Yom
kippur
"Siamo
qui grazie alla forza dei nostri padri"
Il rabbino
capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell'ora di Nei'là di
questo Kippur 5774, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti
parole:
Quaranta anni, nei ritmi della Bibbia sono un'epoca, una generazione.
Sono gli anni passati nel deserto dagli Ebrei usciti dall'Egitto. E
oggi sono passati quaranta anni da quel Kippur del 1973 in cui lo Stato
d’Israele e il popolo ebraico si svegliarono bruscamente per ritrovarsi
in guerra. I meno giovani ricorderanno l’angoscia di quelle ore e dei
giorni successivi. Se il vasto pubblico sa che esiste un giorno
importante per gli ebrei chiamato Kippur, lo si deve proprio a quella
guerra che ne prese il nome, cosa che per noi è una stridente
contraddizione. Kippur è il giorno in cui intorno a noi ci dovrebbe
essere una tregua e, se proprio ci dovesse essere una guerra, dovrebbe
essere una guerra interna, tra le forze opposte dentro di noi che ci
spingono da una parte e dall’altra, ma con le quali dobbiamo fare i
conti e arrivare ad una pacificazione, dentro di noi, nei riguardi
degli altri, e nei confronti del Creatore. In questi giorni, a 40 anni
di distanza, il clima generale sulla scena nazionale e sulla scena
mondiale è molto differente e strano. In ogni momento sembra che stiano
per saltare gli equilibri precari della stabilità politica ed economica
e della pace, poi c’è un rinvio, una sospensione, una dilazione.
Viviamo in una situazione di continua sospensione. E' un po' il simbolo
della condizione umana in questi momenti del calendario ebraico,
sospesi in attesa del giudizio divino che si spera favorevole, e
impegnati a fare qualcosa perchè la situazione migliori. A cosa serve
Kippùr, si chiedevano i Maestri? Dipende dalla gravità delle colpe
commesse. Per le trasgressioni minori basta la teshuvah, la
consapevolezza di avere sbagliato strada e l’impegno di non ripetere
più l’errore; per le colpe progressivamente più gravi ci vuole da parte
nostra la teshuvah, e dall'Alto il giorno del Kippur; la teshuvah
sospende, appunto, e Kippur cancella. Ma quando per colpe più gravi la
teshuvah e Kippur non bastano, arrivano le sofferenze. Abbiamo però
qualche strumento per fermarle, per evitare il peggio, e dipende da
noi, dalla nostra capacità di metterci in discussione. Fermiamoci da
soli prima che sia qualche evento esterno a costringerci a farlo.
Quante volte ci è capitato improvvisamente un evento spiacevole e
inatteso. Interpretiamolo come un campanello di allarme, una sveglia
personale, fastidiosa ma necessaria. In realtà una “sveglia” l'abbiamo
sentita dieci giorni fa, ma era collettiva, positiva e sacra, era il
suono dello shofar di Rosh HaShanah. Tra poco lo risentiremo ancora al
culmine della nostra celebrazione. In tempi remoti lo shofar si suonava
a Kippur una volta ogni 50 anni, quando si proclamava il Giubileo, e
oggi il motivo principale per cui lo si fa è il ricordo del Giubileo.
Il Giubileo è la libertà, quando i servi devono essere liberati
ed è come se nascessero in quel momento, e noi tra poco proclameremo
una libertà raggiunta tutti insieme, una rinascita spirituale dopo un
bagno collettivo di purificazione. I dieci giorni di Teshuvah che si
concludono tra poco sono un cammino collettivo in cui si inizia
scoprendo che la macchina non funziona bene, che si è inceppata, ma si
può riparare; la si ripara e da questa sera riparte come nuova.
Spesso non ci rendiamo conto della speciale dignità del popolo ebraico,
una dignità che non è automatica ma che si assume e cresce in rapporto
alla nostra fedeltà alla Torà. In questi tempi strani, proprio in
questi giorni, ce l'ha ricordato un'autorevole voce esterna. Una voce
proveniente paradossalmente proprio dal campo da cui abbiamo subito per
secoli sofferenze, umiliazioni e offese, perché mantenevamo la nostra
tradizione e rimanevamo nell'attesa messianica. I nostri padri hanno
resistito a queste umiliazioni e se siamo qui lo dobbiamo alla loro
forza. Sono stati in pochi a cedere anche nei momenti più drammatici.
Abbiamo ora dei libri ben documentati che raccontano le pressioni
micidiali cui erano sottoposti gli ebrei nel Ghetto di Roma. Chi
abiurava poteva farsi una nuova vita, libera e agiata rispetto alle
ristrettezze del Ghetto. C'è stato in verità un flusso continuo di
fughe, ma sempre molto contenuto. Tra gli anniversari di questi giorni,
ora sono 75 anni dalle leggi razziali del '38. Gli archivi della nostra
Comunità conservano tutti i dati sulle abiure di quei giorni, dettate
dalla paura e dalla speranza di sfuggire alla persecuzione, molto
raramente da ispirazione religiosa. Uno studio dettagliato non è stato
ancora fatto, ma un primo dato è certo: almeno il 90% della comunità
volle restare ebrea. E non erano, nella stragrande maggioranza, ebrei
osservanti come oggi si è osservanti. Semplicemente volevano restare
ebrei e non tolleravano soprusi. Avevano il senso della dignità
ebraica. E sapevano bene che chi sceglie non lo fa solo per sé, lo fa
per il passato e soprattutto per il futuro. E noi siamo מאמינים בני
מאמינים “credenti figli di credenti”, un tempo vituperati per la
nostra fede, oggi additati ad esempio positivo, ma sempre resistenti:
alle seduzioni e alle lusinghe di qualsiasi sistema o idea
concorrenziale che vuole semplicemente farci scomparire. In ogn momento
e luogo della nostra storia dobbiamo confrontarci con culture
differenti, idee e sensibilità nuove. Molte possono essere anche
positive, e non dobbiamo evitare il confronto; ma quando lo
facciamo non dobbiamo compiere l'errore fondamentale di pensare che
l'altro è il bene assoluto e indiscutibile, il criterio di verità
rispetto al quale l'ebraismo sia solo una materia plastica che si deve
adattare, anche cambiando le sue regole di base. Abbiamo visto con
quanta rapidità molte delle mode e delle idee degli ultimi due secoli
siano scomparse rapidamente insieme al fascino che le accompagnava.
Quando esisteva il Tempio di Gerusalemme il giorno di Kippur era
centrato sul servizio del Gran Sacerdote. Di tutto questo ci è rimasto
solo il ricordo, insieme a tanti insegnamenti. Finito il servizio
dentro l'Hekhal, dove il Gran Sacerdote rimaneva solo, prima di uscire
si fermava per recitare una preghiera per tutti. Ma la preghiera doveva
essere breve, altrimenti chi l'attendeva fuori avrebbe pensato a
qualche terribile incidente. Impariamo da questa storia, tra l'altro,
che chi rappresenta la comunità deve pregare per lei ma non deve
isolarsi troppo a lungo. Avvicinandoci ai momenti finali del Kippur, in
cui si firma in Alto la sentenza che ci riguarda, ripetiamo alcune
parole di questa preghiera che è stata letta a Musaf, e che ci
accompagni nei nostri pensieri:
“Che quest'anno possa essere per tutti un anno di benedizione, un anno
favorito dalle piogge e dal sole, un anno ricco di rugiada e di
prodotti abbondanti, un anno di salvezza, un anno di prosperità, un
anno di facile sussistenza, un anno di bene e di gioia; un anno di
libertà, un anno in cui Tu faccia regnare tra noi la concordia e
prosperare tutte le nostre opere...”
חתימה טובה תזכו לשנים רבות
Riccardo Di Segni, rabbino
capo di Roma
|
|