Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Le
due sezioni più corte della Torah, Nitzavìm e Vayelekh, si leggono
spesso a cavallo di Rosh Hashanah. Il paradosso è che Nitzavìm
significa stare fermi, mentre Vayelekh significa andare, camminare. Il
popolo ebraico che sta andando in Israele per costruire un nuovo
progetto viene invitato a fermarsi, “Attém Nitzavìm”, “ Voi starete
fermi…” (Devarìm, 29;9). Viceversa Moshè, che è costretto a fermarsi
nel cammino verso Eretz Israel, è colui che va, che cammina, “Vayelekh
Moshè”, “Moshè andò..” (Devarìm, 31;1). Chi viene sollecitato a
muoversi è bene che ogni tanto si fermi a pensare e ad ascoltare, chi
invece sente bloccato il proprio cammino deve continuare ad andare
avanti fino al limite concesso. Mi sembra questa una sollecitazione
significativa per proiettarci con senso di maturità verso un nuovo
anno. Shanah Tovah umevorechet.
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Dario
Calimani,
anglista
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È
disorientante scoprire l’inatteso. Mentre la crudeltà medievale
dell’Isis minaccia fragili equilibri nell’epoca che si credeva più
moderna e progredita, lo spirito umanitario riappare improvviso e
sorprendente in Germania, dove meno te lo saresti aspettato, e
l’Ungheria, ma anche da noi la Lega, sostiene meschine politiche
localistiche che si nutrono dei cadaveri dei migranti. L’anarchia di
valori fondamentali non condivisi sconquassa, e mentre il cuore piange
di fronte a immagini di morte innocente la mente si perde e si angoscia
di fronte alle prospettive del futuro. Certe parole, programmare,
certezza, razionalità, stanno per sparire dal nostro vocabolario. Si
sta facendo spazio alla follia.
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La guerra in Siria
e l'intervento francese |
La
Francia si prepara a colpire le milizie dello Stato islamico in Siria.
Ad annunciarlo il presidente francese François Hollande: “Vogliamo
sapere cosa si prepara in Siria contro di noi”, ha dichiarato Hollande.
La missione francese si aprirà oggi con una ricognizione del
territorio, poi, “secondo le informazioni che raccoglieremo, potremo
condurre dei raid”. Si tratta di un radicale cambio di rotta per
Parigi, che fino a poche settimane fa considerava i raid aerei in
territorio siriano una mossa da evitare in quanto potenzialmente a
favore di Bashar al-Assad. La Gran Bretagna invece, lontano dai
riflettori si sarebbe già mossa: da Londra, l’ammissione di aver
effettuato il 21 agosto un primo raid in Siria, utilizzando un drone,
che avrebbe ucciso tre esponenti del Califfato. Diversa la posizione
italiana con Roma, come riporta La Stampa, contraria a singoli
interventi di ciascuno Stato. Il premier Matteo Renzi ha ribadito che
l’Italia non si accoderà a questa strategia, chiedendo un progetto di
intervento condiviso da tutta la comunità internazionale.
Israele, morta anche la madre del piccolo Ali. Il Corriere della Sera,
in una breve, e Avvenire raccontano le manifestazioni di rabbia e
protesta nel villaggio palestinese di Duma, in Cisgiordania, esplose
nel corso dei funerali di Reham Dewabsheh, l’ultima vittima del rogo
appiccato lo scorso 31 luglio all’abitazione della famiglia Dewabshesh.
Secondo le autorità di Gerusalemme, i responsabili sono legati agli
ambienti estremisti israeliani e il presidente Rivlin aveva definito
l’attentato come “terrorismo ebraico”. La donna è deceduta per le
ustioni riportate, così come il marito Saed e il figlio di 18 mesi Ali.
Profughi, il nuovo piano Ue. È prevista per questa sera la firma alla
Commissione Europea di una nuova proposta che modifica il patto europeo
sull’asilo e stabilisce nuove quote di distribuzione dei migranti. Non
sarà dunque più possibile respingere le quote di migranti assegnate
dalla Commissione che – sintetizza tra gli altri il Messaggero facendo
un punto della situazione europea – chiede a Germania e Francia di
accogliere la metà dei 120 mila profughi da ricollocare. Grecia,
Ungheria e Italia dovranno invece redistribuire sul territorio Ue
rispettivamente 66 mila, 54 mila e 40 mila rifugiati. Toccherà poi ai
ministri degli Interni dell’Unione Europea approvare il pacchetto di
misure nel consiglio straordinario di lunedì.
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israele
I conti con il terrorismo interno
A
ventiquattro ore dai funerali di Reham Dawabsheh, l'ultima vittima del
rogo di Kfar Duma, (Cisgiordania), un ufficiale dell'esercito
israeliano è tornato a parlare con la stampa israeliana dell'attentato
dello scorso 31 luglio. Lo ha fatto per ribadire, nonostante le
congetture di alcuni, che la mano responsabile dell'attentato che ha
ucciso Reham, suo figlio di 18 mesi Ali e il marito Saad, è di
estremisti ebrei. “Non ci sono dubbi – ha spiegato l'ufficiale di
Tsahal – quello di Duma è stato un atto di terrorismo ebraico”. Nelle
scorse settimane c'era chi, nonostante le prese di posizione del
presidente di Israele Reuven Rivlin (nell'immagine in visita a Ahmed
Dawabsheh, il bambino di cinque anni tra le vittime dell'attentato di
Duma e attualmente ricoverato in un ospedale israeliano) e del primo
ministro Benjamin Netanyahu, aveva messo in dubbio la matrice
estremista dell'attentato, parlando di responsabili interni al mondo
palestinese e presunti regolamenti di conti. “Tutte le congetture e le
speculazioni che sono state diffuse in queste settimane su questo tema
sono completamente prive di fondamento”, il monito del rappresentante
dell'esercito che si è poi rivolto alla famiglia delle vittime,
assicurando – come ribadito ieri dal Premier Netanyahu – l'impegno
delle autorità per assicurare i colpevoli alla giustizia.
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qui venezia - il film di amos gitai
L’ultimo giorno di Yitzhak Rabin
e il grande dramma di Israele
Ai
primi di novembre saranno vent’anni. Vent’anni senza Rabin, per chi in
questo protagonista della storia di Israele ha visto un punto di
riferimento, ma soprattutto vent’anni di un’Israele diverso da quello
che avevano sognato i padri fondatori, un’Israele che ha conosciuto la
macchia della sedizione e della violenza, della politica praticata
attraverso l’eliminazione brutale dell’avversario, dell’omicidio
finalizzato al rovesciamento delle istituzioni.
Era
il 4 novembre del 1995 e vent’anni dopo, il prossimo 4 novembre, nella
maggiore sala cinematografica di Tel Aviv, a pochi metri dalla piazza
dove fu assassinato Yitzhak Rabin e in contemporanea nelle sale
cinematografiche di mezzo mondo, il regista israeliano Amos Gitai ha
deciso di proiettare il suo film dedicato a L’ultimo giorno di Rabin.
Presentato in anteprima ai giornalisti che partecipano alla
settantaduesima Mostra del cinema della Biennale di Venezia, il film
lascia subito comprendere che si tratta di un’operazione destinata a
lasciare il segno.
Lascerà
il segno perché Gitai è certo un personaggio ingombrante e talvolta
anche assai irritante ma resta, comunque lo si voglia considerare, un
grandissimo regista, e di fronte a questa prova impartisce a tutti una
lezione di tecnica e di impegno civile magistrale.
Lascerà
il segno perché il regista nel realizzare una meticolosa ricostruzione
dell’assassinio del primo ministro ad opera di uno squilibrato
cresciuto negli ambienti dell’estremismo religioso israeliano ha potuto
avere accesso a materiali e documenti fino ad ora inediti, o comunque
poco conosciuti. E mettendo in campo la sua professionalità fuori dal
comune ci conduce nella rivisitazione di un momento fondamentale della
dolorosa storia recente di Israele.
È un’operazione capace di mettere bene in equilibrio documenti e
documentari e lavoro di attori formidabili, chiamati in particolare a
rivivere le sedute della Commissione d’inchiesta affidata al giudice
della Corte suprema Meir Shamgar e incaricata di stabilire quali falle
nei sistemi di sicurezza avessero consentito a un terrorista di
infiltrarsi fino a raggiungere Rabin e a colpirlo con tre colpi di
pistola. Gitai evita accuratamente di mettere al centro della scena la
stessa figura del leader laburista israeliano, che appare sullo schermo
solo nei fotogrammi del materiale documentario.
Quello che va cercando, e che riesce impietosamente a trovare, è una
definizione, un ritratto della società israeliana di quei giorni, delle
sue ferite e dei suoi problemi. Chi poteva legittimamente temere che il
film si abbandonasse alle teorie cospirative, alla denuncia di un
cancro interno al mondo politico israeliano, a una corruzione capace di
compromettere le istituzioni e di cui in realtà non è mai emerso alcun
elemento di prova resterà così deluso, perché Gitai evita abilmente il
tranello del semplicismo.
Il film punta invece sul clima di odio e di propaganda che pervase ampi
strati della società israeliana all’indomani degli accordi di Oslo.
Parole, gesti, cerimonie religiose, comizi in cui grondavano i segni di
morte e che videro protagonista anche l’attuale primo ministro
Netanyahu, allora leader dell’opposizione, aprirono secondo Gitai la
strada all’odio e armarono ideologicamente la mano dell’assassino. Non
si tratta della rivelazione di fatti nuovi, perché si tratta di
situazioni già più o meno note, ma di un’abile ricostruzione
cinematografica che restituisce alo spettatore un’emozione molto forte.
Oggi, dopo vent’anni di una politica dell’odio e dell’esclusione che
ammorba purtroppo anche il mondo ebraico e dopo un utilizzo infame e
cinico delle potenzialità dei social network per diffondere frammenti
avvelenati di esclusione, di sospetto, di calunnia, di intolleranza e
di odio possiamo guardare, in Israele e nell’intero mondo ebraico, ai
vent’anni che che ci stanno alle spalle come ai vent’anni della
frattura e del tradimento dagli ideali dei padri fondatori.
Israele,
afferma Gitai, da allora non è guarita dalle sue ferite e non ha
recuperato l’unica energia capace di garantirne l’effettiva sicurezza:
la speranza. Molto abilmente, con un colpo di teatro che ha riportato
lo spettacolo in primo piano, il regista è apparso al Lido in
conferenza stampa chiedendo ai giornalisti di alzarsi per rispettare un
minuto di silenzio in memoria della palestinese Reham Dewabsheh, morta
solo poche ore prima, di suo marito e del figlio di 18 mesi arsi vivi
in una mostruosa azione che la stessa Presidenza della Repubblica di
Israele ha attribuito proprio a quel mondo di estremisti nazionalisti
ultrareligiosi che costituiscono oggi una delle più gravi minacce
all’integrità e alla sicurezza dello Stato ebraico.
La critica internazionale rende oggi omaggio al coraggio del registra
israeliano e afferma in coro che Gitai non fa sconti a nessuno. Questo
è vero solo in parte.
Certamente il regista firma un film solido, rigoroso e per molti
aspetti inattaccabile. Ma di qualche sconto, o almeno di qualche
omissione, la pellicola porta il segno. Quello che Gitai dimentica di
analizzare, e soprattutto quello che al lettore non avvertito rischia
di sfuggire, è la grandezza di Israele e l’immensa moralità del suo
sistema politico. Non è possibile per capire quegli anni sottacere che
gli accordi di Oslo sortirono, come ha ricordato molto efficacemente
anche l’ideologo della destra nazionalista israeliana Israel Harel, un
effetto oggettivamente disastroso. Gli sforzi di pace, quando non
incontrano la disponibilità sincera di una controparte che fu capace di
reagire agli sforzi diplomatici solo con una recrudescenza del
terrorismo contro la popolazione civile, possono tramutarsi in Medio
Oriente in una carneficina. E ovviamente, a meno di non voler cedere a
interpretazioni di comodo che possono piacere solo a chi non si sente
pronto ad assumersi le proprie responsabilità di fronte a un disastro
diplomatico di vaste proporzioni come fu quello rappresentato da Oslo,
non tutti gli oppositori della politica di Rabin possono essere
collocati in quell’area oscura che armò ideologicamente la mano dei
terroristi.
Il lavoro della Commissione Shamgar, inoltre, appare a chi osserva una
dimostrazione di enorme attenzione e dignità delle istituzioni.
E i finanziamenti pubblici israeliani che hanno consentito la
realizzazione di questo film testimoniano di un Paese alle prese con
gravi difficoltà che non è solo l’unica democrazia del Medio Oriente,
ma che ha a disposizione un tale patrimonio di libertà e di democrazia
da potersi permettere, nel perdurare di un governo di segno opposto a
quello che Rabin intendeva rappresentare, di fare onore e di dare voce
a un regista certo grande, ma terribilmente scomodo, e a una
rappresentazione cruda e straziante, ma tutto sommato ancorata alla
sincera ricerca della verità e al dolore di Israele.
gv
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qui mantova
ExLibris, pagine d'arte
Torna
protagonista con la mostra “Gerusalemme di Lettere” allestita presso il
Museo di Palazzo Bondoni Pastorio di Castiglione delle Stiviere
(Mantova), il progetto ExLibris, concepito e sviluppato dall’architetto
David Palterer per raccogliere fondi a finanziamento dell’IIFCA, la
Fondazione Italia Israele per la Cultura e le Arti. Nato come stimolo
per riflettere sul potere dei libri, mediatori tra culture diverse,
ExLibris ha coinvolto numerosi artisti italiani e internazionali, da
Mimmo Paladino a Giosetta Fioroni, che hanno rielaborato le copie di
opere di altrettanti scrittori israeliani lavorando sulla copertina o
tra le pagine e realizzando, in alcuni casi, vere e proprie
sculture.
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qui trieste Il Canto rinnovato
Una
lunghissima fila di persone in attesa di entrare per assistere alla
prima esecuzione assoluta di un’opera di musica classica contemporanea,
le stesse che per tutta la durata del concerto hanno poi ascoltato con
attenzione vera, trasportate dalle note di una composizione complessa
nella sua costruzione e allo stesso tempo capace di arrivare al
pubblico con semplicità, sostenuti in questo dagli interpreti che hanno
saputo condividere, attraverso la loro esecuzione, tutto quello che
avevano tratto dalla partitura andando “al di là del testo”. “Il
Canto”, la rapsodia lirico-sinfonica per soli, coro e orchestra
recentissima composizione di Marco Podda, rappresentata a Trieste
presso il teatro Verdi in occasione della Giornata Europea della
Cultura Ebraica e su iniziativa del coro Kol Ha-Tikvà, coinvolge e
sollecita con dolcezza l’attenzione, si offre all’ascolto vero, propone
la partecipazione di tutte le persone coinvolte che si trovano così in
comunicazione attraverso il suono.
(foto di Tania Troyan)
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qui roma - festival della letteratura Rewalk, un sogno divenuto realtà
Si
parla tanto di sogni quando si descrive Rewalk, l’esoscheletro che
permette a chi ha subito danni alla spina dorsale di camminare, ma sono
sogni che grazie all’ingegnere israeliano Ami Goffer sono già realtà.
Una realtà che al Festival Internazionale di letteratura e cultura ebraica di Roma ha conquistato il pubblico di una serata di
presentazione del macchinario grazie alle parole esperte di Marco
Molinari, neurologo primario e responsabile dei Progetti esoscheletri
della Fondazione Santa Lucia di Roma, dove si accompagnano i pazienti
nell’apprendimento dell’uso di Rewalk e allo stesso tempo si ricerca
per migliorarlo, e Ruggero Raccah, referente scientifico di Argo-
ReWalk Italia, moderati dal giornalista Luigi Contu. Seduto accanto a
loro però non poteva mancare Carmine, un giovane che con l’esoscheletro
ha percorso non solo qualche passo sul palco, ma addirittura un
chilometro della maratona di Roma.
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Rosh hashanah 5776 - qui bologna Un anno per la teshuvah
Nei
tre sabati che precedono Rosh Hashanah, vengono solitamente lette le
tre parashot: Ki tezzè – Ki tavò – Nizzavim (a volte unita con
Vajelekh). La traduzione di queste tre espressioni, con cui iniziano le
tre parashot sono: “Quando uscirai” – “Quando verrai” – “Sarete in
piedi, ritti dinnanzi al Signore”. Un famoso Maestro della tradizione
italiana, sostiene che queste sono le azioni che solitamente, nel corso
della sua vita, un uomo è portato a fare. “Quando uscirai”, indica un
certo momento della nostra vita, quando vogliamo dimostrare la nostra
maturità e indipendenza e per questo lasciamo i nostri genitori,
abbandonando con loro anche gli insegnamenti e le tradizioni che essi,
con tanto amore, hanno cercato di trasmetterci. Subito dopo però, ci
accorgiamo che da soli, senza una base e un sostegno, non riusciamo ad
andare avanti.
Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
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La Storia è cambiata |
Quando
cadde l’Impero romano, nell’anno 476 dell’era volgare, nessuno se ne
rese conto. Allo stesso modo, né Cristoforo Colombo né i contemporanei
seppero di aver scoperto l’America e di aver così cambiato il corso
della Storia. E pochi anni prima, gli abitanti di Bisanzio non
pensarono che l’Impero d’Oriente fosse effettivamente crollato. In
altre parole, furono gli storici a individuare queste “fratture”
(Walter Benjamin) nella sequenza degli avvenimenti, ad annodare il filo
della storia in date divenute convenzionali. È stato detto che nella
contemporaneità, invece, la percezione della rottura è netta, dovuta in
primo luogo all’evidenza delle immagini. L’11 settembre 2001 ognuno
comprese che qualcosa stava cambiando, che il mondo non sarebbe più
stato lo stesso. Non ne ho memoria precisa, ma presumo che altrettanto
accadde con la caduta del muro di Berlino, che non a caso ispirò la
“fine della storia”. Vale lo stesso per la foto del piccolo Aylan
sollevato esanime dalla spiaggia di Bodrum?
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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