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13 settembre 2013 - 9 Tishrì 5774
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav
Paolo Sciunnach,
insegnante
Il muro del pianto è il luogo di preghiera più importante per tutti gli ebrei. Fede, cultura e storia si ritrovano tutte nel Muro Occidentale, in quella mescolanza che rende la terra d’Israele così unica. Visitatori di ogni tipo (religiosi e laici) avvertono, in questo luogo, un legame speciale.
 
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
Sono passati quarant’anni dalla guerra del Kippur. Il mondo è cambiato, molto, ma le ferite rimangono aperte. In quello stesso Sinai dove oggi l’esercito egiziano va a caccia delle bande di qaedisti e di islamisti con la bonaria approvazione e collaborazione dell’Occidente e di Israele, tanti anni fa si combatteva una guerra diversa, con la quale forse è ancora presto per poter fare veramente i conti (in termini di responsabilità, inadeguatezze, superficialità politica). Per me, bambino, gli egiziani del tempo erano i nemici che forse avevano catturato mio zio Marco, sorpreso con i suoi compagni nel fortino di Firdan a difesa del Canale di Suez. Guardavo ossessivamente i telegiornali in bianco e nero, le cronache di Marcello Alessandri che trasmettevano le immagini delle schiere di soldati israeliani prigionieri, nella speranza/certezza che avrei riconosciuto il volto di quel mio caro, che avevo visitato solo pochi giorni prima nella sua casa di Ramat Hasharon e che mi cantava con voce allegra “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba…”. Ma il suo volto non c’era, e il suo corpo giaceva da tempo fra le dune del deserto. Marco ha combattuto a ha perso la vita nonostante le sue ferme convinzioni di opposizione alla guerra. Come ricordava l’amico Franco Sabatello in un suo breve scritto su Ha-tikwah nel ‘74, “Marco aveva attivamente aderito al gruppo della Lista della Pace (Reshimath Shalom), e (…) sottolineava l’esigenza di approntare un piano di pace israeliano che tenesse in conto il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e respingeva la politica dello status quo. (…) Se per tutti gli israeliani l’attacco siro-egiziano del 6 ottobre giunse improvviso e inatteso, per Marco ed i suoi compagni di pensiero esso fu forse solo imprevisto”. Due decenni dopo la madre di Marco, mia nonna, scriveva queste parole di ricordo: “C’è in casa una cassetta colma di lettere che negli oltre dieci anni della tua assenza arrivavano regolarmente a portare tra noi il soffio della tua vita con le notizie sempre attese con ansia. Dal Kippur del 1973 sono passati vent’anni, e ogni anno io apro quella cassetta e tocco sempre alcuni di quei fogli ancora ben conservati e leggo cercando di rivivere tanti avvenimenti famigliari, ma soprattutto di riascoltare le parole di amore del mio Marco. Nel grande, fiorito, ridente cimitero di Kiriath Shaul migliaia di giovani vite sono diventate altrettante lapidi con un nome e un numero: sulla tua c’è il 31. Gli anni che il Signore ci ha concesso di vivere con te”.
 
Un anno per la libertà
Gli auguri del presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Renzo Gattegna in occasione dell'inizio del nuovo anno ebraico.
 
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Voci a confronto
“Vent’anni fa era impensabile che qualcuno si dichiarasse deliberatamente antisemita, oggi invece sembra normale”. Nelle parole di Betti Guetta (Corriere della Sera Sette), ricercatrice del Centro di Documentazione Ebraica di Milano, la preoccupazione per il rischio di derive antisemite nel nostro paese, alla luce dei risultati di uno studio qualitativo sull’immagine degli ebrei in Italia.
 
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Risorse e bilanci
Un approfondimento sull’ultimo Bilancio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
 
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  davar
yom kippur
Né a destra, né a sinistra
Uno dei momenti più alti della poesia religiosa ebraica è rappresentato dalle Selichot (poesie penitenziali) e dalle Selichot di Ne’ilah in particolare. È il momento più saliente del Giorno di Kippur, quello che ci dà la Kapparah (espiazione). Possiamo dire il momento della verità, in cui emergono i messaggi definitivi che ci accompagneranno nel corso dell’anno entrante. La seconda Selichah di Ne’ilah (nel rito italiano seguito a Milano, Torino e Padova) è stata scritta da Moshe Ibn ‘Ezrà, lo stesso autore del Piyut (inno) con cui l’ultima Tefillah di Kippur esordisce: E-l norà ‘alilah. L’ultima strofa della Selichah Eloqim dàr meromèkha (“Dio che abiti nei cieli”) è significativa: qui la riportiamo nella pregevole versione rimata di Massimo Foa. “Chiudon del cielo le porte ed il sol tramonta già: / annunzia la nostra sorte, o Dio, con la Tua bontà. / Dovete, o porte, alzare le Vostre cime sante / al fin che possa entrare il popol mio trionfante. / Acque purificanti sul popol prediletto / per riscattare quanti loro Dio ti hanno eletto. / Questa è la strada da fare. Guidaci e sta’ a noi vicino” (Le Selichot in rima, Morashà 2008, p. 73). Il monito: “questa è la strada da fare” è tratto, come molte espressioni delle Selichot, da versetti del Tanakh avulsi dal loro contesto. In questo caso si tratta di Yesha’yahu 30,20-21. Il profeta preannuncia il regno fedele di Chizqiyahu con le parole: “I tuoi occhi guarderanno in viso i tuoi Maestri... Questa è la strada da fare, che vogliate andare a destra o a sinistra”. L’ultima parte contiene certamente allusioni politiche, ma non nel senso moderno dei termini. La sinistra era in antico il nord e allude alla potenza assira che in quegli anni, complice un giro di alleanze, dava filo da torcere ai re di Eretz Israel. La destra, d’altronde, era il sud e allude alla potenza egiziana, cui essi si erano rivolti per aiuto. Il profeta Yesha’yahu ammonisce dunque il regime a trascurare vane alleanze politico-militari e a guardare soltanto davanti a sé.                                                                                                    Rav Alberto Moshe Somekh

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qui milano
"Nel caso non ci rivedessimo"
Affollatissima la rinnovata sala della Libreria Claudiana di Milano per la presentazione del libro “Nel caso non ci rivedessimo” (Archinto) scritto da Giorgio Sacerdoti, consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e presidente della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea. A introdurre l’evento, Paola Sereni in rappresentanza dell’Associazione Nuovo Convegno, promotrice dell’appuntamento insieme allo stesso Cdec (relatore anche il suo direttore Michele Sarfatti).
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pilpul

La teshuvà di un leader
Ogni anno a Kippur leggiamo il libro di Giona e ogni volta può capitare, anche grazie ai commenti, di scoprire qualcosa di interessante che finora ci era sfuggito. Per esempio, è curioso notare che quando il profeta Giona arriva ad annunciare che la città di Ninive sarà distrutta (ma la parola può anche significare “rovesciata” e prevedere quindi correttamente il radicale capovolgimento nei comportamenti che di lì a poco si verificherà), il movimento di presa di coscienza e di ravvedimento parte dal basso, dal popolo in tutte le sue classi sociali, e raggiunge il re solo in un secondo tempo (“E gli abitanti di Ninive ebbero fede nel Signore e proclamarono il digiuno e si vestirono di sacchi dal più grande al più piccolo. E giunse la notizia al re di Ninive…”). Senza una presa di coscienza delle proprie responsabilità da parte dell’intera popolazione è difficile che si possa sperare in una leadership onesta. Il re di Ninive, che si decide alla teshuvà solo quando gli viene riferito cosa stava facendo il suo popolo, era certamente un personaggio ben poco raccomandabile (è stato identificato con vari re malvagi e addirittura con lo stesso Faraone dell’uscita dall’Egitto), e anche l’ordine di pentirsi e digiunare (cosa che peraltro i sudditi stavano già facendo) suona un po’ ambiguo, sembra più un capriccio personale che una vera assunzione di responsabilità (con un curioso gioco di parole che suona più o meno: “è gusto del re che uomini e animali non gustino nulla”). Però di una cosa gli va dato atto: non solo è subito pronto a condividere la medesima penitenza del suo popolo vestendosi di sacco e sedendo sulla cenere come tutti gli altri cittadini di Ninive, ma, soprattutto, le sue prime azioni sono alzarsi dal trono e togliersi il mantello regale: gesti che indicano simbolicamente la disponibilità a mettere in discussione la sua stessa carica. Per sottolineare questa simbolica rinuncia al potere qualcuno traduce “discese dal trono”, ma forse l’originale ebraico “si alzò” focalizza la nostra attenzione non tanto sull’umiliazione personale quanto sul seggio che è stato lasciato libero. E se la sua leadership era stata una discesa, il suo gesto è l’inizio di una risalita, per lui e per il suo popolo.
Chatimà tovà a tutti

Anna Segre, insegnante
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Felicità
Uno dei traguardi psicologici più difficili dell’esistenza umana è accettare la priorità della serenità sulla “felicità”. Quando s’invecchia pare sempre più chiaro in cosa consista la differenza e quanto vantaggioso sia comprenderlo, ma spiegarlo resta comunque difficile. C’è una frase di Liana Millu che, pur in parole semplici, mi pare una buona sintesi: “Perché esiste una sola serenità mentre vi possono essere numerose felicità. E anche infelici felicità. Perché la serenità è qualità propria delle cose e dello spirito, cioè dipendente direttamente da noi, mentre la felicità è in dipendenza quasi sempre dagli altri (da Tagebuch)".

Laura Salmon, slavista
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