dieci anni, fitti di iniziative, convegni, pubblicazioni, mostre. E per festeggiare il primo decennio di vita e di lavoro martedì 23 ottobre, a Roma, la facoltà di Architettura dell’università Sapienza di Roma e la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea accolgono un incontro e una mostra animati da un altro grande protagonista: lo scultore, designer e architetto Gaetano Pesce. Iniziative che si snoderanno nel segno della riflessione critica e in uno slancio verso il futuro che Bruno Zevi senz’altro avrebbe apprezzato.
La giornata si apre nell’aula magna Bruno Zevi della facoltà di Architettura in via Gramsci 53. Dopo i saluti di Renato Masiani, preside della facoltà di Architettura e di Adachiara Zevi, presidente della Fondazione Bruno Zevi, Gaetano Pesce propone un incontro intitolato (provocatoriamente) L’architettura è noiosa. In conclusione, un video ripercorrerà la storia della Fondazione Bruno Zevi e si premia il vincitore della sesta edizione del Premio Bruno Zevi, per un saggio storico-critico.
Nel pomeriggio la soprintendente della Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Maria Vittoria Marini Clarelli, inaugura la mostra Omaggio a Bruno Zevi anticlassico, che propone cinquanta bassorilievi in resina flessibile colorata della Biblioteca laurenziana di Michelangelo, realizzati da Gaetano Pesce appositamente per il decennale e donati alla Fondazione. Una partecipazione, quella di Pesce, che s’inserisce appieno nella visione antiaccademica e unitaria dell’architettura e della cultura che Zevi ha sostenuto per tutta la vita.
“La scalinata della Laurenziana, manifesto anti- classico è, nelle mani di Pesce, ulteriormente deformata e ammorbidita, grazie alla sensualità del materiale e all’allegria dei colori che ne alterano le fattezze, divenendo da capolavoro architettonico a oggetto artistico - spiega Adachiara Zevi, architetto e storica dell’arte - E la location della Galleria nazionale consentirà di mettere in luce un altro aspetto. Al loro cospetto si trova infatti l’assai meno anticlassica Scalea intitolata Bruno Zevi: un doveroso risarcimento a chi, piccone in mano, sfidò l’allora sindaco Rutelli che la voleva dedicare a Giuseppe Bottai”.
Nell’occasione sarà inoltre pubblicato il quarto bell’annuario, ricco d’immagini e notizie, che propone una sintesi delle attività svolte dalla Fondazione Bruno Zevi negli ultimi due anni. Tra queste, si segnalano il workshop svolto dagli studenti di architettura dedicato alla “casa frugale”, seguito al convegno e alla pubblicazione di Una guida all’architettura frugale che propone una prima parziale mappatura di casi diversi di frugalità e di ipoconsumo nel segno di un’architettura del residuo che sa impiegare al meglio i materiali naturali e locali o riciclare quelli altrimenti destinati a divenire rifiuto.
Di grande interesse anche il convegno Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l'architettura i cui atti vengono anch’essi presentati il 23. Argan e Zevi condividono la difficile battaglia per la promozione dell’architettura moderna e l’impegno antifascista. A dimostrarlo, il fatto che nel 1976, da poco eletto sindaco di Roma, Argan affida a Zevi la prima commemorazione in Campidoglio della razzia del 16 ottobre 1943 dal Ghetto di Roma. “Argan in Campidoglio – così Zevi – implica il riscatto del movimento moderno, dei suoi protagonisti, dei suoi martiri; compensa decenni di sconfitte, di ingiustizie, di fame, cumuli interminabili di occasioni perdute e di inenarrabili offese…”.

Pagine Ebraiche novembre 2012


Il sostegno ai giovani ricercatori e la riflessione sulla modernità

“... Io sono felice perché so che, in qualsiasi momento, sentendomi mancare, posso rivolgermi a voi, dicendo: continua tu, tu, tu, tu”. Bruno Zevi affermava così in un discorso tenuto a Modena nel 1997. E proprio in questa frase si può rintracciare la chiave di volta della Fondazione che porta il suo nome. Una realtà nata per onorarne la memoria e ricordare il suo importante contributo di storico, critico e pensatore con l’obiettivo di sostenere chi si dedica all’architettura e all’arte. “Tra le iniziative che più ci stanno a cuore – spiega Adachiara Zevi, presidente della Fondazione – c’è il premio annuale, unico in Italia, dedicato ai dottori di ricerca. Assegnato da una giuria internazionale, ogni volta diversa, consente ai premiati di pubblicare il proprio saggio nella collana dedicata delle edizioni della Fondazione e di tenere una conferenza sull’argomento in occasione della premiazione”. “E’ una formula – continua – che consente a giovani di grande valore di far conoscere il loro lavoro anche al di fuori dei consueti circuiti accademico-editoriali e, soprattutto, si tratta di un Premio frutto di un bando criticamente orientato verso una lettura dell’architettura moderna, anti-classica, spaziale, sensibile al paesaggio”. E guarda ai giovani anche Building the Future, il progetto umanitario realizzato con il Comune di Roma ai tempi di Veltroni e coordinato dall’American Jewish Joint Distribution Committee, che assegna trenta borse di studio agli studenti disagiati della facoltà di architettura dell’università di Addis Abeba.
La sede della Fondazione, in via Nomentana 150 a Roma, è aperta al pubblico per la consultazione della biblioteca di Zevi, composta di oltre quattromila volumi, il cui indice è consultabile on line. Dal 2006 è inoltre disponibile l’inventario analitico dell’archivio, dichiarato di interesse storico dalla Soprintendenza archivistica del Lazio che poi ha provveduto al suo riordino.
Dalla sua apertura, la Fondazione ha promosso tanti significativi eventi culturali quali convegni, mostre, premi internazionali, borse di studio, pubblicazioni. Tra queste ultime, accanto alla guida all’architettura frugale, si segnala Una guida all’architettura moderna dell’Eur, che a partire dall’incontro “Eur. Se Terragni avesse vinto …”. Unica iniziativa organizzata a Roma per ricordare il centenario del grande architetto comasco, racconta la storia del quartiere “come se” Terragni e altri architetti moderni avessero vinto i concorsi del 1937-38. Nell’itinerario suggerito non si incontrano infatti i retorici edifici simbolo del regime ma quelli da loro progettati e bocciati ai concorsi. Una guida dalla parte dei vinti per porre in luce la grande “occasione perduta” di un’ipotesi urbana moderna e integrata. “La direzione da perseguire in futuro – commenta Adachiara Zevi – è anche questa: una riflessione più approfondita sulla modernità e la sua relazione con il contesto politico e culturale, come accaduto con l’appello lanciato dalla Fondazione a favore della candidatura di Emma Bonino a presidente della Regione Lazio”.

Pagine Ebraiche novembre 2012

Qui Londra - L'Aron e il gioco
L’Aron del “Nord Italia” (XVII-XVIII secolo) è sempre, a mio avviso, il pezzo forte della collezione del Museo ebraico di Londra, anche nella più nuova sede di Camden Town. Dopo averlo a lungo ammirato, la mia attenzione si è volta, al piano di sopra, a un gioco interattivo dedicato al tema dell’immigrazione degli ebrei dall’Est Europa in Gran Bretagna, tra il 1881 e il 1914. Tutto funziona come nel “gioco dell’oca”, ma le caselle segnano la sorte del giocatore secondo motivazioni tipiche al mondo dei migranti: “non hai il passaporto, sei rimasto fermo alla frontiera, torna indietro di due caselle”; “soffri di mal di mare nel corso del viaggio, torna indietro di una casella”, “giunto a Londra, ti hanno rimandato indietro perché hai il colera: torna indietro di tre caselle”. Ma, perché il gioco funzioni, si va anche avanti e, accanto all’agognato traguardo, troviamo “hai incontrato un ufficiale del Jews’ Temporary Shelter (organizzazione assistenziale specifica) vai avanti di una casella” “hai incontrato un parente che ti offre ospitalità, vai avanti di due caselle”. Tramite vignette tipiche, ambientate a fine Ottocento, i curatori del Jewish Museum alludono a situazioni contemporanee, sollecitando la sensibilità del loro pubblico. Un’idea cui potremmo ispirarci anche noi?

Myriam Silvera

pilpul
Nugae - Rue des Rosiers
Il bello di Parigi è che ogni suo angolo custodisce un particolare che la rende unica al mondo, oltre che così charmante. Non fa eccezione la famosa Rue des Rosiers. Nel pieno del Marais, tutto fatto di stradine strette e piene di adorabili negozietti, chi entra in Rue des Rosiers dal lato “sbagliato” inizialmente rischia di non rendersi nemmeno conto di trovarsi nel cuore pulsante del quartiere ebraico. Mancano l’odore di spezie, il luccichio pacchiano dei portacandele di shabbat in vetrina e le conversazioni rumorose. Ma soprattutto, dove sono i negozi di falafel? Niente, solo boutiques chic e un po’ globalizzate, vasi con piante curate e nulla che esca dall’ordinario. Ma c’è un punto precisissimo dove le cose cambiano, quello in cui la strada si restringe, trasformandosi in un vicoletto affollato. Non tutto d’un colpo, ci sono prima dei segnali: una boulangerie che vicino ai macarons colorati vende anche i rugelach, un ciondolino col magen david che fa capolino nella vetrina di una gioielleria, un ottico che si chiama “Jonathan”. E poi, continuando a camminare, ecco i primi ristoranti kasher, ecco spuntare in ogni dove i tanto ricercati falafel, ecco i candelabri argentati. E ancora, si iniziano a percepire stralci di conversazioni telefoniche in ebraico e si incontra il giovane rabbino che litiga ad alta voce col signore anziano che ha deciso di mettersi con la sua seggiolina a distribuire un giornale proprio di fronte all’entrata del suo centro sociale. Donne in gonna lunga insieme a turisti affamati riempiono la via, challot enormi da guinnes dei primati si affacciano sulle vetrine, il tutto in un tripudio di lettere ebraiche sulle insegne e di profumi orientali. In un crescendo di dettagli, la splendida Rue des Rosiers si rivela gradualmente.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche – twitter @MatalonF

Strategia della latitanza
Alle “primavere di bellezza” seguono, in genere, gli autunni di malinconica aggressività. È così nella vita di certe persone; lo è tanto più nel caso di quei popoli che non trovano sbocco nelle loro richieste, vivendo un senso di impotenza accompagnata al disincanto. E da questo punto di vista la cosiddetta «primavera araba» rischia di rivelarsi, nella sua traiettoria, il focolare di una radicalizzazione permanente. In molti l’avevano predetto, perché avevano colto il problema di fondo, ossia che dinanzi al permanere delle diseguaglianze economiche e sociali i cambi di regime rischiano di avvantaggiare quelle forze che meglio sono strutturate, in genere quelle non democratiche, tanto più in paesi dove mai si è data una vera dialettica politica e, nel medesimo tempo, la prassi laica - che separa i fatti del cielo da quelli della terra -, è pressoché sconosciuta. Gli islamisti, variamente assortiti, spesso tra di loro in mortifera competizione, sono tra coloro che si stanno presentando all’incasso della cambiale firmata da quei popoli che hanno rimesso in discussione le autocrazie. Il caso della Siria è solo l’ultimo in ordine di successione. Nell’attuale scenario mediorientale, dopo quasi due anni di sollevazioni, entrano tuttavia in gioco molti fattori. Uno di questi è il comportamento degli Stati Uniti, variamente giudicato, anche a seconda del grado di condiscendenza verso l’attuale amministrazione, ma da diversi osservatori letto come incostante e sostanzialmente deludente. Malgrado le dichiarazioni di principio di Barack Obama, le aperture di credito al mondo arabo-musulmano, l’indicazione della necessità di voltare pagina, al momento attuale, in prossimità della conclusione del mandato dell’attuale presidenza, non è ancora dato capire se la maggiore potenza mondiale abbia una strategia e, con essa, quali siano le priorità che intende perseguire. Gli Usa sono sembrati, in più di una occasione, al rimorchio delle circostanze, subendo le mosse d’anticipo sia di global player, come la Cina e la Russia, sia di attori locali, tra i quali gli stessi movimenti islamisti. Che questi ultimi affollino la scena è fuori discussione. Mentre è materia di confronto, sia in un’ottica strategica che politica, il capire quale debba essere la risposta, caso per caso, da dare ad essi, fermo restando che il loro radicamento, non solo in Medio Oriente ma anche in parte del Sud-Est asiatico e nell’Africa sub-sahariana, è una costante con la quale dovremo confrontarci di qui ai prossimi lustri. Obama si è dovuto confrontare con l’inefficacia della condotta unilaterale promossa in otto anni dall’amministrazione di George W. Bush (le cui premesse si erano tuttavia già misurate negli anni della presidenza Clinton, quando questi aveva deciso di affrontare sia l’Iran che l’Iraq, superando la dottrina che diceva che per smorzarne la forza occorreva mantenere l’uno contro l’altro). In termini di risultati di lungo periodo la «lotta al terrorismo», per come è stata condotta, non ha premiato gli americani, non almeno nella misura in cui speravano potesse farlo. Non di meno, è stata tra i fattori che hanno innescato una destabilizzazione degli equilibri preesistenti al 2001, senza però riuscire ad andare al di là degli auspici di nuovi assetti, che non trovando concrete opportunità non si sono tradotti in percorsi di fatto. La contrapposizione diretta, come è avvenuta con l’impegno militare in Afghanistan e in Iraq, è sempre meno praticabile, sia politicamente che finanziariamente. A ciò si aggiunge poi che gli alleati europei, già da tempo divisi tra di loro sul da farsi e comunque accomunati dallo scetticismo sulla condotta statunitense, oggi non sarebbero nelle condizioni di rispondere a nuovi appelli alla partecipazione ad attività militari congiunte. Dal 2008, quindi, l’amministrazione democratica, alle prese anche con gli effetti sempre più impegnativi della crisi finanziaria, immobiliare e poi economica, ha dovuto faticosamente provvedere ad una sorta di ridisegno dell’agenda delle priorità. Lo ha fatto con scarsa coerenza e con ancora minore intelligibilità, assecondando perlopiù le suggestioni del momento. Da un lato ha cercato di recuperare forze disimpegnandosi, in maniera possibilmente non plateale, da alcuni teatri di crisi e non assumendo altri oneri; dall’altro ha virato verso l’Asia continentale e orientale, lasciando il dossier mediorientale in standby. Dopo di che, ed è questo un inghippo per gli Usa, il Medio Oriente e il Mediterraneo (quest’ultimo a sua volta abbandonato a sé) sono imprescindibili per qualsiasi presidenza. Non si possono giocare sul tavolo dei dadi, come una sorta di dote superflua, poiché se li si dovesse perdere per Washington sarebbe messo in discussione il soddisfacimento di quelle che sono esigenze imprescindibili. Nel caso specifico esse si riconducono a quattro elementi: l’accesso, a regime di libero mercato, alle riserve di idrocarburi e di gas naturali; la continuità della dinastia saudita, garante degli attuali equilibri in campo petrolifero; la libera navigazione nei mari; la sicurezza di Israele (un concetto, quest’ultimo, che ha tuttavia subito mutamenti significativi). Sono quattro target indispensabili ma al contempo troppo onerosi. L’alternativa è stata quindi offerta dalla condotta di bilanciamento locale, che si dà quando una superpotenza non interviene direttamente ma affida ad alleati presenti sul campo (o ad organizzazioni multilaterali) l’onere di mantenere gli equilibri. Obama lo ha fatto per l’Egitto, in Libia e lo sta tentando con la Siria, senza parlare di altre realtà per così dire “minori”. Più in generale il tutto si è tradotto in una apertura di credito verso le organizzazioni islamiste ritenute meno radicali, potenziali interlocutrici di Washington (ma non sue alleate), destinate a garantirne una parte degli interessi senza creare troppi svantaggi: Ennahda in Tunisia, il Partito della giustizia e della libertà in Marocco, i Fratelli musulmani in Egitto. Si tratta di una strategia del contenimento del danno. Al Cairo il presidente americano ha quindi lasciato che fosse l’esercito, la vera spina dorsale del paese, a prendere il pieno controllo della situazione. A Tripoli è stata la Nato ad assumersi questo impegno. In Siria si sta indagando su una qualche partnership, dovendo però fare i conti sia con la Russia di Putin che con l’enfatico ottomanismo di Erdogan, che attribuisce alla Turchia un ruolo strategico in tutto il Mediterraneo di contro alle mire saudite. In tutti e tre i casi i risultati si sono comunque rivelati insoddisfacenti: in Egitto la situazione è precaria e la speranza è che tra salafiti e Fratelli musulmani le tensioni polarizzino a tempo indeterminato il quadro politico; in Libia il trapasso si è consumato, in quanto regolamento di conti tra clan locali, in modo tale da rivelare anche l’inefficienza della Nato e la conclamata recalcitranza degli europei; in Siria il gioco perverso dell’inside war proseguirà fino a che Mosca lo vorrà. Il quadro regionale che ne viene fuori è assai poco promettente. L’Unione Europea si è rivelata non solo fiacca ma per nulla interessata a interagire con gli Stati Uniti. Peraltro le istituzioni continentali hanno rivelato la loro piena sudditanza rispetto al calcolo di interessi di francesi, tedeschi e inglesi, i tre soggetti decisivi per una qualche politica europea del Mediterraneo. (Dell’Italia è meglio non parlare, stendendo semmai un velo pietoso.) Passo dopo passo si è quindi transitati, in vent’anni, da assetti basati su un monopolarismo statunitense, irrobustito da alleanze ad hoc con i poteri locali, ad una situazione di estrema frammentazione. Soprattutto, rischia oggi di sfarinarsi la tattica dell’apertura agli islamisti “moderati”. Che tali spesso si rivelano non essere. In Egitto non è nata nessuna alleanza tra militari e liberali. Piuttosto la Fratellanza musulmana ha eliminato, con il concorso di una giovane generazione di generali, il vecchio gruppo di potere del feldmaresciallo Tantawi. In Tunisia dall’anno in corso Ennahda, morsa ai fianchi, ha iniziato una rincorsa verso il fondamentalismo. In Libia il separatismo tribale e il secessionismo delle tre regioni storiche potrebbe paradossalmente trovare un limite solo nella risposta jihadista, che tuttavia guarda all’Africa sub-sahariana, a partire del Mali, dalla Nigeria e dal Sudan, per adoperarsi nella destabilizzazione anticristiana. Qual è lo spazio di azione per il prossimo presidente statunitense? Molto poco, ad onore del vero. Rimane il fatto che alcune forze politiche della regione sono ora al governo in virtù delle elezioni, seguite ai tumulti e ai rovesciamenti di regime. La qual cosa indica che i giochi potrebbero essere più aperti di quanto non si voglia pensare. Poiché l’elemento che le sollevazioni collettive hanno introdotto stabilmente nei quadri politici nazionali è la stanchezza di una parte della popolazione che chiede prospettive certe e non nuove guerre. Sapranno gli Stati Uniti degli anni a venire superare l’impasse? Forse bisogna guardare al Pacifico più che all’Atlantico per iniziare a formulare qualche previsione.

Claudio Vercelli

notizieflash   rassegna stampa
Sorgente di vita - Speciale sull'attentato
del 9 ottobre 1982
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La cerimonia alla sinagoga di Roma, alla presenza  del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e delle massime cariche dello Stato,  in ricordo dell’ attentato del  9 ottobre 1982. (...)
 

Gli archivi del Museo della Liberazione di via Tasso si arricchiscono con materiale e documenti inediti sulla barbarie nazifascista a Roma. 

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