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19 aprile 2013 - 9 Iyar
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Alfonso Arbib,
rabbino capo
di Milano
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L'inizio
della parashà di Kedoshìm prescrive un obbiettivo estremamente
ambizioso: "Siate santi come santo sono Io, il Signore vostro Dio".
Secondo Ramban ciò significa che tutta la nostra vita, anche dove non
ci sono prescrizioni precise della Torà deve essere improntata alla
santità. Il testo sottolinea che questa mitzvà viene data a tutta la
Comunità dei Figli d'Israel; non ai sacerdoti, non ai Maestri ma a
tutti indistintamente. L'idea è che tutti possano raggiungere i livelli
più elevati. Qualcosa di simile avviene nel periodo dell'òmer. In 49
giorni un popolo di schiavi si deve elevare fino a poter sentire
direttamente la parola di Dio, cioè al livello della profezia. Si
pretende molto ma questo pretendere molto è sempre stata una delle
caratteristiche dell'ebraismo. La tradizione ebraica si rivolge
all'intero popolo ebraico, non ai singoli individui spiritualmente
elevati e pone a tutti obbiettivi estremamente ambiziosi che ovviamente
non sempre vengono raggiunti. È tuttavia importante intraprendere un
percorso che sia in continua ascesa. Quest'idea è in controtendenza
rispetto a una concezione educativa che si è fatta strada negli ultimi
anni secondo la quale dobbiamo sempre porci obbiettivi minimi, non
pretendere troppo. Secondo la tradizione ebraica invece gli obbiettivi
devono estremamente alti e il percorso per raggiungerli graduale.
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Gadi
Luzzatto Voghera, storico
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Nelle
ore in cui si va eleggendo il nuovo capo dello Stato mi sembra
importante portare la riflessione sul rapporto che le comunità ebraiche
della diaspora hanno avuto con questa istituzione. Là dove lo Stato era
già forte (come nella Francia del secolo XVIII) o un secolo più tardi
nel resto dell’Europa in coincidenza con la nascita degli Stati
nazionali, la comunità ebraica esprimeva il suo attaccamento e la sua
devozione ai sovrani regnanti componendo preghiere speciali per la loro
salute e il loro successo, unitamente a quello della nazione di
appartenenza. La preghiera era pronunciata in occasioni speciali, ma a
partire dall’Ottocento veniva collocata direttamente nei libri di
preghiera e veniva recitata il Sabato prima della chiusura dell’Aron
haQodesh, all’atto di riporvi il prezioso Sefer Torah appena letto. In
questo modo si associava la regalità della Torah alla figura del
regnante, in un atto di ossequio che esprimeva la completa fiducia
della comunità ebraica verso i sovrani emancipatori. Tuttavia lo Stato
e i suoi sovrani non avrebbero corrisposto in maniera benevola a questi
eccessi di zelo religioso e in Italia in particolare non esitarono un
granché nell’apporre la propria augusta firma alla legislazione
razziale. Anche a causa di questo tradimento – credo – nel secondo
dopoguerra l’usanza di benedire il sovrano e con lui lo Stato venne
sostituita in breve tempo dalla preghiera ancora in uso che si formula
per augurare salute e rettitudine ai governanti di Israele. Si tratta
di una differenza di prospettiva significativa sulla quale vale la pena
di ragionare. Non c’è dubbio che il caricare di significato religioso
il rapporto con il sovrano secolare costituisse nel passato una
forzatura e una distorsione. E tuttavia era anche il segno di un
rapporto “necessario” di alleanza con il potere. Necessario perché una
comunità di minoranza aveva bisogno di certezze e doveva a sua volta
comunicare certezze a chi il potere lo deteneva. Oggi questo rapporto
mi sembra essersi affievolito, vuoi per l’apparire di nuove dinamiche
secolari nella storia della civiltà ebraica (la nascita dello Stato
d’Israele), vuoi per l’indebolirsi dell’istituzione stessa dello Stato
nazionale, in particolare per quel che riguarda la realtà italiana. Sia
come sia, se si assegna un valore alla preghiera pubblica, credo varrà
la pena di reistituire nei prossimi tempi l’antica pratica della
benedizione allo Stato e al suo rappresentante in capo: non so se
servirà veramente, ma per quel che lo aspetta credo che sarà comunque
di buon augurio per le dure prove cui sarà sottoposto nell’immediato
futuro.
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Renzo Gattegna: "Dal Ghetto di Varsavia un messaggio di
libertà e speranza che va continuamente alimentato" |
Il Presidente dell'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha dichiarato:
"Cade in queste ore il settantesimo anniversario dell'insurrezione del
Ghetto di Varsavia. Un momento di commovente intensità oggi assurto a
paradigma stesso della resistenza ebraica al Male, l'ultima scelta in
piena consapevolezza di uomini e donne che andarono incontro alla morte
impegnando per molti giorni, armati quasi esclusivamente della loro
disperazione, i criminali con la svastica al braccio – assai più
numerosi, sproporzionatamente più attrezzati dal punto di vista
militare.
Scrive Marek Edelman: “Coloro che sono caduti hanno compiuto il loro
dovere fino in fondo, fino all’ultima goccia di sangue. Sangue che è
stato assorbito dalla terra stessa del Ghetto di Varsavia. Noi, che
siamo sopravvissuti, lasciamo a voi il compito di non far morire la
loro memoria”.
Quattro settimane di lotta a testa alta, una scelta di coraggio. Nei
nostri cuori, nella nostra memoria, gli eroici fatti di
Varsavia sono un fuoco che va continuamente alimentato
affinché resti viva, attraverso le generazioni, l'aspirazione a un
futuro di pace per l'umanità intera. Aspirazione ma anche impegno: è
infatti necessario proiettare queste parole nella vita di ogni giorno,
smussare dove possibile le tensioni e i conflitti, essere al fianco di
chi ancora oggi combatte per valori imprescindibili quali dignità,
libertà e democrazia".
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I giovani e il coraggio di resistere |
Ricorre oggi, 19 aprile, il
settantesimo anniversario dell'inizio della rivolta del ghetto di
Varsavia. Una data storica che nessuno dovrebbe dimenticare,
soprattutto i giovani. Durante la rivolta - che durò fino al 16 maggio
1943, meno di ottocento persone, per lo più giovani,
capeggiati da Mordehai Anielewicz, resistettero all'esercito nazista
occupante per cercare di ostacolare la caduta del ghetto e la
conseguente deportazione nei campi di sterminio. A Roma la
sezione del movimento giovanile Hashomer Hatzair, il ken Yad Mordechai,
è dedicata proprio alla figura di Anielewicz.
L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane nello scorso gennaio, in
collaborazione con la presidenza del Consiglio dei ministri, ha
organizzato un convegno dedicato a "Il coraggio di resistere". La
relazione di David Silberklang , storico dello Yad Vashem,
era appunto dedicata al tema della Resistenza nei ghetti, quello di
Varsavia in primo luogo. La registrazione della tavola rotonda è online e presto verranno
pubblicati gli atti, a cura dell'UCEI.
Sira Fatucci
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Yom HaAzmaut - Monti all'ambasciatore Gilon:
“Tikkun Olam strada maestra da seguire” |
È incentrato sul concetto
ebraico di Tikkun Olam, “riparazione del mondo”, l'intervento
pronunciato dal presidente del Consiglio Mario Monti a Villa Miani in
occasione dei festeggiamenti per i 65esimo anniversario della nascita
dello Stato di Israele. Parole di altissimo significato in cui, ad
enunciazioni generali seguono riferimenti ben specifici al contributo
dato da alcuni ebrei italiani alla lotta d'indipendenza del 1948 e
prima ancora alla Resistenza al nazifascismo. Storie, dimensioni
diverse che si intrecciano in un comune denominatore: libertà,
speranza, visioni di futuro. Monti cita l'esperienza di Luciano Segre,
cugino di Primo Levi, partigiano e poi chalutz. Lo fa per soffermarsi
sulla sua abilità nel rammendare le calze, aspetto apparentemente
secondario e invece paradigma di un'idea vincente che ha fatto strada:
non perdere mai di vista quello che si lascia alle spalle, trarne anzi
spunto, eventualmente correggerlo e affinarlo per costruire un futuro
di prosperità e democrazia. Monti rende omaggio anche a Rita Levi
Montalcini e Teresa Mattei: due donne straordinarie, unite dalla comune
origine ebraica, “cui va tutta la nostra ammirazione e gratitudine”. Al
suo fianco l'ambasciatore d'Israele in Italia Naor Gilon, che rivendica
lo speciale legame di amicizia tra i due paesi e le tante sfide da
affrontare assieme nel breve e nel lungo periodo. Gilon si dice sicuro
che l'attuale blocco – politico, economico, sociale – del paese verrà
presto meno nell'interesse e nella soddisfazione di tutti. Anche di
quei paesi, come Israele, che guardano all'Italia “come a una
straordinaria fonte di ispirazione”. È questa un'amicizia, conclude
l'ambasciatore, “cui teniamo particolarmente”.
Foltissima la rappresentanza istituzionale in platea: ministri,
parlamentari, ambasciatori. La giornalista Cesara Buonamici, chiamata a
condurre la serata, legge il lungo elenco. Per l'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, oltre al presidente Renzo Gattegna, il suo vice
Roberto Jarach e numerosi esponenti di Giunta e del Consiglio.
a.s -
twitter @asmulevichmoked
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Qui Milano - Gino
Neppi, una storia di coraggio |
Ricordato a Milano l'impegno
di Gino Neppi, medico ebreo che nei giorni più bui non si risparmiò sul
fronte della solidarietà e dell'assistenza ai malati. L'occasione un
convegno svoltosi a Palazzo Marino grazie all'impegno di Associazione
Medica Ebraica e Fondazione Cdec.
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Qui Firenze - Approvato il bilancio
consuntivo 2012
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Ascoltata la relazione del
consigliere Roberto Orvieto, l'assemblea degli iscritti della Comunità
ebraica di Firenze ha approvato il bilancio consuntivo per il 2012.
“Primo obiettivo che ci diamo per il futuro è di impegnarci per non
portare in sbilancio neanche piccolissime cifre. Altro obiettivo – ha
affermato il presidente, Sara Cividalli – è quello di non tagliare
alcuna attività, di non rinunciare mai a nessuna iniziativa perché
mancano le risorse”.
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Fiducia nei giornalisti |
A volte tra la politica
italiana e quella israeliana si notano somiglianze curiose, in parte
reali, in parte apparenti, in parte simboliche; ne vorrei segnalare
una, anche se non saprei dire a quale delle tre categorie appartenga.
In Israele un giornalista televisivo fonda un partito ex novo e ottiene
un successo elettorale straordinario; in Italia una giornalista
televisiva risulta la persona più votata come auspicabile Presidente
della Repubblica in una consultazione on line pur promossa da un
movimento che ha sempre dimostrato una certa ostilità nei confronti di
giornalisti e televisione. Paradossalmente, proprio in un’epoca in cui
il giornalismo è messo in crisi da internet, dai social network e dallo
sviluppo tecnologico che sembra permettere a chiunque di improvvisarsi
reporter, l’opinione pubblica pare riconoscere in alcune figure di
giornalisti un’autorevolezza che invece riconosce sempre meno alle
leadership politiche tradizionali. Che ciò accada, pur con modalità
diverse, in due contesti politici per altri versi molto lontani tra
loro è una curiosa coincidenza che induce a riflettere chiunque si
occupi di informazione, anche nel piccolo ambito dell’ebraismo
italiano: a volte ciò che si dice o si scrive viene ascoltato o letto
con più attenzione di quanto si immagini.
Anna
Segre, insegnante
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In ricordo di Bona
Cividalli
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Nel 1948, Bona Cividalli è
al kibbutz di Manara, estremo nord della Galilea, dove è stata
assegnata dalla Haganà fin dall’autunno del ’47. Come i fratelli più
grandi, Paola e Piero, resiste e combatte quotidianamente per il futuro
di Israele. Lo fa soprattutto lavorando duramente, ogni giorno,
talvolta imbracciando il fucile. È una splendida ragazza di vent’anni
che deve affrontare la dura prova della guerra, dell’isolamento, dei
lutti continui che colpiscono ogni giovane combattente. È convinta
fermamente, come le ha insegnato il babbo Gualtiero, che la guerra non
sia una scelta, ma una dolorosa, straziante necessità. Il 18 maggio
scrive da Manara a casa, a Tel Aviv: “Sono stanca della guerra, babbo,
non ho più la forza di leggere le liste dei caduti, di sentire
raccontare gli eroismi di tanti giovani. Non torneranno più i giorni
belli, sereni, spensierati?” Per Bona e per tanti suoi coetanei in
Eretz, la cosa più difficile è alimentare la speranza di poter
costruire un Paese diverso, un Paese migliore di quelli da cui, qualche
anno prima, loro stessi sono dovuti scappare. In un altro momento di
sconforto, il 28 giugno, Bona scrive ancora al babbo: “Non credo
nell’aspirazione alla bontà e alla giustizia dell’animo umano in
generale, come movente profondo e ultimativo della storia. E anche se
esisterà il suo trionfo sarà certo con la venuta del Messia, ed è un
futuro troppo lontano perché possa trovare conforto in ciò”. Due mesi
dopo, sempre lontana dalla sua famiglia, Bona ha un altro momento di
scoramento. Viene a sapere che in Italia è morto l’amato nonno Beppe,
ma nel kibbuz di Manara non è facile ottenere conforto per la sua
tristezza. Il 3 agosto, infatti, scrive alla mamma a Tel Aviv: “Nessuno
è più pronto a pensare alla morte di persone vecchie, quando muoiono
tanti giovani”; poi, però, ricordando i fratellini Gabi e Lia, che non
hanno mai conosciuto il nonno di Firenze, si consola: “sono sicura che
siamo riusciti a inculcare ai piccoli l’amore per il nonno Beppe
attraverso i nostri racconti” (citazioni da G. Cividalli “Dal sogno
alla realtà. Lettere ai figli combattenti. Israele, 1947-1948”,
Giuntina).
Domenica Bona Cividalli si è spenta a Ramat Gan. Pian piano se ne
stanno andando tante persone che hanno costruito la nostra Storia, che
nel loro eroismo schivo e quotidiano ci hanno trasmesso in eredità
un’imperdibile etica della speranza. Possano i racconti di chi ha
conosciuto Bona ricordare a tutti che sono proprio le persone come lei
che rendono questo mondo pur sempre in guerra, pur sempre in attesa del
Messia, un pochino più buono, un pochino più giusto.
Laura
Salmon, slavista
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notizie flash |
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rassegna
stampa |
Due nuovi razzi da
Gaza
verso il sud di Israele |
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Leggi
la rassegna |
Due razzi sono stati
lanciati questa mattina dalla Striscia di Gaza verso il sud di Israele,
senza fare vittime né feriti: lo ha riferito un portavoce della polizia
locale. "I due razzi sono esplosi in aree non abitate", ha confermato
Louba Samri. Al momento non ci sono state rivendicazioni.
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Settantesimo anniversario
dell’insurrezione al Ghetto di Varsavia. Su Avvenire denso editoriale di Anna
Foa. “La rivolta – scrive – è rimasta nella memoria storica come un
momento straordinario di reazione attiva allo sterminio. Soprattutto in
Israele, dove forte era l’idea che gli ebrei si fossero fatti portare
al macello come pecore, essa rappresenta il simbolo dell’eroismo
ebraico, anche se non contraddice, ma semmai conferma con il suo valore
di eccezione l’idea della passività della diaspora di fronte al
nazismo”.
continua>>
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