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L’inferno siriano e
l’indifferenza dei benpensanti |
Dove
va la Siria? O forse sarebbe meglio chiedersi dove vanno i siriani.
Poiché da quando la guerra intestina al paese è iniziata, ovvero da ben
ventuno mesi, come velenosissimo sviluppo della «primavera araba», i
risultati sono tragici: più di mezzo milione di abitanti del paese (ma
le fonti sono incerte, affidate all’empiria del caso, capaci quindi di
dare solo la dimensione di grandezza del dramma in corso, non i numeri
esatti) lo hanno abbandonato, perlopiù come profughi, riversandosi in
fuga negli Stati limitrofi: la Turchia, in parte molto più limitata il
Libano, l’Iraq e la Giordania. E tuttavia la diaspora è assai più
ampia, avendo coinvolto da subito le famiglie più abbienti, che hanno
spostato i propri averi e i loro congiunti oltre il Mediterraneo, ed
essendo poi arrivata ad interessare anche quella parte di popolazione
maggiormente coinvolta negli epicentri degli scontri. Altre stime,
infatti, conteggiano in un milione e mezzo il numero di siriani che
vanno considerati come sfollati interni, ossia che hanno lasciato i
luoghi di origine pur rimanendo dentro i confini nazionali. La
popolazione totale, per intendersi, al 2011 ammontava a oltre 20
milioni e mezzo di individui. Si parla anche con grande preoccupazione
dell’arsenale di armi chimiche e del suo possibile uso. Non sarebbe una
novità, nel qual caso. Rimane tuttavia il fatto che tutto, in queste
settimane, sembra essere avvolto nell’incertezza, benché la diplomazia,
tra cui quella israeliana (quest’ultima in accordo con quella
giordana), stia alacremente lavorando per una via d’uscita di cui,
però, al momento non c’è ancora una chiara traccia. La questione, va da
sé, è di capire come e quando la famiglia Assad mollerà la presa. Da
dove trae origine una situazione che, i più lo riconoscono, non potrà
essere risolta sul campo, con la prevalenza militare di uno dei due
contendenti, ma che chiama in causa una pluralità di interessi e di
attori? La contrapposizione violenta nasce nel marzo del 2011, quando
le prime manifestazioni di protesta degenerano ben presto in scontri
tra le forze di sicurezza del regime e gli oppositori. La motivazione
che Bashir al-Assad e i suoi uomini adducono dinanzi alla comunità
internazionale per motivare la repressione è che le domande provenienti
dai manifestanti, tutte volte a chiedere maggiori libertà e un netto e
incontrovertibile percorso di riforme politiche e civili, siano in
realtà solo un pretesto dietro al quale si celerebbe la volontà di
creare uno Stato islamico al posto dell’autocrazia laica a tutt’oggi
vigente. In realtà il gruppo di potere alauita non era stato del tutto
indifferente all’evolversi della situazione mediterranea e
mediorientale dopo le prime rivolte in Tunisia e in Egitto. Nel
febbraio del 2011, cercando di anticipare la prevedibile evoluzione
degli eventi, Assad aveva infatti pubblicamente parlato della necessità
di procedere ad una revisione generale di alcuni aspetti del regime
dispotico del quale è, a tutt’oggi, il maggiore esponente. Va da sé che
lo facesse per assestarsi e non certo per dare avvio ad un processo di
liberalizzazione politica, temendo altrimenti di essere prima o poi
detronizzato. Nel paese dal 1962 vige infatti lo stato d’emergenza
(motivato dalla perdurante guerra con Israele) che, pur non sopprimendo
formalmente gli istituti della libera dialettica politica, di fatto
vincola aprioristicamente la totalità delle espressioni della volontà
collettiva, legandole mani e piedi agli interessi dell’autocrazia.
Esiste un unico partito legale, il Ba’ath, che è tuttavia più una
figura retorica, una foglia di fico che non un organismo effettivamente
operante, mentre attraverso i colpi di Stato del 1963, del 1966 e del
1970 (veri e propri “aggiustamenti” interni al potere) la famiglia
Assad, espressione clanica del gruppo alauita, setta scissionista
dell’Islam sciita (pari a meno del 10% della popolazione nazionale), ha
consolidato il proprio predominio. Il quale non è più stato messo in
discussione, neanche durante la sollevazione della città di Hama nel
1982, quando i musulmani sunniti si ribellarono a Hafez al-Assad, il
padre di Bashir, subendone la violenta e sanguinosa vendetta, che causò
tra i diecimila e i quarantamila morti. La Siria rimase ai margini
della stagione negoziale intercorsa tra gli israeliani e i palestinesi
durante gli anni Novanta, lasciando che a ricavarne il maggiore
usufrutto politico fossero paesi come l’Egitto e la Giordania. Anche
dinanzi alla disponibilità, da parte di Gerusalemme, di una soluzione
definitiva della questione relativa alle alture del Golan, nel quadro
però di una conclusione permanente (e senza reticenze residue) del
confronto militare tra i due paesi, la scelta di Hafez al-Assad fu
quella di alimentare, come già aveva fatto precedentemente, l’allora
fronte del rifiuto. Da un punto di vista geopolitico per Damasco questa
opzione doveva risultare la maggiormente premiante in quegli anni
poiché la negoziazione con Israele delle questioni aperte tra i due
Stati avrebbe implicato un ridimensionamento del proprio ruolo nel
Libano, considerato a tutt’oggi un’estensione della «grande Siria», la
“normalizzazione” dello status dei profughi palestinesi e, soprattutto,
una ridefinizione della propria fisionomia interna e in politica
mediorientale. La qual cosa avrebbe implicato, plausibilmente, lo
sfaldamento progressivo del regime, quanto meno in prospettiva. Quando
nel 1999 il potere passò a Bashir al-Assad, ci fu uno strascico
violento dovuto a lotte interne alla famiglia, soprattutto a causa
dell’eterna rivalità che intercorrente tra Hafez (morto poi l’anno
successivo) e il fratello minore Rifa’at. Di fatto questi sommovimenti
non produssero nessun effetto se non quello di segnalare le tensione,
da sempre presenti all’interno degli apparati di potere siriano, tra
“linee dinastiche” concorrenti. Anche quando nel 2004 i curdi, una
diaspora perlopiù dimenticata dall’Occidente, che abitano nelle regioni
settentrionali della Siria, manifestarono per la loro autonomia – ed in
previsione di un proprio libero Stato – la repressione tacitò
celermente il dissenso che andava lievitando. Arrivata sulla soglia
della «primavera araba» Damasco sembrava quindi vivere sonni
relativamente tranquilli. Ma si trattava di un’impressione errata,
ossia di un riscontro fallace e illusorio. Bashar al-Assad, come già si
diceva, ha cercato quindi di fare fronte ai possibili sussulti ma la
cosa non gli è riuscita. Se nel febbraio del 2011 le manifestazioni
erano ancora state timide, e nessuna forza di opposizione sembrava in
grado di guidare e monopolizzare la protesta, già un mese dopo le cose
erano andate mutando. Gli scontri di piazza, infatti, da asfittici
quali erano in origine, hanno ben presto assunto proporzioni
consistenti, così come la loro violenta repressione da parte dei fidati
servizi di sicurezza, legati a doppio filo al clan alauita. Le città
che sono state interessate e quindi coinvolte nelle mobilitazioni di
piazza si sono moltiplicate nel corso del tempo, partendo da Dara’a,
nel sud del paese, passando poi per Tafas, Nawa, Jassem, Buqata,
Sanamayn, per l’ala litoranea mediterranea con Tartus, Latakia e
Baniyas, estendendosi quindi a Hama, Homs, Aleppo, la stessa Damasco
(in alcuni quartieri) fino alla regione centro-settentrionale con
Ar-Raqqah, Deir ez-Zour, al-Hasakah e al-Qamishli. Nella primavera del
2011 inizia peraltro una esasperata rincorsa tra il susseguirsi delle
sollevazioni popolari e le vacue promesse del regime («lotta alla
corruzione», «incremento dei salari», «libero accesso al web» e così
via), che se da un lato accusa la televisione al-Jaazera, e non meglio
identificati «interessi stranieri», di essere all’origine dei moti,
dall’altro esplicita una pallida volontà di autoriforma. Non ne viene
fuori nulla, di fatto, poiché il sistema di potere alauita è
completamente ripiegato su di sé al punto tale da non presentare
margini di manovra al proprio interno. La presenza dei Fratelli
musulmani, con il vento in poppa per i risultati ottenuti nella
manipolazione della protesta egiziana, diventa così, passo dopo passo,
uno dei fattori dirimenti del conflitto in corso. Se Damasco picchia
sempre più duro, arrestando, uccidendo e poi deliberatamente
massacrando una parte della propria popolazione, non meno che
fomentando la volontà di rivalsa sunnita, l’organizzazione islamica
diventa l’architrave dell’opposizione, sempre più spesso armata.
Nell’autunno del 2011 il conflitto infra-siriano ha infatti assunto la
natura di vero e proprio confronto tra forze armate contrapposte. Dalla
parte di quelle che sono andati strutturandosi e riconoscendosi come
forze ribelli gioca il “misericordioso aiuto” di Arabia Saudita, Qatar,
Turchia ma anche Giordania: sono paesi che, vuoi per calcoli
geostrategici vuoi per assicurarsi una successione non troppo
sfavorevole a sé, iniziano a rifornire di armi e strumentazione
logistica gli insorgenti. L’obiettivo comune è quello di isolare l’Iran
che, invece, insieme alla Russia, è il patrocinatore degli Assad. I
quali, detto per inciso, fino ad oggi hanno retto grazie alle generose
sovvenzioni e ai corposi sostegni economici e militari di coloro che
siedono, per l’appunto, tra Teheran e Mosca. In realtà un punto di
debolezza degli oppositori rimane l’estrema eterogeneità delle forze
che si riconoscono nel Consiglio nazionale siriano, l’organismo
istituito nella seconda metà nel 2011 come entità politica in esilio ed
operante, dalla Turchia, in qualità di struttura di coordinamento delle
forze ribelli. Gli appetiti sul paese sono molti e difficilmente
conciliabili. Finché l’obiettivo tattico, quello del ridimensionamento
del ruolo degli iraniani nella regione, continuerà ad essere praticato,
prevalendo su qualsiasi altra considerazione, allora l’apparente unità
d’azione rimarrà preservata. Ma il giorno in cui gli Assad dovessero
crollare, fatto che prima o poi succederà, senz’altro in concomitanza
con l’attenuazione del sostegno russo, è plausibile che i troppi
interessi in gioco emergano, innescando spinte centrifughe e
spezzettamenti livorosi tra gli attuali alleati anti-Assad. La presenza
salafita, ossia dell’Islam radicale, con alcuni spezzoni più o meno
dichiarati di alqaedisti, costituisce in tal senso un’ipoteca
inquietante. Intanto, dal febbraio del 2011 ad oggi, i morti nel paese
si calcola che siano stati non meno di quarantacinquemila (secondo
altre fonti, computando insieme civili e militari, si arriva alla cifra
di settantamila). A questo punto una nota si impone, prima ancora che
come elemento polemico in quanto fatto oggettivo: non una parola, da
parte della galassia pacifista, soprattutto di quella italiana, è
giunta su quanto si sta consumando in Siria. Se le cifre, sia pure
nella loro incertezza, ci arrivano, al di là dei filtri delle
contrapposte propagande di regime e dell’opposizione, ciò è dovuto alle
Nazioni Unite e a fonti indipendenti, che lavorano, a proprio rischio,
in mezzo alle rovine. Difficile prendere parte, per chi invece crede di
avere la verità in tasca, per una delle due fazioni. Ancora più
difficile, quindi, fingere di essere i portatori di una idea
immacolata. Ci sono i morti che pesano come montagne e quelli che
pesano come piume, avrebbe detto il filosofo. Non è una guerra per
“benpensanti” il conflitto in corso in quei luoghi.
Claudio
Vercelli
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Le Religioni che
sfidano il conformismo sui Gay |
Nel XVIII secolo, nella sua
battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti
complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese,
destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese
certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un
suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante
pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione
mosaica.
Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto
perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto
occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un
percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad
integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere
dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo
qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa
d'ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito
occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso
fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza
andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso —
bisogna dirlo — con il tacito assenso di molta intellighenzia d'origine
ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea —
bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» — che in fin dei conti
l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così
diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo!
Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi
che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a
non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai
menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità
dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra
omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse
disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il
risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente
presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica
sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica
qualifica come «reazionarie».
A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio
sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami
teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il
cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante
documento di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di
Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale,
omoparentalità e adozione».
Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi
abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei
diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una
confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito
dell'interesse generale e a vantaggio di quello di un'infima
minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di
vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti
abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall'esigenza
della protezione giuridica del potenziale congiunto, all'importanza del
volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti
coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una
donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che
giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di una coppia
omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le
strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di
sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che
differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi
rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell'amore e
dell'unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù
della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la
madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di
una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da
sempre, e per sempre, ciò che costituisce l'umano è una parola in un
corpo sessuato e in una genealogia».
Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti
omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello
asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene
che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio:
«la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente
per ottenere il diritto all'adozione. Il bambino, sottolinea, non è un
oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio
implica una strumentalizzazione inaccettabile».
Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui
opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere
un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran
Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la
complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del
giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La
dualità dei sessi — egli scrive — appartiene alla costruzione
antropologica dell'umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno
della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere
autosufficiente, di rappresentare tutto l'umano, dal momento che con
ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».
Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette
da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di
recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran
Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del
cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in
gioco in questo caso — vale a dire le basi stesse della società in cui
vogliamo vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti,
l'alleanza dell'uomo e della donna nell'istituzione chiamata a regolare
la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in
modo irreversibile tale successione — nel momento in cui fanno ciò,
sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas
circa l'importanza che ha e deve avere il punto di vista della
religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di
vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere — da parte di tutti,
credenti e non credenti, di ogni persona libera — ciò che queste
società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura
che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più
profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.
Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè
quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con
coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità
convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità
autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far
sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello
che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione
particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro
ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate,
dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando
etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono
sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle
appartenenze. Dove — in specie quando si tratta di certe questioni —
non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare
del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla
pubblica esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi
piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.
Ernesto
Galli Della Loggia, Corriere della Sera, 30 dicembre 2012
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Nugae - Sfide
linguistiche
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Cosa spinga alcuni uomini a
compiere certe imprese semi impossibili, e per giunta dall’utilità
discutibile, a volte è un mistero. Appartengono sicuramente a
questa categoria due fatiche di cui hanno parlato i giornali la scorsa
settimana, entrambe relative all’uso del linguaggio. La prima è una
storia raccontata in un lungo articolo sul New Yorker da Joshua Foer,
giornalista e scrittore fratello piccolo di Jonathan Safran Foer. Si
parla di John Quijada, di mestiere impiegato statale in California, nel
tempo libero inventore dell’Ithkuil, una lingua completamente
artificiale il cui scopo è ottenere la massima precisione ma essendo
anche il più possibile concisi, eliminando così tutti i difetti delle
lingue naturali. Il suo sito, portato a termine nel
2011, documenta la grammatica, la sintassi e il lessico di ben
seimila
stranissime voci. Numero attuale di parlanti? Uno, naturalmente.
L’altra notizia riguarda invece l’uscita nelle librerie, proprio in
questi giorni in cui esce anche al cinema, di una traduzione in yiddish
de Lo hobbit di J. R. Tolkien. I lettori di
quest’opera probabilmente non saranno molti di più di quelli di Harry
Potter in latino, ma il curatore Barry Goldstein ha già reso noto di
non avere nessuna intenzione di fermarsi, e così ora il mondo attende
con ansia anche la versione yiddish della trilogia del Signore degli
anelli. Quello che però sorprende di più è come sia possibile che le
sfide linguistiche di oggi evidenzino tendenze così opposte fra loro.
Perché mentre uno passa trent’anni della sua vita a inventare
un’impronunciabile lingua del futuro c’è qualcun altro che decide di
tradurre una serie di lunghissimi fantasy in una lingua che pochi,
probabilmente nemmeno interessati al genere, ricordano ancora. Come
riescono a convivere la ricerca smaniosa di innovazione e questo
attaccarsi un po’ disperatamente al passato? Due diverse forme di
follia, d’accordo. Ma per una romantica studentessa di lettere che si
emoziona di fronte alle infinite possibilità che la parola offre, in
realtà la risposta migliore è quella di Joshua Foer: “La creazione
linguistica è perseguita da persone che sono talmente innamorate di
quello che il linguaggio può fare che odiano ciò che non può fare”.
Francesca
Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF
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notizieflash |
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rassegna
stampa |
Calcio
- Addio a Emanuel Sheffer
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Leggi la rassegna |
La Federcalcio israeliana in una nota stampa ha reso omaggio a Emanuel
Sheffer, allenatore della nazionale che partecipò ai Mondiali di
Messico 1970, morto a 88 anni."E' stato il più grande allenatore di
Israele e la sua influenza sul gioco e lo sviluppo del calcio nel
nostro paese è stato decisivo" si legge nella nota della Federcalcio.
Di origine tedesca, Sheffer aveva guidato Israele anche ai quarti di
finale del torneo olimpico di Città del Messico nel 1968.
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Al via i lavori del Museo della Shoah. La notizia annunciata venerdì,
appare su molti quotidiani [...]
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
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