Gino Neppi, una storia di coraggio

Un ricordo pieno allo stesso tempo di grandissima stima e di tenero affetto, quello lasciato si sé da Gino Neppi che è stato condiviso ieri sera nell’ambito del convegno organizzato a Milano dall’Associazione Medica Ebraica e dalla Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea con il patrocinio del Comune e dell’Ordine provinciale dei medici, nella Sala Alessi di Palazzo Marino. Particolarmente emozionante la consegna da parte del Comune, rappresentato dall’assessore alla cultura Francesco Cappelli, di un riconoscimento alla memoria a sua nipote Carla Neppi Sadun. Un’occasione per ricordare lo straordinario impegno civile di Gino Neppi, medico che negli anni della Seconda Guerra Mondiale si dedicò a offrire assistenza ai bisognosi della Comunità ebraica milanese, senza mai arrendersi fino a quando il 6 novembre 1943 non fu arrestato dai nazisti nel suo studio e detenuto al carcere San Vittore per poi essere deportato ad Aushwitz. A dipingere il suo ritratto, moderati dal presidente dell’Ame e consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giorgio Mortara, la storica e consigliere UCEI Liliana Picciotto, Ugo Garbarini, presidente dell’Ordine dei Medici di Milano, Andrea Finzi e Carla Neppi Sadun.

Il convegno è stato anche l’occasione per descrivere le condizioni difficilissime a cui le leggi razziste promulgate nel 1938 costrinsero i professionisti ebrei che, come ha ricordato Liliana Picciotto, furono espulsi da tutte le scuole, le università, le strutture pubbliche e gli albi professionali e costretti a esercitare privatamente. “Nell’archivio dell’Ordine dei medici di Milano sono presenti molti registri dell’epoca, pieni di nomi di grandi maestri ebrei della medicina cancellati con un tratto rosso, guardando fra i quali ho trovato anche il registro dei medici ebrei discriminati”, racconta Ugo Garbarini.

Fra cui naturalmente Gino Neppi, che nel 1939 con l’aiuto indispensabile del collega Marcello Cantoni, all’epoca neolaureato e specializzando in pediatria, con cui con gli anni si instaurò un forte legame, si rivolse al direttore dell’Ufficio sanitario del Comune Carlo Alberto Ragazzi per essere autorizzato e ricevere i locali per aprire un ambulatorio che assistesse gli appartenenti alla Comunità israelitica, che ormai contavano tra l’altro anche migliaia di profughi tedeschi. La sede dell’ambulatorio, inaugurato il 20 aprile 1940, cambiò varie volte, perché c’era sempre più richiesta di aiuto, fino a stabilirsi in uno degli antichi caselli del dazio di Porta Venezia. Al suo interno lavoravano, oltre a Neppi e Cantoni che lo dirigevano, i medici generalisti Oscar Benarojo e Ephraim Chajmson e l’infermiera fisioterapista Elena Reichman. “Questi ultimi, come anche Neppi, parlavano molto bene il tedesco e un po’ di yiddish, cosa che risultò molto utile per l’alto numero di pazienti profughi provenienti dall’Europa dell’Est”, ha ricordato Andrea Finzi. Era presente anche una sala operatoria e nel pomeriggio diversi specialisti ricevevano per le visite e, dislocata rispetto all’ambulatorio, fu creata anche una mensa per i poveri. “La grande capacità di Neppi fu quella di aver creato, per una comunità rimasta priva di cure e per tutti quegli ebrei che erano fuggiti in Italia dai paesi già occupati dai nazisti, una struttura organizzata ed efficiente, persino riconosciuta dalle autorità nazionali”, ha evidenziato Giorgio Mortara. E colpisce in effetti notare come sulle ricette consegnate ai pazienti fossero compresenti il timbro del Comune di Milano e quello ufficiale consegnato a Neppi.

Proveniente da un’antica famiglia ferrarese molto osservante, trasferitosi a Milano, la nipote Carla Neppi Sadun ha ricordato lo zio come un uomo che dedicò la sua vita agli altri: attivo nella Comunità ebraica di Milano, come membro del Consiglio, come medico volontario presso la casa di riposo e, seguendo le orme del padre, come moel, e nella Delasem, Delegazione assistenza migranti ebrei, non dimenticò mai la famiglia, che andava a trovare regolarmente, portando sempre molta gioia e conquistandosi il titolo di zio prediletto da tutti i suoi nipoti. La famiglia Neppi fu costretta ad abbandonare la casa di Ferrara dove erano conservati tutti i suoi ricordi per trasferirsi in campagna, ma Gino rimase da solo a Milano anche dopo che la situazione nel 1943 era diventata molto pericolosa, continuando a mantenere vivo l’ambulatorio, finché non venne catturato. Ma come ha sottolineato Carla, con un sorriso amaro e pieno di commozione, citando un ricordo di Marcello Cattani, “non avrebbe disertato il posto mai, contro nessun pericolo”.

Francesca Matalon – twitter @MatalonF

(19 aprile 2013)