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Speciale 9 Av 5777 - 1 Agosto 2017
PAGINE EBRAICHE 24

davar
tishà be av 5777
Paradossi

Questo pensiero su Tishà Be Av esce nell’ora di Minchà, la preghiera pomeridiana, durante la quale i nostri Maestri hanno voluto inserire alcuni elementi di consolazione. Si indossano il Tallit e i Tefillin che non si sono messi al mattino, si riaccendono le luci delle sinagoghe lasciate spente da ieri al tramonto, non ci si siede per terra come abbiamo fatto ieri sera e questa mattina, le melodie della Tefillà tornano a normalizzarsi. Tutto ciò perché ci è stato tramandato che proprio in questa ora della giornata le fiamme dell’incendio del Bet Ha- Miqdàsh sono iniziate a diminuire. In verità, in ottemperanza all’insegnamento del Midràsh Ekhà Rabbà: “…nel giorno in cui è stato distrutto il Santuario è nato il liberatore…”, la tradizione ebraica sottolinea lo stretto legame tra distruzione e liberazione. La rovina non è mai definitiva, e il punto più basso della caduta è anche l’inizio della risalita. La vita e la morte, la gioia e il dolore non sono vissuti necessariamente come due momenti staccati; è anzi piuttosto ricorrente in tutta la vita ebraica, che anche nel momento in cui la morte e la distruzione sembrano prevalere, la Tradizione ci indica la strada per fare riemergere la vita. È questo atteggiamento che spiega il paradosso di Tishà Be Av, il digiuno del 9 di Av. Se da una parte è un giorno di lutto che riassume in sé la memoria di tutte le esperienze più tragiche della nostra storia, le più antiche assieme alle più recenti, dall’altra è considerato “Moèd”, giorno di festa: è questo infatti il motivo per cui non si recita il Tachannùn la preghiera di supplica dei giorni feriali. Stabilendo questa regola, i Maestri hanno voluto esprimere non solo la speranza, ma la certezza che così come le profezie di distruzione e dispersione si erano realizzate, così pure quelle di consolazione e redenzione non tarderanno a manifestarsi. È antica consuetudine presso le nostre Comunità conservare la candela, alla cui luce ieri sera abbiamo letto il libro delle Lamentazioni, e accenderci i lumi di Chanukkà. Quella piccola fiammella che ha accompagnato i nostri momenti più sciagurati è la stessa che da luce ai nostri momenti più lieti. Questa associazione paradossale tra Chanukkà, la festa che celebra la riconsacrazione del Tempio, e Tishà Be Av, il giorno che ne ricorda la distruzione può essere capito ricordando quando affermano i Maestri, e cioè che proprio il giorno in cui fu distrutto il Santuario, nacque il Messia, simbolo della redenzione di Israele dalle leggi della storia che lo vorrebbero già scomparso e della consacrazione di Israele alla sua funzione. Si racconta che durante un 9 di Av di tre secoli fa Napoleone, passando davanti a un Bet ha Keneset dopo aver udito le elegie struggenti dei fedeli per il lutto della distruzione del Tempio, dichiarò a chi gli era vicino che un popolo che piangeva in quel modo la distruzione del suo Santuario, dopo 17 secoli, nessuno avrebbe potuto annientarlo.
L’ebraismo è la sola grande religione che considera una “rovina” come il più sacro dei luoghi. Questo è un elemento essenziale nella struttura del pensiero ebraico.
Mentre ogni grande cultura dell’antichità è sprofondata inesorabilmente in una dimensione archeologica, il paradosso del “Hurbàn”, “la distruzione”, consiste proprio nell’aver consentito la sopravvivenza del popolo ebraico.
Proprio questa straordinaria, soprannaturale e paradossale capacità di sopravvivenza ha suscitato innumerevoli interrogativi. La caduta di quello che poteva equivalere al concetto del nostro “Santuario” ha determinato la scomparsa di tutte quelle culture coinvolte in un processo storico apparentemente ineluttabile. Se l’ebraismo ha potuto sfuggire a questa sorte è perché un edificio invisibile si è sostituito a quello di pietra, come se l’edificio di pietra non fosse stato altro che l’immagine manifesta e la dimensione tangibile di un Tempio spirituale che non può essere né misurato né distrutto sulla base dei criteri conosciuti dall’uomo.
È proprio in questo contesto di distruzione e di grande sconvolgimento che si sviluppa e si delinea il passaggio dal Bet Ha-Miqdash, il Santuario, al Bet Ha- Midrash, la Casa di Studio.
Il Midrash, inteso nella sua accezione più ampia, diviene quindi lo studio ebraico per eccellenza, rappresentando quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione per la realizzazione del Tempio invisibile, una sorta di Tempio semovente, capace di seguire gli ebrei ovunque. Un tentativo di attutire e contenere attraverso una Tradizione orale la ferita inguaribile della distruzione del Tempio.
Il vero miracolo è quello di saper trovare la luce nel buio che si avverte in mezzo alle macerie. Aver fiducia che proprio nel momento in cui la luce sembra oscurarsi la presenza divina si manifesta attraverso nuove e misteriose vie.
Non dimentichiamo però che questa certezza di redenzione dipende anche da noi: sta infatti a noi conservare intatto questo debole lume per riaccendere la luce della speranza messianica.
“Gioite per Gerusalemme… tutti coloro che per lei sono in lutto’ (Isaia, 66; 10). Da qui deducono i Maestri del Talmud: “Chi fa lutto per Gerusalemme ha il merito di vederne la gioia, e chi non fa lutto per Gerusalemme non ne vede la gioia’”. (Taanìt, 20 b). Iehì Ratzòn shenizkè benechamàt Tzion bimerà beiamenu, Amèn.

Roberto Della Rocca, rabbino

 
tishà be av 5777
Tragedia ed esilio

Tishà Be Av è tragedia ed esilio. È il memento del disastro e l’inizio dell’errare. Un popolo deportato per strapparlo a una terra a cui non ha mai rinunciato a ritornare. E ora che c’è tornato l’unico modo possibile per separarlo da quella terra è affermare che quella non ha nulla a che vedere con lui, e lui non ha nulla a che spartire con quella terra. Il Tempio di Salomone non è il Tempio di Salomone, e non è mai stato il centro della spiritualità ebraica. Anzi, all’inizio fu Al-Aqsa, la moschea sorta dal nulla sul nulla. Ironia della sorte. O piuttosto, ironia della politica e dei suoi cinici stratagemmi.
E pensare che gli ebrei, per uscire non troppo malconci dalla storia, hanno persino cercato di unificare in Tishà Be Av tragedie diverse – la distruzione del primo Tempio, quella del secondo Tempio, la sconfitta di Bar Kochba, la cacciata dalla Spagna. Ma la storia, con il popolo ebraico, ha sempre giocato al gatto e al topo. Hanno un bel dire gli ottimisti degli ultimi tempi, quelli a cui non piacciono gli ebrei ‘del lamento’.
Ma l’ebreo non è mai solo. Con lui c’è Dio, dice qualcuno. Qualcun altro dice che con lui c’è l’umorismo, ossia, con le parole luminose di Romain Gary, “quello strumento abile e del tutto appagante che riesce a disarmare il reale nel momento in cui ti sta per cadere addosso”. In una sola riga, Bergson, Freud, Jankélévitch ed epigoni vari.

Dario Calimani, Università Ca' Foscari Venezia



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