Jonathan Sacks, rabbino
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Qualcuno crede che la libertà sia un'illusione. Ma non lo è. È ciò che ci rende umani.
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David
Bidussa,
storico sociale
delle idee
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L’ironia
è una risorsa che hanno i liberi e chi ambisce a rimanerlo. Viceversa,
per i fanatici, è il nemico da abbattere, la risorsa da essiccare.
Giovedì prossimo, 7 gennaio, sarà il primo anniversario dell’attentato
a Charlie Hebdo. Non so come ricorderemo quell’ evento. Se sapremo solo
piangere, i fanatici incasseranno un altro punto a loro favore.
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Tel Aviv, è caccia al killer
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È
ancora aperta, dopo la seconda notte di incessanti ricerche, la caccia
all’uomo a Tel Aviv per arrestare l’autore dell’attentato del primo
dell’anno nel pieno centro della città, identificato come Nashat
Milhem, ventinovenne arabo israeliano. Milhem ha aperto il fuoco in un
bar della frequentatissima rehov Dizengoff, uccidendo due persone, Alon
Bakal, 26 anni, e Shimon Ruimi, 30, e ferendone altre sette. Il
Messaggero tra gli altri riporta le voci di condanna della comunità
arabo-israeliana, che ha preso le distanze dalla violenza, e
l’intervento del primo ministro Benjamin Netanyahu, che si è recato
personalmente sul luogo dell’attentato: “Non sono disposto ad accettare
due Stati all’interno di Israele. Questo periodo è finito. Se si vuole
essere cittadini di Israele e goderne dei diritti – le sue parole –
bisogna rispettarne le regole”.
Un accordo che fa discutere. È
ufficialmente in vigore da ieri l’accordo firmato a giugno con il
quale, di fatto, la Santa Sede riconosce la Palestina come Stato e
appoggia il disegno dei due Stati che vivono uno accanto all’altro “in
pace e in sicurezza sulla base delle frontiere del 1967”. Già nel
giugno scorso le autorità israeliane avevano dichiarato di non poter
accettare “le decisioni unilaterali contenute nell’accordo, che non
prendono in considerazione gli interessi fondamentali di Israele e lo
speciale status storico del popolo ebraico a Gerusalemme”. “In un
contesto cosi delicato il riconoscimento da parte del Vaticano non
aiuta a semplificare il problema. Non è facile ma forse una linea più
prudente avrebbe aiutato di più” dice il rav Giuseppe Laras a
Repubblica. Diverso il parere dello scrittore israeliano Abraham
Yehoshua, intervistato dal quotidiano: “Siccome nel merito della
questione palestinese esso si pronuncia chiaramente a favore della
soluzione dei due Stati, non posso che sostenerlo con tutto il mio
cuore”.
Faida islamica. È
in corso una nuova escalation di violenze tra sciiti e sunniti, che
destabilizza ulteriormente il mondo islamico. A far scattare le nuove
tensioni la decapitazione in Arabia Saudita dell’imam Nimr al Nimr, tra
gli esponenti più rilevanti della minoranza sciita (circa il 25% dei
sauditi), nell’ambito dell’esecuzione record di 47 prigionieri accusati
di “terrorismo” ordinata dalla monarchia di Riad. Durissima reazione
dell’Iran, il cui ministro degli Esteri annuncia che l’uccisione sarà
pagata “a caro prezzo”. L’ambasciata saudita a Teheran è stata
assaltata in nottata con molotov e saccheggi. Scontri di piazza sono
avvenuti anche in altre città iraniane e in Barhein, e anche per oggi
sono previste nuove manifestazioni (Corriere della sera).
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tel aviv - la città ferita
Paure, incognite, speranze
Il racconto degli Italkim
“Se
smettiamo di vivere le nostre vite liberamente, hanno vinto i
terroristi. Domenica si riparte, chi al lavoro chi a scuola”. Come
ricorda Daniela Fubini, la vita a Tel Aviv va avanti. Più forte di ogni
minaccia terroristica. Più forte di chi vorrebbe distruggere i sogni e
le speranze di un intero paese. Un impegno cui non si sottraggono gli
Italkim, gli italiani di Israele. Ecco cosa ci hanno raccontato alcuni
di loro. “Venerdì la Dizengoff era un po’ giù di corda, ma già da ieri
è tornata apparentemente la normalità. D’altronde, si sa, questa è una
città particolare” dice Manuela Dviri, 66 anni, scrittrice e attivista
di origine padovana. La sua casa si trova a poche centinaia di metri
dal luogo dell’attentato tanto che, ci spiega, praticamente ogni giorno
passa davanti al locale preso d’assalto. Anche ieri. “Tel Aviv è
veramente incredibile. Tutto tranquillo. Tutto normale. C’era persino
una festa nel bar all’angolo tra Frishman e Dizengoff” racconta
Manuela. I fatti di venerdì sembrano aprire nuovi interrogativi. Ma,
avverte Dviri, nella consapevolezza di un punto a suo dire non
negoziabile: Israele è un melting pot di anime e identità “che non
possono e non devono staccarsi l’una dall’altra”.
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tel aviv - la città ferita
"La nostra resistenza è vivere"
Venerdì
alle 14.40 ero a casa da un’ora, dopo una mattinata di commissioni e un
caffè con un’amica. Mi apprestavo a rispondere a email e messaggi di
buon anno arrivati in nottata, con radio Galgalaatz in sottofondo, a
volume basso. Per puro caso ho prestato ascolto all’annunciatrice che
con voce calma invitava tutti ad allontanarsi dlala zona Dizengoff /
Ben Gurion (a pochi isolati da dove vivo) per via di una sparatoria.
Nel giro di pochi secondi sono iniziate a passare ambulanze. Qualche
minuto dopo già si sentivano gli elicotteri. Poco dopo le tre, i tre
canali di notizie della televisione erano già in diretta. Il luogo
effettivo dell’attentato non era all’angolo con Ben Gurion, ma fra
Gordon e Frishman. Subito ho iniziato a fare il conto mentale di tutti
gli amici che vivono in zona: per prima ho chiamato l’amica che vive
nella prima parallela a Dizengoff, esattamente alle spalle del pub
“Simta” – era a casa con la bambina piccola e lei e il marito avevano
sentito gli spari. Sembrava tranquilla, tutto sommato. Vedeva dalla
finestra poliziotti che setacciavano le case intorno, entravano e
uscivano dai retri degli edifci. Intanto, uno ad uno, quasi tutti gli
amici scrivevano su Facebook che stavano bene. Il suono delle sirene si
calmava, ma in aria gli elicotteri non smettevano di girare, e chi vive
qui sa che non è buon segno. Se loro sono in cielo, è per segnalare
alla polizia a terra dover dirigersi per trovare i fuggitivi.
All’inizio di shabbat ancora non si sapeva, terrorismo o atto
criminale, ma i corrispondenti dal luogo della sparatoria cominciavano
a parlare di attentato.
Daniela Fubini
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tel aviv - la città ferita
Alon Bakal (1989-2016)
“Shana chadasha. Atchala chadasha”. Un anno nuovo, un nuovo inizio.
Lo scriveva Alon Bakal, 26 anni, tre mesi prima di essere colpito a
morte, lo scorso venerdì, da un terrorista arabo-israeliano nel locale
Simta, dove aveva iniziato a lavorare come manager.
Alon, originario della città di Karmiel, si era trasferito a Tel Aviv
il 4 ottobre dopo aver terminato gli studi ed essersi laureato in
Law&Business Management a Netanya.
“Era un ragazzo speciale, rappresentava tutto il nostro mondo – ha
raccontato il padre David, raggiunto dai giornalisti all’ospedale
Ichilov – Alon era un ragazzo felice e ovunque andava riusciva a far
sorridere chiunque, aveva una luce che illuminava tutto e tutti”. Solo
qualche ora prima, il giovane aveva mandato un messaggio a suo papà per
accogliere insieme il 2016: “Va alla grande, è divertente. Amo la vita”
gli diceva.
Amava la vita, Alon, come un vero telavivi sa fare: tante serate in
discoteca con gli amici, un amore speciale per la squadra del cuore,
l’Hapoel Jerusalem (“Con te ovunque vada” aveva scritto sotto una foto
nella quale mostrava fiero la sciarpa rossonera), e un nuovo lavoro
elettrizzante al Simta, dopo un passato da barman e una lunga carriera
da nottambulo.
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incriminati per il rogo omicida di duma Israele e il terrorismo interno
Due estremisti alla sbarra
Formale
incriminazione per due giovani estremisti ebrei ritenuti responsabili
di un rogo appiccato in estate a Duma, in Cisgiordania, in cui morirono
tre membri di una famiglia palestinese tra cui un bambino di un anno e
mezzo, il piccolo Ali Saad Dawabsha.
Amiram Ben Oliel, 21 anni, è stato accusato di omicidio. L’altro
giovane alla sbarra, che è minorenne e la cui identità non è stata resa
nota, di complicità in omicidio.
Contestualmente altri tre estremisti sono stati incriminati per diversi
episodi di violenza verificatisi negli scorsi mesi, a danni di
cittadini arabi e contro luoghi di culto cattolici. Tutti e tre, stando
alle carte, apparterrebbero a nuclei terroristici ispirati a una
ideologia “razzista” e “nazionalista”. Leggi
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Un libro per il sultano
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Per
Recep Tayyip Erdogan, presidente della Repubblica turca ma anche un po’
sultano (il titolo di califfo, che pure non gli si confarebbe troppo
per ragioni di dottrina, pare gli sia stato già scippato da terzi,
agenti nella regione limitrofa a quella sulla quale il leader maximo, o
caro leader, ovvero duce o qualcosa del genere, vedremo meglio quale
titolo gli si addica nei tempi a venire), colui del quale si dicono le
peggiori cose in fondo, a pensarci meglio, “ha fatto anche delle buone
azioni”. La virgolettatura è di senso, non trattandosi delle vive
parole dell’esponente politico di Ankara. Il riferimento è ad Adolf
Hitler, già “imbianchino boemo” (così si era espresso Paul von
Hindenburg, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco durante la
Prima guerra mondiale, poi esponente del conservatorismo che aprì la
porta ai nazisti, infine Presidente della Repubblica di Weimar e notaio
degli interessi del fascismo tedesco), poi caporale ed infine Führer
dell’impero che sarebbe dovuto durare mille anni. Di ritorno da un
viaggio in Arabia Saudita, dove evidentemente di totalità e
fondamentalismi una qualche cognizione debbono pure averla, ad una
specifica domanda sulla preferibilità di un modello rigorosamente
presidenziale – in un paese, va ricordato, di quasi ottanta milioni di
anime, dove a tutt’oggi vige un sempre più precario sistema
istituzionale basato sul parlamentarismo e nel quale le figure del
presidente della Repubblica e quella del Primo ministro dovrebbero
essere ancora rigorosamente separate – Erdogan, elogiandone le qualità,
si è così espresso: “Ci sono esempi in tutto il mondo e ci sono esempi
anche del passato. Quando guardate alla Germania di Hitler, lo vedete”.
Claudio Vercelli
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Il settimanaAle - La maledizione
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Se
la prendeva con Ezra lo scriba Gershom Schocken in un articolo del 29
Agosto 1985, ripubblicato da Haaretz il 1 gennaio. Schocken, che ha
diretto il giornale per oltre mezzo secolo, dal 1939 fino alla morte
nel 1990, era arrivato a vedere nella proibizione dei matrimoni misti,
violentemente imposta da Ezra sui reduci da Babilonia, una maledizione
per il popolo ebraico. Manifestatasi come maledizione non negli oltre
duemila anni di assoggettamento alla dominazione altrui, che anzi
allora ha preservato l’identità ebraica, bensì nei relativamente brevi
periodi di indipendenza politica, con gli asmonei ma soprattutto poi
con lo stato d’Israele, che quando scriveva Schocken non era neanche
quarantenne. Vietare i matrimoni misti significa impedire non solo
l’assimilazione ma anche rapporti normali con le minoranze presenti sul
territorio nazionale; possono solo o essere cacciate o vivere in
conflitto permanente, escluse dalla società, in regime di apartheid.
Ciascuno di noi conosce amici arabi che vorrebbero integrarsi nella
nostra società, scrive Schocken, se solo glielo permettessimo. Cita i
noti esempi biblici e i pochi casi contemporanei di unioni fra ebree ed
arabi, e si dice convinto che il fenomeno rimarrebbe comunque
numericamente marginale; ma il divieto è “una maledizione da cui
dobbiamo liberarci”.
Novello Ezra, il ministro dell’Istruzione Bennett ha ora esteso la
proibizione dai rapporti sentimentali al semplice leggere a scuola di
tali rapporti nel libro di Dorit Rabinyan Gader Haya, che racconta
della storia d’amore fra una traduttrice israeliana e un artista
palestinese. La lettura minerebbe i valori dell’ebraismo.
Alessandro Treves, neuroscienziato
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