Paolo Sciunnach,
insegnante
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Moshe chiede a D-o: "Chi sono io che possa andare dal Faraone, che possa far uscire il figli di Israele dall'Egitto?".
La risposta di D-o consiste nel dare a Moshe tre segni concreti che
rappresentano le qualità intrinseche nella personalità di Moshe che lo
rendono degno dell'incarico ricevuto: un bastone si trasforma in
serpente; la mano di Moshe diventa bianca; l'acqua si trasforma in
sangue.
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Anna
Foa,
storica
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Ne scrive Alessandro Treves
su Pagine Ebraiche 24 di ieri. La questione del libro proibito nelle
scuole perché parla dell’amore tra un’ebrea e un musulmano è una
questione che mina la libertà di pensiero e che riporta l’attenzione
sulla questione dei matrimoni misti e dell’integrazione (che alcuni
chiamano assimilazione). Rincara Haaretz di oggi scrivendo che, eppure,
nelle scuole israeliane si leggono molti libri in cui parla dell’amore
tra ebrei e non ebrei. Il più importante è la Bibbia.
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Crisi tra Riad-Teheran,
minaccia globale |
La
crisi tra Arabia Saudita e Iran al centro delle cronache. Un punto di
rottura che non può essere ignorato dall’Occidente e specialmente
dall’America, scrive tra gli altri Stampa. Intervistato dal Giorno, il
demografo Sergio Della Pergola afferma: “Dire basta con l’Arabia
Saudita è una delle più grosse sciocchezze che si possano immaginare”.
Quale quindi la bussola che deve indicare la rotta?
“L’atteggiamento nei confronti di Israele, dello stato moderno e
dell’Occidente. Se dal Libano arriva un missile sciita o da Gaza uno
sunnita, non fa una grande differenza. La discussione sullo scontro fra
sunniti e sciiti – spiega lo studioso – crea solo confusione”.
Tel Aviv, caccia al killer.
Continua senza sosta la ricerca del terrorista che venerdì ha aperto il
fuoco davanti a un pub di Tel Aviv, uccidendo due giovani. Si rafforza
intanto la pista che lo vedrebbe responsabile anche dell’omicidio di un
tassista arabo-israeliano.
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comunità ebraica in festa
Milano, 150 anni da protagonisti
Se
la Storia fosse un film, questo sarebbe il momento di uno di quei
flashback in cui lo schermo diventa improvvisamente di uno sbiadito
color seppia come se così si potesse tornare a vivere anni lontani.
La Comunità ebraica di Milano inizia infatti a ricordare il
centocinquantesimo anniversario dalla sua fondazione, preparandosi a un
2016 ricco di momenti lieti e di riflessione per celebrare una presenza
che accompagna l’Italia fin praticamente dalla sua nascita. E allora,
dissolvenza.
Era il 1866, l’Italia neonata combatteva ancora la Terza guerra
d’indipendenza mentre Milano era ancora in fermento dopo quelle famose
Cinque Giornate che diedero inizio al tutto.
Prima di allora, gli ebrei nella città in mano ai Visconti e agli
Sforza non potevano risiedere per più di tre giorni per affari, e
dunque la presenza di un gruppo organizzato risale solo all’inizio
dell’800 e in ogni caso nato come sezione della Comunità ebraica di
Mantova, invece ben nutrita.
Con l’Unità d’Italia però gli ebrei mantovani stessi cominciarono a
stabilirsi nel capoluogo lombardo e così quello scarno nucleo crebbe a
tal punto che diventò più grande di quello originario e così nel 1866
per l’appunto si costituì un “Consorzio israelitico”, basato sul
principio della adesione volontaria, i cui iscritti si impegnavano a
pagare le tasse per il suo mantenimento.
La Comunità crebbe in fretta e si raccolse dapprima attorno a un
piccolo centro in via Stampa, contiguo all’appartamento del rabbino
Prospero Moisè Ariani.
Nel 1892 fu poi inaugurato il Tempio di via Guastalla, che con gli
annessi uffici divenne il centro della vita liturgica. Poi si aprirono
anche le scuole in un edificio in via Disciplini 11, dapprima un asilo
al quale nel 1920 si aggiunsero le classi elementari, poi trasferite
nel 1928 in una nuova sede in via Eupili.
La Comunità si allargava ancora, ma poco dopo iniziarono gli anni duri
delle leggi razziste e delle persecuzioni. Furono però anche anni di
impegno, legati soprattutto all’attività della Desalem, la Delegazione
per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei, l’ente creato nel 1938
dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per aiutare i profughi
ebrei che fuggivano dai paesi sotto il controllo del Terzo Reich. Circa
5 mila ebrei espatriarono da Milano per raggiungere la Palestina o
l’America e l’attività della Desalem proseguì fino al 1943, quando la
sede fu distrutta da un bombardamento, e poi anche dopo
clandestinamente dando
assistenza e rifugio agli ebrei rimasti in città e ai numerosi di passaggio verso l’espatrio clandestino in Svizzera.
La Shoah colpì però duramente la Comunità, dei cui 896 deportati nei
campi di sterminio solo 50 tornarono a casa. Nell’agosto del 1943 anche
il Tempio di via Guastalla era stato gravemente danneggiato e
semidistrutto da un’incursione aerea.
Con la Liberazione, in attesa che fossero riparati gli edifici
danneggiati dalla guerra, la Comunità ottenne in affitto il Palazzo
Odescalschi, in via Unione 5, e riaprì la scuola. Intanto continuavano
i viaggi clandestini verso la Palestina mandataria con l’aiuto della
Brigata Ebraica.
Nel 1953 furono terminati anche i lavori di ricostruzione della
sinagoga di via della Guastalla, nuovamente ristrutturata poi anche nel
1997.
Nel 1964 le scuole ebbero la loro nuova sede nel grande complesso di
via Sally Mayer 4/6 ma in via Eupili rimangono ancora una sinagoga, il
Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec) e la sede del
Benè Berith.
Dal dopoguerra in poi la crescita demografica della Comunità si è
arricchita di nuovi apporti, in particolare da paesi arabi come Libia,
Egitto, Siria, Iraq, Libano, nonché dalla Turchia e dall’Iran, dando
vita ai numerosi gruppi etnici (o edot) che oggi la contraddistinguono
nella sua particolarità nel panorama italiano. E così si torna al film
a colori, i molti colori della Comunità ebraica di Milano. Per dare un
primo assaggio dei grandi festeggiamenti che attendono il 2016, Italia
Ebraica ha dunque chiesto ad alcuni dei presidenti e dei rabbini che
hanno segnato la sua storia recente di condividere un loro pensiero.
Francesca Matalon
“150 anni da celebrare con la città”
Sono
Raffaele Besso (nell’immagine a sinistra) e Milo Hasbani ad avere congiuntamente
in mano le redini della Comunità ebraica di Milano proprio mentre
questa compie i suoi primi centocinquant’anni, e di certo non intendono
far passare l’evento inosservato. “È un anniversario importante e tra
le varie iniziative che organizzeremo per ricordarlo – annuncia Milo Hasbani
– abbiamo deciso di dedicarvi il festival di cultura ebraica Jewish
& the City, che si terrà in primavera”.
Un evento di grande richiamo, giunto ormai alla sua terza edizione, che
chiama a raccolta la cittadinanza intorno alla Comunità, che dunque
festeggerà con tutta la sua Milano. Del resto, fa notare Besso, un
rapporto stretto con il territorio è da sempre tra le priorità della
kehillah: “I rapporti con le istituzioni cittadine sono sempre stati
ottimi, e per il futuro spero che potremo continuare in questa
direzione, mantenendo sempre vivo il dialogo anche con le altre realtà
religiose”.
“Comunità, questione di famiglia”
“Quando
penso alla Comunità ebraica penso alla mia famiglia, arrivata a Milano
negli anni ’70 del 1800 e impegnata da sempre in prima persona da sette
generazioni”.
A raccontarlo è Roberto Jarach, ex presidente della Comunità, attuale
vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, figlio di
Guido Jarach, che fu a sua volta presidente. La sua famiglia ha davvero
vissuto tutti i primi 150 anni della realtà ebraica milanese, e del suo
lavoro Jarach ricorda in particolare quello sul fronte della scuola.
Come assessore per un decennio nonché come vicepresidente della ORT
Italia, ricorda, “ho partecipato alla riforma della scuola superiore
portata a termine nel 1987 e la mia presenza nell’istituto è stata
quotidiana”. Una responsabilità di cui Jarach si è sempre fatto
portatore in quanto “la politica non mi interessa, ho sempre accolto le
autorità locali e nazionali perché era mio dovere, ma ho sempre
preferito dedicare il mio impegno alla scuola e al futuro della
Comunità”.
“L’Intesa, un momento storico”
Sono
stati anni di grandi cambiamenti quelli tra il 1982 e il 1990, gli anni
che Giorgio Sacerdoti, professore all’Università Bocconi e consigliere
UCEI, ha vissuto da presidente della Comunità ebraica. La sua carriera
comunitaria è iniziata a dire il vero anche qualche anno prima, nel
1972. “Mi ero candidato per la prima volta ed ero risultato primo dei
non eletti – racconta – e ricordo dunque che Massimo Della Pergola
decise di non accettare l’incarico per lasciare spazio a un giovane”.
Con Italia Ebraica Sacerdoti ripercorre tutte le date salienti di quel
decennio: ci fu il trasferimento della scuola da via Eupili e anche
quello della casa di riposo da via Jommelli, e nel 1987 la firma
dell’intesa tra lo Stato e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
grazie alla quale ci fu una svolta nell’indipendenza delle Comunità,
che da quel momento ebbe un suo statuto.
“Prima dell’Intesa era tutto diverso – ricorda Sacerdoti – e infatti
quando fui eletto presidente per la prima volta dovetti ricevere
l’approvazione da parte dal prefetto”.
“La scuola, il cuore della Keillah”
C’è
un po’ di dispiacere nella voce di Cobi Benatoff, consigliere UCEI e
presidente della Comunità di Milano dal 1990 al 1998, nell’osservare
che da quel periodo ad adesso il numero di iscritti ha visto un calo,
dovuto a tanti fattori tra cui identifica “la crisi del 2008, ma anche
la decisione di molti giovani di andare all’estero”.
Tuttavia l’ottimismo e la determinazione a dare un contributo attivo
alla vitalità della realtà ebraica milanese tornano forti mentre
racconta il suo impegno per l’educazione, che lo ha portato nel 2000 a
guidare la nascita della Fondazione per la scuola della Comunità
ebraica di Milano, spinto dall’urgenza di fare qualcosa di concreto per
salvare l’istituto che versava in gravi condizioni economiche e
facendosi carico delle rette per aiutare le famiglie che volevano
iscrivere i propri figli.
“Credo che mantenere la scuola funzionante sia una assoluta priorità,
in quanto la storia mostra come sia ciò che garantisce una certa
continuità alla Comunità”.
“La ricchezza di avere tante edot”
Quella
del rabbino capo di Milano Alfonso Arbib, in carica dal 2005, è una
prospettiva particolare. “Mentre Roma è una Comunità omogenea, Milano è
tutto il contrario, e non è facile abituarsi alla sua disomogeneità.
Dopo il primo impatto, al mio arrivo trent’anni fa, ho imparato ad
apprezzarlo. E questo perché è una realtà molto più internazionale e in
qualche modo più simile a Israele ma anche all’Europa, e poi perché
proprio questa disomogeneità data dalla compresenza di più edot –
racconta – costituisce una grande ricchezza”.
Un elemento positivo, dunque, “di cui non si parla, perché la
tradizione ebraica spesso ci porta a confrontarci prima con i
problemi”. Le sfide da intraprendere sono tante. Tra le altre rav Arbib
sottolinea la necessità di “riavvicinare coloro che si sono allontanati
dall’ebraismo e dalla Comunità”. E la volontà di lavorare “con e per i
giovani”.
“La sfida di parlare ad anime diverse”
“Sono
stato rabbino capo per 25 anni, ma non me ne sono mai accorto”. Ripensa
così al suo lungo mandato il rav Giuseppe Laras, presidente del
Tribunale rabbinico del Centro Nord-Italia. “All’epoca – racconta –
arrivavo da Livorno, una Comunità omogenea come tutte quelle del
territorio italiano, e mi ritrovai a Milano dove la Comunità era
eterogenea, formata invece da tanti gruppi diversi e dunque il problema
fu quello di dover trovare un linguaggio comune facendole vivere in una
realtà ebraica unitaria”.
Nel portare a termine questo compito, aggiunge il rav, “ho conosciuto
tanta gente, sono entrato nelle loro case,e quando ho annunciato le mie
dimissioni alcuni mi hanno espresso grande affetto”. Certo ci furono
problemi e non fu tutto sempre facile, sottolinea rav Laras, ma in
fondo “fare il rabbino capo non può essere una questione di comodo, e
credo che nessuno che abbia ricoperto l’incarico possa dire di
essersene stato tranquillo”.
“Comunità, quando era come casa”
“La
Comunità di Milano è come casa mia” afferma il rav Elia Richetti, la
cui famiglia ha sempre partecipato attivamente e in prima persona alla
vita comunitaria ricoprendo cariche istituzionali oltre che rabbiniche
(tra gli altri, suo nonno Ermanno Friedenthal è stato rabbino capo).
Tuttavia, aggiunge, “quella che ho vissuto come casa mia oggi non c’è
più”. Il rav fa riferimento all’arrivo, in un periodo che localizza
verso la fine degli anni ’80, di varie famiglie provenienti da varie
zone che a poco a poco hanno, a suo dire, portato al “formarsi di vari
gruppi simili al modello delle congregazioni a tal punto che la
Comunità ha cominciato a non essere più vissuta come prima, quando ci
si sentiva tutti parte di un’unica entità”.
La soluzione per Richetti è mediare tra questa frammentazione e
l’esigenza di un punto di riferimento unitario attraverso la creazione
di una “confederazione”. Per il futuro dunque si augura che “cresca
questa consapevolezza e che grazie a essa i vari gruppi costituiscano
uno stimolo reciproco per lo studio e le tradizioni ebraiche”.
“Lo studio, una chiave per il futuro”
“Voglio davvero bene ai membri della Comunità ebraica di Milano”.
È sentita e spontanea la dichiarazione d’affetto del rav Shmuel Rodal,
che gestisce il tempio chabad Beit Shlomo, nel pieno centro della
città, la cui storia è legata all’accoglienza di rifugiati scampati
allo sterminio nazifascista nel periodo dopo la liberazione fungendo da
tappa nel viaggio verso Israele. In questo anniversario importante il
rav Rodal vuole guardare al futuro.
“Noto con grande dispiacere che all’interno della Comunità sembra
esserci poca partecipazione alle occasioni di studio della Torah e
delle tradizioni ebraiche”, osserva. Una disaffezione che secondo lui è
minore di quella che si registrava un tempo, ma contro cui è comunque
necessario intervenire nei prossimi anni. Il suo augurio è dunque che
vi sia un maggiore avvicinamento alla religione dal momento che,
sottolinea, “il benessere materiale non può mai bastare da solo, deve
essere sempre accompagnato anche da un benessere spirituale”.
(Nelle
due immagini, l'inaugurazione della sinagoga centrale di via della
Guastalla, riaperta nel 1953 una volta ultimati i lavori di
ricostruzione iniziati nel 1947, e una foto odierna della facciata
della sinagoga).
Italia Ebraica, gennaio 2016
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israele - l'intero paese in lutto
Alon e Shimon, l'ultimo saluto
Il
dolore lancinante della perdita di un figlio, di un nipote. Il cuore in
frantumi ripensando ai sogni e alle speranze strappate a due ragazzi che
marciavano con il sorriso verso il futuro.
Sono
migliaia le persone che ieri hanno partecipato ai funerali Alon Bakal,
26 anni e Shimon Ruimi, 30enne, uccisi lo scorso venerdì da un
terrorista arabo-israeliano, ancora latitante, che ha aperto il fuoco
davanti a un pub nel centro di Tel Aviv. Bakal, manager del locale, è
stato seppellito nella sua città di origine, Karmiel, di fronte agli
occhi attoniti dei genitori David e Nitzah. “Il mio principe – ha
mormorato la madre Nitzah – ci lascia qui in pezzi”.
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informazione - international edition
La vita che vince sull'odio
Una
distesa di candele, un mare di persone, al pub Simta. Dopo l’attentato
di venerdì scorso, Daniela Fubini nel suo Double Life offre ai lettori
di Pagine Ebraiche International Edition una testimonianza speciale da
Tel Aviv, città ferita ma pronta a rialzarsi, che rende omaggio alle
vittime del terrore, ma non si lascia scoraggiare e continua a vivere.
Riportare le religioni al centro del dibattito riguardante le sfide del
nuovo millennio: lotta al terrorismo, ma anche emergenza sociale,
protezione dell’ambiente, valori della famiglia. È tra i punti
sollevati dal presidente dell’Assemblea rabbinica italiana rav Giuseppe
Momigliano, a pochi giorni dalla visita di Jorge Bergoglio alla
sinagoga di Roma. Come raccontato ai lettori internazionali,
nell’intervista pubblicata sul numero di gennaio del giornale
dell’ebraismo italiano, il rav offre la sua prospettiva sullo stato
dell’arte per quanto riguarda il dialogo interreligioso e i rapporti
con la Chiesa cattolica.
Rossella Tercatin
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Oltremare
- A casa mia
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Questa
è casa mia. Mercoledì scorso ho festeggiato gli otto anni dalla mia
aliyah, con alcuni amici, in un locale non lontano e non molto diverso
da quello attaccato venerdì pomeriggio. Era sera, e ho chiesto un
tavolo all’interno. Fosse stato giorno, fosse stato un po’ meno freddo,
come capita a volte anche a fine dicembre, ci saremmo seduti fuori,
come i ragazzi al “Simtà”. Venerdì nel primo pomeriggio, nell’ora di
punta del fine settimana, quando tutti, religiosi e laici, sono in giro
a far compere o seduti in un bar, sono passata senza farci caso a pochi
metri dal “Simtà”, un pub che non conoscevo. Qui i locali come quello
spuntano come funghi. Ma mentre poco dopo a casa guardavo le prime
immagini dei corrispondenti arrivati sul luogo in tempo record, a ogni
fotogramma mi rendevo sempre più conto del luogo esatto di cui si
parlava. Anise, il negozio di cibi naturali dal quale l’attentatore ha
sparato. Japanika, il sushi con la vetrina frantumata.
Daniela Fubini, Tel Aviv
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