Qui Roma - La
Fondazione Zevi festeggia 10 anni di lavoro |
A segnare la sua nascita, il
28 settembre del 2002, furono un concerto dell’orchestra dell’Accademia
nazionale Santa Cecilia nell’appena inaugurato Auditorium Parco della
musica di Roma con Walter Veltroni, Luciano Berio e Renzo Piano e con
musiche ebraiche e dodecafoniche, e una donazione importante: i 400
bozzetti originali e prove di stampa realizzati da Marcello Nizzoli e
Mario Olivieri per le copertine della rivista L’Architettura - cronache
e storia nell’arco di oltre quarant’anni. Scenari e protagonisti
d’eccezione per accogliere una realtà, la Fondazione Bruno Zevi,
destinata a fare scuola nel mondo della cultura italiana. Da allora
sono trascorsi dieci anni, fitti di iniziative, convegni,
pubblicazioni, mostre. E per festeggiare il primo decennio di vita e di
lavoro martedì 23 ottobre, a Roma, la facoltà di Architettura
dell’università Sapienza di Roma e la Galleria nazionale d’arte moderna
e contemporanea accolgono un incontro e una mostra animati da un altro
grande protagonista: lo scultore, designer e architetto Gaetano Pesce.
Iniziative che si snoderanno nel segno della riflessione critica e in
uno slancio verso il futuro che Bruno Zevi senz’altro avrebbe
apprezzato.
La giornata si apre nell’aula magna Bruno Zevi della facoltà di
Architettura in via Gramsci 53. Dopo i saluti di Renato Masiani,
preside della facoltà di Architettura e di Adachiara Zevi, presidente
della Fondazione Bruno Zevi, Gaetano Pesce propone un incontro
intitolato (provocatoriamente) L’architettura è noiosa. In conclusione,
un video ripercorrerà la storia della Fondazione Bruno Zevi e si premia
il vincitore della sesta edizione del Premio Bruno Zevi, per un saggio
storico-critico.
Nel pomeriggio la soprintendente della Galleria nazionale d’arte
moderna e contemporanea, Maria Vittoria Marini Clarelli, inaugura la
mostra Omaggio a Bruno Zevi anticlassico, che propone cinquanta
bassorilievi in resina flessibile colorata della Biblioteca laurenziana
di Michelangelo, realizzati da Gaetano Pesce appositamente per il
decennale e donati alla Fondazione. Una partecipazione, quella di
Pesce, che s’inserisce appieno nella visione antiaccademica e unitaria
dell’architettura e della cultura che Zevi ha sostenuto per tutta la
vita.
“La scalinata della Laurenziana, manifesto anti- classico è, nelle mani
di Pesce, ulteriormente deformata e ammorbidita, grazie alla sensualità
del materiale e all’allegria dei colori che ne alterano le fattezze,
divenendo da capolavoro architettonico a oggetto artistico - spiega
Adachiara Zevi, architetto e storica dell’arte - E la location della
Galleria nazionale consentirà di mettere in luce un altro aspetto. Al
loro cospetto si trova infatti l’assai meno anticlassica Scalea
intitolata Bruno Zevi: un doveroso risarcimento a chi, piccone in mano,
sfidò l’allora sindaco Rutelli che la voleva dedicare a Giuseppe
Bottai”.
Nell’occasione sarà inoltre pubblicato il quarto bell’annuario, ricco
d’immagini e notizie, che propone una sintesi delle attività svolte
dalla Fondazione Bruno Zevi negli ultimi due anni. Tra queste, si
segnalano il workshop svolto dagli studenti di architettura dedicato
alla “casa frugale”, seguito al convegno e alla pubblicazione di Una
guida all’architettura frugale che propone una prima parziale mappatura
di casi diversi di frugalità e di ipoconsumo nel segno di
un’architettura del residuo che sa impiegare al meglio i materiali
naturali e locali o riciclare quelli altrimenti destinati a divenire
rifiuto.
Di grande interesse anche il convegno Progettare per non essere
progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l'architettura i cui atti
vengono anch’essi presentati il 23. Argan e Zevi condividono la
difficile battaglia per la promozione dell’architettura moderna e
l’impegno antifascista. A dimostrarlo, il fatto che nel 1976, da poco
eletto sindaco di Roma, Argan affida a Zevi la prima commemorazione in
Campidoglio della razzia del 16 ottobre 1943 dal Ghetto di Roma. “Argan
in Campidoglio – così Zevi – implica il riscatto del movimento moderno,
dei suoi protagonisti, dei suoi martiri; compensa decenni di sconfitte,
di ingiustizie, di fame, cumuli interminabili di occasioni perdute e di
inenarrabili offese…”.
Pagine
Ebraiche novembre 2012
Il
sostegno ai giovani ricercatori e la riflessione sulla modernità
“... Io sono felice perché so che, in qualsiasi momento, sentendomi
mancare, posso rivolgermi a voi, dicendo: continua tu, tu, tu, tu”.
Bruno Zevi affermava così in un discorso tenuto a Modena nel 1997. E
proprio in questa frase si può rintracciare la chiave di volta della
Fondazione che porta il suo nome. Una realtà nata per onorarne la
memoria e ricordare il suo importante contributo di storico, critico e
pensatore con l’obiettivo di sostenere chi si dedica all’architettura e
all’arte. “Tra le iniziative che più ci stanno a cuore – spiega
Adachiara Zevi, presidente della Fondazione – c’è il premio annuale,
unico in Italia, dedicato ai dottori di ricerca. Assegnato da una
giuria internazionale, ogni volta diversa, consente ai premiati di
pubblicare il proprio saggio nella collana dedicata delle edizioni
della Fondazione e di tenere una conferenza sull’argomento in occasione
della premiazione”. “E’ una formula – continua – che consente a giovani
di grande valore di far conoscere il loro lavoro anche al di fuori dei
consueti circuiti accademico-editoriali e, soprattutto, si tratta di un
Premio frutto di un bando criticamente orientato verso una lettura
dell’architettura moderna, anti-classica, spaziale, sensibile al
paesaggio”. E guarda ai giovani anche Building the Future, il progetto
umanitario realizzato con il Comune di Roma ai tempi di Veltroni e
coordinato dall’American Jewish Joint Distribution Committee, che
assegna trenta borse di studio agli studenti disagiati della facoltà di
architettura dell’università di Addis Abeba.
La sede della Fondazione, in via Nomentana 150 a Roma, è aperta al
pubblico per la consultazione della biblioteca di Zevi, composta di
oltre quattromila volumi, il cui indice è consultabile on line. Dal
2006 è inoltre disponibile l’inventario analitico dell’archivio,
dichiarato di interesse storico dalla Soprintendenza archivistica del
Lazio che poi ha provveduto al suo riordino.
Dalla sua apertura, la Fondazione ha promosso tanti significativi
eventi culturali quali convegni, mostre, premi internazionali, borse di
studio, pubblicazioni. Tra queste ultime, accanto alla guida
all’architettura frugale, si segnala Una guida all’architettura moderna
dell’Eur, che a partire dall’incontro “Eur. Se Terragni avesse vinto
…”. Unica iniziativa organizzata a Roma per ricordare il centenario del
grande architetto comasco, racconta la storia del quartiere “come se”
Terragni e altri architetti moderni avessero vinto i concorsi del
1937-38. Nell’itinerario suggerito non si incontrano infatti i retorici
edifici simbolo del regime ma quelli da loro progettati e bocciati ai
concorsi. Una guida dalla parte dei vinti per porre in luce la grande
“occasione perduta” di un’ipotesi urbana moderna e integrata. “La
direzione da perseguire in futuro – commenta Adachiara Zevi – è anche
questa: una riflessione più approfondita sulla modernità e la sua
relazione con il contesto politico e culturale, come accaduto con
l’appello lanciato dalla Fondazione a favore della candidatura di Emma
Bonino a presidente della Regione Lazio”.
Pagine Ebraiche novembre 2012
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Qui Londra - L'Aron e
il gioco
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L’Aron del “Nord Italia”
(XVII-XVIII secolo) è sempre, a mio avviso, il pezzo forte della
collezione del Museo ebraico di Londra, anche nella più nuova sede di
Camden Town. Dopo averlo a lungo ammirato, la mia attenzione si è
volta, al piano di sopra, a un gioco interattivo dedicato al tema
dell’immigrazione degli ebrei dall’Est Europa in Gran Bretagna, tra il
1881 e il 1914. Tutto funziona come nel “gioco dell’oca”, ma le caselle
segnano la sorte del giocatore secondo motivazioni tipiche al mondo dei
migranti: “non hai il passaporto, sei rimasto fermo alla frontiera,
torna indietro di due caselle”; “soffri di mal di mare nel corso del
viaggio, torna indietro di una casella”, “giunto a Londra, ti hanno
rimandato indietro perché hai il colera: torna indietro di tre
caselle”. Ma, perché il gioco funzioni, si va anche avanti e, accanto
all’agognato traguardo, troviamo “hai incontrato un ufficiale del Jews’
Temporary Shelter (organizzazione assistenziale specifica) vai avanti
di una casella” “hai incontrato un parente che ti offre ospitalità, vai
avanti di due caselle”. Tramite vignette tipiche, ambientate a fine
Ottocento, i curatori del Jewish Museum alludono a situazioni
contemporanee, sollecitando la sensibilità del loro pubblico. Un’idea
cui potremmo ispirarci anche noi?
Myriam
Silvera
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Nugae - Rue des Rosiers
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Il bello di Parigi è che
ogni suo angolo custodisce un particolare che la rende unica al mondo,
oltre che così charmante. Non fa eccezione la famosa Rue des Rosiers.
Nel pieno del Marais, tutto fatto di stradine strette e piene di
adorabili negozietti, chi entra in Rue des Rosiers dal lato “sbagliato”
inizialmente rischia di non rendersi nemmeno conto di trovarsi nel
cuore pulsante del quartiere ebraico. Mancano l’odore di spezie, il
luccichio pacchiano dei portacandele di shabbat in vetrina e le
conversazioni rumorose. Ma soprattutto, dove sono i negozi di falafel?
Niente, solo boutiques chic e un po’ globalizzate, vasi con piante
curate e nulla che esca dall’ordinario. Ma c’è un punto precisissimo
dove le cose cambiano, quello in cui la strada si restringe,
trasformandosi in un vicoletto affollato. Non tutto d’un colpo, ci sono
prima dei segnali: una boulangerie che vicino ai macarons colorati
vende anche i rugelach, un ciondolino col magen david che fa capolino
nella vetrina di una gioielleria, un ottico che si chiama “Jonathan”. E
poi, continuando a camminare, ecco i primi ristoranti kasher, ecco
spuntare in ogni dove i tanto ricercati falafel, ecco i candelabri
argentati. E ancora, si iniziano a percepire stralci di conversazioni
telefoniche in ebraico e si incontra il giovane rabbino che litiga ad
alta voce col signore anziano che ha deciso di mettersi con la sua
seggiolina a distribuire un giornale proprio di fronte all’entrata del
suo centro sociale. Donne in gonna lunga insieme a turisti affamati
riempiono la via, challot enormi da guinnes dei primati si affacciano
sulle vetrine, il tutto in un tripudio di lettere ebraiche sulle
insegne e di profumi orientali. In un crescendo di dettagli, la
splendida Rue des Rosiers si rivela gradualmente.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche – twitter
@MatalonF
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Strategia della
latitanza |
Alle “primavere di bellezza”
seguono, in genere, gli autunni di malinconica aggressività. È così
nella vita di certe persone; lo è tanto più nel caso di quei popoli che
non trovano sbocco nelle loro richieste, vivendo un senso di impotenza
accompagnata al disincanto. E da questo punto di vista la cosiddetta
«primavera araba» rischia di rivelarsi, nella sua traiettoria, il
focolare di una radicalizzazione permanente. In molti l’avevano
predetto, perché avevano colto il problema di fondo, ossia che dinanzi
al permanere delle diseguaglianze economiche e sociali i cambi di
regime rischiano di avvantaggiare quelle forze che meglio sono
strutturate, in genere quelle non democratiche, tanto più in paesi dove
mai si è data una vera dialettica politica e, nel medesimo tempo, la
prassi laica - che separa i fatti del cielo da quelli della terra -, è
pressoché sconosciuta. Gli islamisti, variamente assortiti, spesso tra
di loro in mortifera competizione, sono tra coloro che si stanno
presentando all’incasso della cambiale firmata da quei popoli che hanno
rimesso in discussione le autocrazie. Il caso della Siria è solo
l’ultimo in ordine di successione. Nell’attuale scenario mediorientale,
dopo quasi due anni di sollevazioni, entrano tuttavia in gioco molti
fattori. Uno di questi è il comportamento degli Stati Uniti, variamente
giudicato, anche a seconda del grado di condiscendenza verso l’attuale
amministrazione, ma da diversi osservatori letto come incostante e
sostanzialmente deludente. Malgrado le dichiarazioni di principio di
Barack Obama, le aperture di credito al mondo arabo-musulmano,
l’indicazione della necessità di voltare pagina, al momento attuale, in
prossimità della conclusione del mandato dell’attuale presidenza, non è
ancora dato capire se la maggiore potenza mondiale abbia una strategia
e, con essa, quali siano le priorità che intende perseguire. Gli Usa
sono sembrati, in più di una occasione, al rimorchio delle circostanze,
subendo le mosse d’anticipo sia di global player, come la Cina e la
Russia, sia di attori locali, tra i quali gli stessi movimenti
islamisti. Che questi ultimi affollino la scena è fuori discussione.
Mentre è materia di confronto, sia in un’ottica strategica che
politica, il capire quale debba essere la risposta, caso per caso, da
dare ad essi, fermo restando che il loro radicamento, non solo in Medio
Oriente ma anche in parte del Sud-Est asiatico e nell’Africa
sub-sahariana, è una costante con la quale dovremo confrontarci di qui
ai prossimi lustri. Obama si è dovuto confrontare con l’inefficacia
della condotta unilaterale promossa in otto anni dall’amministrazione
di George W. Bush (le cui premesse si erano tuttavia già misurate negli
anni della presidenza Clinton, quando questi aveva deciso di affrontare
sia l’Iran che l’Iraq, superando la dottrina che diceva che per
smorzarne la forza occorreva mantenere l’uno contro l’altro). In
termini di risultati di lungo periodo la «lotta al terrorismo», per
come è stata condotta, non ha premiato gli americani, non almeno nella
misura in cui speravano potesse farlo. Non di meno, è stata tra i
fattori che hanno innescato una destabilizzazione degli equilibri
preesistenti al 2001, senza però riuscire ad andare al di là degli
auspici di nuovi assetti, che non trovando concrete opportunità non si
sono tradotti in percorsi di fatto. La contrapposizione diretta, come è
avvenuta con l’impegno militare in Afghanistan e in Iraq, è sempre meno
praticabile, sia politicamente che finanziariamente. A ciò si aggiunge
poi che gli alleati europei, già da tempo divisi tra di loro sul da
farsi e comunque accomunati dallo scetticismo sulla condotta
statunitense, oggi non sarebbero nelle condizioni di rispondere a nuovi
appelli alla partecipazione ad attività militari congiunte. Dal 2008,
quindi, l’amministrazione democratica, alle prese anche con gli effetti
sempre più impegnativi della crisi finanziaria, immobiliare e poi
economica, ha dovuto faticosamente provvedere ad una sorta di ridisegno
dell’agenda delle priorità. Lo ha fatto con scarsa coerenza e con
ancora minore intelligibilità, assecondando perlopiù le suggestioni del
momento. Da un lato ha cercato di recuperare forze disimpegnandosi, in
maniera possibilmente non plateale, da alcuni teatri di crisi e non
assumendo altri oneri; dall’altro ha virato verso l’Asia continentale e
orientale, lasciando il dossier mediorientale in standby. Dopo di che,
ed è questo un inghippo per gli Usa, il Medio Oriente e il Mediterraneo
(quest’ultimo a sua volta abbandonato a sé) sono imprescindibili per
qualsiasi presidenza. Non si possono giocare sul tavolo dei dadi, come
una sorta di dote superflua, poiché se li si dovesse perdere per
Washington sarebbe messo in discussione il soddisfacimento di quelle
che sono esigenze imprescindibili. Nel caso specifico esse si
riconducono a quattro elementi: l’accesso, a regime di libero mercato,
alle riserve di idrocarburi e di gas naturali; la continuità della
dinastia saudita, garante degli attuali equilibri in campo petrolifero;
la libera navigazione nei mari; la sicurezza di Israele (un concetto,
quest’ultimo, che ha tuttavia subito mutamenti significativi). Sono
quattro target indispensabili ma al contempo troppo onerosi.
L’alternativa è stata quindi offerta dalla condotta di bilanciamento
locale, che si dà quando una superpotenza non interviene direttamente
ma affida ad alleati presenti sul campo (o ad organizzazioni
multilaterali) l’onere di mantenere gli equilibri. Obama lo ha fatto
per l’Egitto, in Libia e lo sta tentando con la Siria, senza parlare di
altre realtà per così dire “minori”. Più in generale il tutto si è
tradotto in una apertura di credito verso le organizzazioni islamiste
ritenute meno radicali, potenziali interlocutrici di Washington (ma non
sue alleate), destinate a garantirne una parte degli interessi senza
creare troppi svantaggi: Ennahda in Tunisia, il Partito della giustizia
e della libertà in Marocco, i Fratelli musulmani in Egitto. Si tratta
di una strategia del contenimento del danno. Al Cairo il presidente
americano ha quindi lasciato che fosse l’esercito, la vera spina
dorsale del paese, a prendere il pieno controllo della situazione. A
Tripoli è stata la Nato ad assumersi questo impegno. In Siria si sta
indagando su una qualche partnership, dovendo però fare i conti sia con
la Russia di Putin che con l’enfatico ottomanismo di Erdogan, che
attribuisce alla Turchia un ruolo strategico in tutto il Mediterraneo
di contro alle mire saudite. In tutti e tre i casi i risultati si sono
comunque rivelati insoddisfacenti: in Egitto la situazione è precaria e
la speranza è che tra salafiti e Fratelli musulmani le tensioni
polarizzino a tempo indeterminato il quadro politico; in Libia il
trapasso si è consumato, in quanto regolamento di conti tra clan
locali, in modo tale da rivelare anche l’inefficienza della Nato e la
conclamata recalcitranza degli europei; in Siria il gioco perverso
dell’inside war proseguirà fino a che Mosca lo vorrà. Il quadro
regionale che ne viene fuori è assai poco promettente. L’Unione Europea
si è rivelata non solo fiacca ma per nulla interessata a interagire con
gli Stati Uniti. Peraltro le istituzioni continentali hanno rivelato la
loro piena sudditanza rispetto al calcolo di interessi di francesi,
tedeschi e inglesi, i tre soggetti decisivi per una qualche politica
europea del Mediterraneo. (Dell’Italia è meglio non parlare, stendendo
semmai un velo pietoso.) Passo dopo passo si è quindi transitati, in
vent’anni, da assetti basati su un monopolarismo statunitense,
irrobustito da alleanze ad hoc con i poteri locali, ad una situazione
di estrema frammentazione. Soprattutto, rischia oggi di sfarinarsi la
tattica dell’apertura agli islamisti “moderati”. Che tali spesso si
rivelano non essere. In Egitto non è nata nessuna alleanza tra militari
e liberali. Piuttosto la Fratellanza musulmana ha eliminato, con il
concorso di una giovane generazione di generali, il vecchio gruppo di
potere del feldmaresciallo Tantawi. In Tunisia dall’anno in corso
Ennahda, morsa ai fianchi, ha iniziato una rincorsa verso il
fondamentalismo. In Libia il separatismo tribale e il secessionismo
delle tre regioni storiche potrebbe paradossalmente trovare un limite
solo nella risposta jihadista, che tuttavia guarda all’Africa
sub-sahariana, a partire del Mali, dalla Nigeria e dal Sudan, per
adoperarsi nella destabilizzazione anticristiana. Qual è lo spazio di
azione per il prossimo presidente statunitense? Molto poco, ad onore
del vero. Rimane il fatto che alcune forze politiche della regione sono
ora al governo in virtù delle elezioni, seguite ai tumulti e ai
rovesciamenti di regime. La qual cosa indica che i giochi potrebbero
essere più aperti di quanto non si voglia pensare. Poiché l’elemento
che le sollevazioni collettive hanno introdotto stabilmente nei quadri
politici nazionali è la stanchezza di una parte della popolazione che
chiede prospettive certe e non nuove guerre. Sapranno gli Stati Uniti
degli anni a venire superare l’impasse? Forse bisogna guardare al
Pacifico più che all’Atlantico per iniziare a formulare qualche
previsione.
Claudio
Vercelli
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Sorgente
di vita - Speciale sull'attentato
del 9 ottobre 1982
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la rassegna |
La cerimonia alla sinagoga
di Roma, alla presenza del presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano e delle massime cariche dello Stato, in
ricordo dell’ attentato del 9 ottobre 1982. (...)
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Gli archivi del Museo della
Liberazione di via Tasso si arricchiscono con materiale e documenti
inediti sulla barbarie nazifascista a Roma.
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