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  30 dicembre 2012 - 17 Tevet 5773
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav

Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino


"E Jehudà si avvicinò.....". La ricomposizione dei conflitti passa per la capacità di riavvcinarsi, per il superamento dei motivi di contrasto (spesso gratuiti). E questo si ottiene parlando ed ascoltando.

David Bidussa, storico sociale
delle idee
   

Non ci siamo molto scaldati né per le parole contro le donne comparse a Lerici né per gli atti contro le donne che ormai da settimane si ripetono in India. Non dico solo nell’opinione pubblica intorno a noi, ma anche qui, fra noi. Non so perché, ma mi piacerebbe scoprirlo. Al fondo, con molta incertezza e molto timore, ho anche paura di scoprirlo.
 
davar
Qui Torino - Moked.it apre una finestra sulla città
La realtà ebraica torinese può contare su un sito tutto nuovo all'interno del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it Il sito a disposizione degli utenti del Portale www.moked.it/torinoebraica si affianca così al sito istituzionale della Comunità ebraica di Torino www.torinoebraica.it e contiene notizie e approfondimenti elaboratori dalla redazione del Portale dell'ebraismo italiano, del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche, del giornale di cronache comunitarie Italia Ebraica. L'area dedicata a Torino arricchisce il quadro del Portale italiano moked.it, un progetto ambizioso portato avanti passo passo, da un lungo periodo. Così dopo Mantova, Trieste, Livorno, Firenze, Genova, Vercelli, Casale Monferrato, Padova, Parma e Verona, anche sul sito di Torino sarà possibile leggere momenti di vita, appuntamenti, notizie sulla Comunità. Un importante strumento di diffusione di conoscenza ed una grande vetrina che contribuirà a rafforzare il filo che lega tutte le Comunità italiane dalle più grandi alle più piccole. Sulla Home page appare attualmente il video del nuovo ristorante casher appena aperto nel capoluogo piemontese e la fotonotizia della  troupe della tv statale israeliana  Arutz 1, venuta a realizzare un documentario nell’ambito del progetto “Kehillot madlikot” finalizzato a illustrare vita e caratteristiche di sette diverse Comunità ebraiche nel mondo, ma soprattutto contributi di firme prestigiose come Alberto Cavaglion, Anna Segre, Mario Avagliano e del rav Alberto Somekh e ancora, notizie sulla vita comunitaria: la Giunta alle prese con l'approvazione del bilancio preventivo, ma anche quelle sulla nuova compagnia ferroviaria che collega Torino al resto della rete ad alta velocità dai primi di dicembre e quelle sulla Batsheva Dance Company, che ha portato il formidabile ensemble israeliano ad esibirsi a Romaeuropa e Torinodanza, fra i maggiori festival culturali del nostro paese. Si apre, insomma, una nuova finestra sull'ebraismo italiano, un panorama nuovo e in molti casi sconosciuto che dimostra che non sono i numeri a fare la quantità ma le persone, il desiderio di crescere, di farsi conoscere entrando a far parte di mosaico che unisce, nella loro diversità e nella loro ricchezza di sfumature, tutte le Comunità ebraiche italiane.

Lucilla Efrati

pilpul
L’inferno siriano e l’indifferenza dei benpensanti
Dove va la Siria? O forse sarebbe meglio chiedersi dove vanno i siriani. Poiché da quando la guerra intestina al paese è iniziata, ovvero da ben ventuno mesi, come velenosissimo sviluppo della «primavera araba», i risultati sono tragici: più di mezzo milione di abitanti del paese (ma le fonti sono incerte, affidate all’empiria del caso, capaci quindi di dare solo la dimensione di grandezza del dramma in corso, non i numeri esatti) lo hanno abbandonato, perlopiù come profughi, riversandosi in fuga negli Stati limitrofi: la Turchia, in parte molto più limitata il Libano, l’Iraq e la Giordania. E tuttavia la diaspora è assai più ampia, avendo coinvolto da subito le famiglie più abbienti, che hanno spostato i propri averi e i loro congiunti oltre il Mediterraneo, ed essendo poi arrivata ad interessare anche quella parte di popolazione maggiormente coinvolta negli epicentri degli scontri. Altre stime, infatti, conteggiano in un milione e mezzo il numero di siriani che vanno considerati come sfollati interni, ossia che hanno lasciato i luoghi di origine pur rimanendo dentro i confini nazionali. La popolazione totale, per intendersi, al 2011 ammontava a oltre 20 milioni e mezzo di individui. Si parla anche con grande preoccupazione dell’arsenale di armi chimiche e del suo possibile uso. Non sarebbe una novità, nel qual caso. Rimane tuttavia il fatto che tutto, in queste settimane, sembra essere avvolto nell’incertezza, benché la diplomazia, tra cui quella israeliana (quest’ultima in accordo con quella giordana), stia alacremente lavorando per una via d’uscita di cui, però, al momento non c’è ancora una chiara traccia. La questione, va da sé, è di capire come e quando la famiglia Assad mollerà la presa. Da dove trae origine una situazione che, i più lo riconoscono, non potrà essere risolta sul campo, con la prevalenza militare di uno dei due contendenti, ma che chiama in causa una pluralità di interessi e di attori? La contrapposizione violenta nasce nel marzo del 2011, quando le prime manifestazioni di protesta degenerano ben presto in scontri tra le forze di sicurezza del regime e gli oppositori. La motivazione che Bashir al-Assad e i suoi uomini adducono dinanzi alla comunità internazionale per motivare la repressione è che le domande provenienti dai manifestanti, tutte volte a chiedere maggiori libertà e un netto e incontrovertibile percorso di riforme politiche e civili, siano in realtà solo un pretesto dietro al quale si celerebbe la volontà di creare uno Stato islamico al posto dell’autocrazia laica a tutt’oggi vigente. In realtà il gruppo di potere alauita non era stato del tutto indifferente all’evolversi della situazione mediterranea e mediorientale dopo le prime rivolte in Tunisia e in Egitto. Nel febbraio del 2011, cercando di anticipare la prevedibile evoluzione degli eventi, Assad aveva infatti pubblicamente parlato della necessità di procedere ad una revisione generale di alcuni aspetti del regime dispotico del quale è, a tutt’oggi, il maggiore esponente. Va da sé che lo facesse per assestarsi e non certo per dare avvio ad un processo di liberalizzazione politica, temendo altrimenti di essere prima o poi detronizzato. Nel paese dal 1962 vige infatti lo stato d’emergenza (motivato dalla perdurante guerra con Israele) che, pur non sopprimendo formalmente gli istituti della libera dialettica politica, di fatto vincola aprioristicamente la totalità delle espressioni della volontà collettiva, legandole mani e piedi agli interessi dell’autocrazia. Esiste un unico partito legale, il Ba’ath, che è tuttavia più una figura retorica, una foglia di fico che non un organismo effettivamente operante, mentre attraverso i colpi di Stato del 1963, del 1966 e del 1970 (veri e propri “aggiustamenti” interni al potere) la famiglia Assad, espressione clanica del gruppo alauita, setta scissionista dell’Islam sciita (pari a meno del 10% della popolazione nazionale), ha consolidato il proprio predominio. Il quale non è più stato messo in discussione, neanche durante la sollevazione della città di Hama nel 1982, quando i musulmani sunniti si ribellarono a Hafez al-Assad, il padre di Bashir, subendone la violenta e sanguinosa vendetta, che causò tra i diecimila e i quarantamila morti. La Siria rimase ai margini della stagione negoziale intercorsa tra gli israeliani e i palestinesi durante gli anni Novanta, lasciando che a ricavarne il maggiore usufrutto politico fossero paesi come l’Egitto e la Giordania. Anche dinanzi alla disponibilità, da parte di Gerusalemme, di una soluzione definitiva della questione relativa alle alture del Golan, nel quadro però di una conclusione permanente (e senza reticenze residue) del confronto militare tra i due paesi, la scelta di Hafez al-Assad fu quella di alimentare, come già aveva fatto precedentemente, l’allora fronte del rifiuto. Da un punto di vista geopolitico per Damasco questa opzione doveva risultare la maggiormente premiante in quegli anni poiché la negoziazione con Israele delle questioni aperte tra i due Stati avrebbe implicato un ridimensionamento del proprio ruolo nel Libano, considerato a tutt’oggi un’estensione della «grande Siria», la “normalizzazione” dello status dei profughi palestinesi e, soprattutto, una ridefinizione della propria fisionomia interna e in politica mediorientale. La qual cosa avrebbe implicato, plausibilmente, lo sfaldamento progressivo del regime, quanto meno in prospettiva. Quando nel 1999 il potere passò a Bashir al-Assad, ci fu uno strascico violento dovuto a lotte interne alla famiglia, soprattutto a causa dell’eterna rivalità che intercorrente tra Hafez (morto poi l’anno successivo) e il fratello minore Rifa’at. Di fatto questi sommovimenti non produssero nessun effetto se non quello di segnalare le tensione, da sempre presenti all’interno degli apparati di potere siriano, tra “linee dinastiche” concorrenti. Anche quando nel 2004 i curdi, una diaspora perlopiù dimenticata dall’Occidente, che abitano nelle regioni settentrionali della Siria, manifestarono per la loro autonomia – ed in previsione di un proprio libero Stato – la repressione tacitò celermente il dissenso che andava lievitando. Arrivata sulla soglia della «primavera araba» Damasco sembrava quindi vivere sonni relativamente tranquilli. Ma si trattava di un’impressione errata, ossia di un riscontro fallace e illusorio. Bashar al-Assad, come già si diceva, ha cercato quindi di fare fronte ai possibili sussulti ma la cosa non gli è riuscita. Se nel febbraio del 2011 le manifestazioni erano ancora state timide, e nessuna forza di opposizione sembrava in grado di guidare e monopolizzare la protesta, già un mese dopo le cose erano andate mutando. Gli scontri di piazza, infatti, da asfittici quali erano in origine, hanno ben presto assunto proporzioni consistenti, così come la loro violenta repressione da parte dei fidati servizi di sicurezza, legati a doppio filo al clan alauita. Le città che sono state interessate e quindi coinvolte nelle mobilitazioni di piazza si sono moltiplicate nel corso del tempo, partendo da Dara’a, nel sud del paese, passando poi per Tafas, Nawa, Jassem, Buqata, Sanamayn, per l’ala litoranea mediterranea con Tartus, Latakia e Baniyas, estendendosi quindi a Hama, Homs, Aleppo, la stessa Damasco (in alcuni quartieri) fino alla regione centro-settentrionale con Ar-Raqqah, Deir ez-Zour, al-Hasakah e al-Qamishli. Nella primavera del 2011 inizia peraltro una esasperata rincorsa tra il susseguirsi delle sollevazioni popolari e le vacue promesse del regime («lotta alla corruzione», «incremento dei salari», «libero accesso al web» e così via), che se da un lato accusa la televisione al-Jaazera, e non meglio identificati «interessi stranieri», di essere all’origine dei moti, dall’altro esplicita una pallida volontà di autoriforma. Non ne viene fuori nulla, di fatto, poiché il sistema di potere alauita è completamente ripiegato su di sé al punto tale da non presentare margini di manovra al proprio interno. La presenza dei Fratelli musulmani, con il vento in poppa per i risultati ottenuti nella manipolazione della protesta egiziana, diventa così, passo dopo passo, uno dei fattori dirimenti del conflitto in corso. Se Damasco picchia sempre più duro, arrestando, uccidendo e poi deliberatamente massacrando una parte della propria popolazione, non meno che fomentando la volontà di rivalsa sunnita, l’organizzazione islamica diventa l’architrave dell’opposizione, sempre più spesso armata. Nell’autunno del 2011 il conflitto infra-siriano ha infatti assunto la natura di vero e proprio confronto tra forze armate contrapposte. Dalla parte di quelle che sono andati strutturandosi e riconoscendosi come forze ribelli gioca il “misericordioso aiuto” di Arabia Saudita, Qatar, Turchia ma anche Giordania: sono paesi che, vuoi per calcoli geostrategici vuoi per assicurarsi una successione non troppo sfavorevole a sé, iniziano a rifornire di armi e strumentazione logistica gli insorgenti. L’obiettivo comune è quello di isolare l’Iran che, invece, insieme alla Russia, è il patrocinatore degli Assad. I quali, detto per inciso, fino ad oggi hanno retto grazie alle generose sovvenzioni e ai corposi sostegni economici e militari di coloro che siedono, per l’appunto, tra Teheran e Mosca. In realtà un punto di debolezza degli oppositori rimane l’estrema eterogeneità delle forze che si riconoscono nel Consiglio nazionale siriano, l’organismo istituito nella seconda metà nel 2011 come entità politica in esilio ed operante, dalla Turchia, in qualità di struttura di coordinamento delle forze ribelli. Gli appetiti sul paese sono molti e difficilmente conciliabili. Finché l’obiettivo tattico, quello del ridimensionamento del ruolo degli iraniani nella regione, continuerà ad essere praticato, prevalendo su qualsiasi altra considerazione, allora l’apparente unità d’azione rimarrà preservata. Ma il giorno in cui gli Assad dovessero crollare, fatto che prima o poi succederà, senz’altro in concomitanza con l’attenuazione del sostegno russo, è plausibile che i troppi interessi in gioco emergano, innescando spinte centrifughe e spezzettamenti livorosi tra gli attuali alleati anti-Assad. La presenza salafita, ossia dell’Islam radicale, con alcuni spezzoni più o meno dichiarati di alqaedisti, costituisce in tal senso un’ipoteca inquietante. Intanto, dal febbraio del 2011 ad oggi, i morti nel paese si calcola che siano stati non meno di quarantacinquemila (secondo altre fonti, computando insieme civili e militari, si arriva alla cifra di settantamila). A questo punto una nota si impone, prima ancora che come elemento polemico in quanto fatto oggettivo: non una parola, da parte della galassia pacifista, soprattutto di quella italiana, è giunta su quanto si sta consumando in Siria. Se le cifre, sia pure nella loro incertezza, ci arrivano, al di là dei filtri delle contrapposte propagande di regime e dell’opposizione, ciò è dovuto alle Nazioni Unite e a fonti indipendenti, che lavorano, a proprio rischio, in mezzo alle rovine. Difficile prendere parte, per chi invece crede di avere la verità in tasca, per una delle due fazioni. Ancora più difficile, quindi, fingere di essere i portatori di una idea immacolata. Ci sono i morti che pesano come montagne e quelli che pesano come piume, avrebbe detto il filosofo. Non è una guerra per “benpensanti” il conflitto in corso in quei luoghi.

Claudio Vercelli
Le Religioni che sfidano il conformismo sui Gay
Nel XVIII secolo, nella sua battaglia contro le religioni ufficiali, equiparate senza tanti complimenti ad altrettante superstizioni, l'illuminismo francese, destinato a far scuola in tutta l'Europa continentale, non se la prese certo solo con il cattolicesimo. Anzi. L'ebraismo, per esempio, fu un suo bersaglio forse ancora più consueto: basti pensare alle tante pagine di Voltaire piene zeppe di contumelie contro la religione mosaica.
Poi però tra '700 e '800 le cose cambiarono rapidamente. Soprattutto perché cambiò l'ebraismo. Accadde infatti che nell'Europa (soprattutto occidentale) un gran numero di ebrei cominciasse a inoltrarsi su un percorso di radicale emancipazione-secolarizzazione che li portò ad integrarsi in pieno con le élites laico-liberali sulla via di prendere dovunque il potere: della religione dei padri conservando al massimo qualche vestigia rituale. Da allora la critica antireligiosa d'ascendenza illuministica cominciò a prendere di mira, in ambito occidentale, pressoché esclusivamente il cattolicesimo, quasi che esso fosse la sola religione rimasta sulla faccia della terra. Una tendenza andata sempre più affermandosi, specie in Italia, e molto spesso — bisogna dirlo — con il tacito assenso di molta intellighenzia d'origine ebraica, più o meno concorde nell'avvalorare implicitamente l'idea — bizzarrissima ma molto «politicamente corretta» — che in fin dei conti l'ebraismo non sia neppure una religione. Ovvero lo sia, ma così diversa da tutte le altre, così diversa, alla fine da non esserlo!
Specie in Italia, ho scritto. E infatti quando da noi si parla di temi che in qualche modo coinvolgono la fede religiosa l'ebraismo tenda a non avervi e/o prendervi alcuna parte. E quindi a non essere mai menzionato. Basta porre mente a tutta la discussione sulla liceità dell'ingegneria genetica, dell'eutanasia o del matrimonio tra omosessuali. Dibattendosi di queste cose è come se l'ebraismo fosse disceso nelle catacombe tanto la sua voce è tenue o assente. Con il risultato che la voce della Chiesa cattolica, invece, è facilmente presentata come la sola che in nome di una visione religiosa arcaica sia impegnata a difendere posizioni che la vulgata democratica qualifica come «reazionarie».
A ricordarci che le cose invece non stanno affatto così, e che proprio sui temi che citavo prima sono viceversa assai profondi i legami teologici e dottrinari tra l'ebraismo e il cattolicesimo (e il cristianesimo in generale, direi) soccorre un recente importante documento di un'autorità dell'ebraismo europeo quale il Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim, dal titolo «Matrimonio omosessuale, omoparentalità e adozione».
Bernheim inizia con il punto decisivo, e cioè contestando che tali temi abbiano come vera posta in gioco un problema di eguaglianza dei diritti. In gioco invece, scrive, è «il rischio irreversibile di una confusione delle genealogie, degli statuti e delle identità, a scapito dell'interesse generale e a vantaggio di quello di un'infima minoranza». In un modo che a me sembra condivisibile anche dal punto di vista di un non credente egli smonta uno ad uno gli argomenti abitualmente usati a favore del matrimonio omosessuale: dall'esigenza della protezione giuridica del potenziale congiunto, all'importanza del volersi bene («non si può riconoscere il diritto al matrimonio a tutti coloro che si amano per il solo fatto che si amano»: per esempio a una donna che ami due uomini); alle ragioni affettive che giustificherebbero l'adozione di un bambino da parte di una coppia omosessuale. «Tutto l'affetto del mondo non basta a produrre le strutture psichiche basilari che rispondono al bisogno del bambino di sapere da dove egli viene. Il bambino non si costruisce che differenziandosi, e ciò suppone innanzi tutto che sappia a chi rassomiglia. Egli ha bisogno di sapere di essere il frutto dell'amore e dell'unione di un uomo, suo padre, e di una donna, sua madre, in virtù della differenza sessuale dei suoi genitori». Ancora: «il padre e la madre indicano al bambino la sua genealogia. Il bambino ha bisogno di una genealogia chiara e coerente per posizionarsi come individuo. Da sempre, e per sempre, ciò che costituisce l'umano è una parola in un corpo sessuato e in una genealogia».
Bernheim non solo prende di petto il proposito caro a molti militanti omosessuali di sostituire al concetto sessuato di «genitori» quello asessuato e vacuo di «genitorialità» e di «omoparentalità», ma sostiene che non può parlarsi in alcun modo di un diritto ad avere un figlio: «la sofferenza di una coppia infertile non è una ragione sufficiente per ottenere il diritto all'adozione. Il bambino, sottolinea, non è un oggetto ma un soggetto di diritto. Parlare di diritto a un figlio implica una strumentalizzazione inaccettabile».
Naturalmente le pagine più dense del documento sono quelle in cui opponendosi all'idea sempre più diffusa che il sesso, lungi dall'essere un dato naturale, rappresenti una costruzione culturale, il Gran Rabbino, forte del racconto della Genesi, afferma viceversa «la complementarietà uomo-donna come un principio strutturante del giudaismo» corrispondendo essa al piano più intimo della creazione. «La dualità dei sessi — egli scrive — appartiene alla costruzione antropologica dell'umanità» ed è voluta da Dio anche come «un segno della nostra finitezza». Nessun individuo può pretendere di essere autosufficiente, di rappresentare tutto l'umano, dal momento che con ogni evidenza «un essere sessuato non è la totalità della specie».
Il lettore avrà notato la forte somiglianza di molte delle cose dette da Bernheim con quelle sostenute dal magistero cattolico (non a caso di recente Benedetto XVI ha citato calorosamente il documento del Gran Rabbino francese). In realtà le voci congiunte dell'ebraismo e del cattolicesimo, nel momento in cui evocano ciò che è effettivamente in gioco in questo caso — vale a dire le basi stesse della società in cui vogliamo vivere, l'esistenza ontologica di due sessi distinti, l'alleanza dell'uomo e della donna nell'istituzione chiamata a regolare la successione delle generazioni, nonché il rischio di cancellare in modo irreversibile tale successione — nel momento in cui fanno ciò, sembrano confermare quanto sostenuto a suo tempo da Jurgen Habermas circa l'importanza che ha e deve avere il punto di vista della religione nel discorso pubblico delle nostre società. Tale punto di vista, infatti, è spesso prezioso per comprendere — da parte di tutti, credenti e non credenti, di ogni persona libera — ciò che queste società hanno oggi il potere di fare. E dunque, per misurare la rottura che le loro decisioni possono rappresentare rispetto alle radici più profonde e vitali della nostra antropologia e della nostra cultura.
Ma dal Gran Rabbino Bernheim viene anche un'altra lezione. E cioè quanto è importante che la discussione pubblica sia condotta con coraggio, sfidando il conformismo che spesso anima l'intellettualità convenzionale e il mondo dei media. Quanto è importante che personalità autorevoli (per esempio gli psicanalisti) non abbiano paura di far sentire la loro opinione: anche quando questa non è conforme a quello che appare il mainstream delle idee dominanti. È una lezione particolarmente essenziale per l'Italia. Dove è sempre così raro ascoltare voci fuori dal coro e provenienti da bocche insospettate, dove è sempre così forte la tentazione di aver ragione appiccicando etichette a chi dissente invece di discuterne gli argomenti, dove sono sempre pronti a scattare spietatamente i riflessi condizionati delle appartenenze. Dove — in specie quando si tratta di certe questioni — non manca di farsi puntualmente sentire il pregiudizio che tende a fare del cattolicesimo la testa di turco più adatta per essere additato alla pubblica esecrazione dalle vestali dell'illuminismo e per vedersi piovere addosso tutti i colpi (e tutte le presunte colpe) del caso.

Ernesto Galli Della Loggia, Corriere della Sera, 30 dicembre 2012
           
          
Nugae - Sfide linguistiche
Cosa spinga alcuni uomini a compiere certe imprese semi impossibili, e per giunta dall’utilità discutibile, a volte è  un mistero. Appartengono sicuramente a questa categoria due fatiche di cui hanno parlato i giornali la scorsa settimana, entrambe relative all’uso del linguaggio. La prima è una storia raccontata in un lungo articolo sul New Yorker da Joshua Foer, giornalista e scrittore fratello piccolo di Jonathan Safran Foer. Si parla di John Quijada, di mestiere impiegato statale in California, nel tempo libero inventore dell’Ithkuil, una lingua completamente artificiale il cui scopo è ottenere la massima precisione ma essendo anche il più possibile concisi, eliminando così tutti i difetti delle lingue naturali. Il suo sito, portato a termine nel 2011, documenta la grammatica, la sintassi e il lessico di ben seimila stranissime voci. Numero attuale di parlanti? Uno, naturalmente. L’altra notizia riguarda invece l’uscita nelle librerie, proprio in questi giorni in cui esce anche al cinema, di una traduzione in yiddish de Lo hobbit di J. R. Tolkien. I lettori di quest’opera probabilmente non saranno molti di più di quelli di Harry Potter in latino, ma il curatore Barry Goldstein ha già reso noto di non avere nessuna intenzione di fermarsi, e così ora il mondo attende con ansia anche la versione yiddish della trilogia del Signore degli anelli. Quello che però sorprende di più è come sia possibile che le sfide linguistiche di oggi evidenzino tendenze così opposte fra loro. Perché mentre uno passa trent’anni della sua vita a inventare un’impronunciabile lingua del futuro c’è qualcun altro che decide di tradurre una serie di lunghissimi fantasy in una lingua che pochi, probabilmente nemmeno interessati al genere, ricordano ancora. Come riescono a convivere la ricerca smaniosa di innovazione e questo attaccarsi un po’ disperatamente al passato? Due diverse forme di follia, d’accordo. Ma per una romantica studentessa di lettere che si emoziona di fronte alle infinite possibilità che la parola offre, in realtà la risposta migliore è quella di Joshua Foer: “La creazione linguistica è perseguita da persone che sono talmente innamorate di quello che il linguaggio può fare che odiano ciò che non può fare”.

Francesca Matalon, studentessa di lettere antiche twitter @MatalonF

           

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Calcio - Addio a Emanuel Sheffer
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La Federcalcio israeliana in una nota stampa ha reso omaggio a Emanuel Sheffer, allenatore della nazionale che partecipò ai Mondiali di Messico 1970, morto a 88 anni."E' stato il più grande allenatore di Israele e la sua influenza sul gioco e lo sviluppo del calcio nel nostro paese è stato decisivo" si legge nella nota della Federcalcio. Di origine tedesca, Sheffer aveva guidato Israele anche ai quarti di finale del torneo olimpico di Città del Messico nel 1968.

 

Al via i lavori del Museo della Shoah. La notizia annunciata venerdì, appare su molti quotidiani [...]









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