I GRANDI LIBRI DEL 5776 – ‘NON LUOGO A PROCEDERE’
Magris: "Scrivo contro il trauma della Storia"
Francoforte,
ottobre 2009. Nel giorno in cui la Buchmesse, il massimo momento
d’incontro dell’editoria mondiale, chiude i battenti, l’insigne
germanista e scrittore Claudio Magris attraversa la piazza dove nel
maggio del 1933 i nazisti bruciavano i libri, poi sale i gradini della
Paulskirche, il tempio della democrazia tedesca, per accettare il
Friedenspreis, primo italiano a ricevere il più prestigioso
riconoscimento culturale europeo. Ai mille invitati che assieme al
Nobel per la letteratura Herta Mueller lo accolgono calorosamente tocca
un discorso d’accettazione del tutto inatteso, l’evocazione di un
personaggio inquietante e per molti del tutto sconosciuto. “A Trieste –
esordisce Magris – nei grandi capannoni e cortili di una vecchia
caserma abbandonata, si possono vedere, affiancati o sparsi in
disordine come carcasse di mostri marini lasciati su una spiaggia dal
riflusso di un maremoto, carri armati, sommergibili squarciati, cannoni
anticarro, autoblinde, aeroplani dall’ala fracassata; in altri vani si
allineano relitti guerreschi più piccoli, gavette sfondate, cornette
telefoniche da campo strappate, bossoli, elmetti, manifesti di guerra.
Un tempo quello era il regno di un personaggio bizzarro, Diego de
Henriquez…”.
Sei anni dopo, all’indomani della pubblicazione della sua più recente e
probabilmente della sua più alta prova letteraria, il nostro incontro è
ancora a Francoforte e ancora al margine della grande fiera dove
l’editoria che conta si dà appuntamento. Il gruppo editoriale Mauri
Spagnol, che controlla le edizioni Garzanti, sfoggia con orgoglio
questo fresco di stampa Non luogo a procedere in
cui Magris dà corpo all’ossessionante ombra del professor De Henriquez
per poi prendere liberamente il largo della grande letteratura.
Lasciamo ad altre pagine del giornale l’analisi di una prova letteraria
di grande forza e di grande significato per il mondo ebraico e per
tutti coloro che amano la libertà e la pace, e ascoltiamo il racconto
dell’autore.
“La figura di De Henriquez che evocai allora a Francoforte – confessa
Magris – mi assillava già al tempo e ha continuato a seguirmi in questi
anni. Non luogo a procedere è
dichiaratamente ispirato alla vita e al dramma di questo personaggio.
Detto questo è però necessario chiarire che ho voluto scrivere un libro
di creazione letteraria e di libero pensiero, non la biografia di un
personaggio realmente esistito. Sarebbe arbitrario nei confronti di De
Henriquez, che ebbe una vita estremamente complessa, e nei confronti di
quello che ho scritto”.
Questo personaggio, professore, lei lo incontrò più volte.
Certo, l’ho incontrato. Mi veniva incontro negli ultimi anni della sua
vita parlandomi in tedesco di tante sue ossessioni e di tante idee
smisurate, del progetto di costruire un museo della guerra per la pace,
di teorie scientifiche assai strampalate, della sua ossessione di
annotare ogni dettaglio della vita reale. Quei dettagli che oggi si
trovano nell’immenso corpus dei suoi diari.
Fu allora che cominciò a suscitare la sua curiosità?
A Trieste non è infrequente incontrare personaggi originali. Ma lui,
che si occupava di collezionare armamenti pesanti e altre diavolerie,
in realtà mi aiutò a comprendere meglio quello quello che aveva detto
Svevo: non c’è nulla di più originale della vita. La vita è così
originale che di inventare quasi ti passa la voglia.
Qualche esempio?
I Lager dell’Isola calva (Goli Otok) nell’alto Adriatico. Qui, a pochi
passi dal confine italiano, nella Jugoslavia di Tito finirono non solo
fascisti ustascia macchiatisi di orrendi crimini durante la Seconda
guerra mondiale e alcuni delinquenti comuni, ma anche e soprattutto
deportati politici e, quei comunisti, compagni nella lotta di
resistenza partigiana contro nazismo e fascismo che, quando Tito nel
1948 ruppe con Stalin, erano rimasti fedeli, per fede nell’idea
universale marxista, al comunismo ortodosso. Fra loro anche circa
duemila italiani, militanti comunisti che avevano conosciuto le galere
fasciste e i campi nazisti, che si erano battuti in Spagna contro
Franco ed erano andati con entusiasmo in Jugoslavia per contribuire a
edificare il socialismo nel Paese più vicino. In quell’inferno,
sottoposti a maltrattamenti e torture, ignorati da tutti, resistettero
eroicamente e paradossalmente in nome di Stalin, massimo inventore di
Gulag. Quando, dopo alcuni anni, i superstiti furono liberati e
tornarono in Italia, vennero tartassati dalla polizia quali pericolosi
comunisti provenienti dall’Est e osteggiati dal Pci quali scomodi
testimoni della politica stalinista del partito che si voleva
dimenticare. Ma il supremo paradosso è che infine trovarono le loro
abitazioni occupate dai profughi istriani, a loro volta giunti in
Italia per fuggire alla dittatura.
Non è la sola terribile beffa del Novecento.
No di certo. E incessantemente la realtà mette in guardia la
letteratura e travalica la fantasia. Nessuno avrebbe potuto inventare
la conferenza di Wannsee e soprattutto chi avesse immaginato la Shoah
sarebbe stato probabilmente preso per pazzo. È proprio la Shoah,
l’orrore che non può essere assimilato ad alcun altro orrore, il punto
più inimmaginabile dove la realtà ci ha condotti.
Eppure, come Non luogo a procedere mette in evidenza, neppure questo è bastato a metterci al riparo dall’odio e dalla guerra.
Proprio questa è la lezione che il Novecento ci ha riservato. La
speranza tradita, l’ideale di una nuova umanità che avrebbe posto fine
a ogni conflitto sono evidentemente idee destituite di fondamento.
Anzi, direi che con lo scorrere del tempo viene a nudo una sempre
maggiore mancanza di senso nelle cose. Parliamo di terza, di quarta
guerra mondiale, ma non sappiamo più chi combatte contro chi. Assad, è
un nostro nemico o un nostro amico? Le ondate di odio e distruzione cui
stiamo assistendo, da cosa sono realmente originate? E dove possono
condurci? E la filosofia, la letteratura tornano in gioco con i loro
segnali inquietanti, dall’ideale dell’Ultrauomo di Nietsche alle
catastrofiche previsioni di Svevo.
È il segno della fine degli ideali, delle speranze?
Una volta ho accompagnato alle porte di Trieste il grande storico
austriaco Adam Wandruszka, in un cimitero militare austroungarico dove
è sepolto suo padre, morto sul Carso per difendere i confini
dell’Impero. Allora mi ha raccontato che partendo per il fronte il
padre aveva lasciato alla moglie incinta il desiderio, se fosse nato un
maschio, di dargli il nome del primo uomo. Da quella guerra, diceva con
convinzione, sarebbe nato l’uomo nuovo, fraternamente amico di tutti
gli altri, perché dopo quella guerra non ce ne sarebbero state mai più
altre e il mondo sarebbe divenuto – o ritornato – un paradiso
terrestre. Sappiamo tutti quello che è seguito.
E sappiamo che ancora e ancora di nuovo la realtà ha superato agevolmente la fantasia.
Se così non fosse non avremmo l’incubo del ritorno agli orrori del passato. Quello che avvenne
cento anni fa con il primo conflitto mondiale portò direttamente alla
Seconda guerra. Se la realtà non avesse sopravanzato la fantasia e il
delirio hitleriano non avesse concepito il tentativo mostruoso e
demenziale di distruggere il popolo ebraico, forse le dittature europee
sarebbero rimaste al loro posto molto a lungo. La verità è che il
popolo ebraico ha pagato per tutti e a costo di indicibili sofferenze
il prezzo della nostra libertà portando da solo il peso della salvezza
del mondo.
Si parla continuamente di Memoria, ma cosa dobbiamo davvero trasmettere ai giovani di quello che avvenne?
Dobbiamo dire loro che non si parla mai con chi ti punta il coltello
alla gola. Non c’è posto per il pacifismo quando si affronta una
minaccia mortale. Che quelli erano stati tempi, come ha spiegato Thomas
Mann, in cui tutto era facile proprio perché tutto era difficile.
Che cosa intendeva dire, effettivamente, il massimo rappresentante dell’Altra Germania?
Mann disse ironicamente che gli anni della durissima opposizione alla
dittatura furono i tempi più facili. Perché ogni scelta era chiara e
chi voleva stare dalla parte della morale sapeva bene cosa scegliere.
Nei suoi recenti interventi proprio in relazione a Non luogo a procedere ha evocato i nomi di altri grandi personaggi ingiustamente dimenticati, come Elody Oblath, Enrico Rocca ed Ercole Miani.
È vero. Hanno rappresentato in pieno la tragedia di chi è costretto a
scegliere fra la verità e la patria. La loro esistenza, il loro tragico
destino, il conflitto insanabile fra amore per la patria, amore per la
libertà, segno identitario. “Ogni nostra azione – scriveva Rocca,
l’ebreo goriziano, forse il germanista più geniale e misconosciuto che
ci fu donato e morì suicida nel 1944 di fronte alla vergogna della
patria – è un seme di cui non si conosce il frutto”.
È questo il non luogo a procedere, l’enigma ultimo del libro?
Sul
territorio della scrittura, per ripercorrere i nostri destini ho
cercato di coniugare l’yiddish e il creolo. E in fondo volevo dire che
la letteratura non è una parentesi nella vita, ma è una forza che
cambia e trascina le esistenze. Può rappresentare la nostra ultima
speranza, la nostra ultima possibile via d’uscita, l’unica decisione
che ci dà la forza di opporci al male che ci opprime.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche, novembre 2015
(Il disegno è di Giorgio Albertini)