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 26 aprile 2018 -  12 Iyar 5778
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Società

Lingua ebraica e identità ebraica

img headerIl professor Alan Mintz, docente di letteratura ebraica al Jewish Theological Seminary di New York, è deceduto improvvisamente un anno fa all’età di settant’anni. Aldilà del cordoglio suscitato a suo tempo dalla notizia e degli studi da lui compiuti sul contributo fornito dai poeti ebrei americani del primo Novecento alla rinascita della lingua ebraica, la sua figura è per noi degna di nota soprattutto per aver pubblicato un breve articolo dal titolo Seven Theses on Hebrew and Jewish Peoplehood, un autentico manifesto sull’importanza dell’apprendimento dell’ebraico. “L’ebraico rappresenta la struttura profonda della Jewish Civilization”, esordisce lo scritto. Non ho tradotto le ultime due parole: non saprei come rendere Jewish in italiano se non ripetendo “ebraica”. Ma i due aggettivi inglesi hanno sfumature differenti e di ciò l’autore era ben consapevole. La sua tesi è che la lingua può unire il popolo assai più di altri aspetti della vita ebraica. In senso diacronico e sincronico. In senso diacronico, i vocaboli ebraici accumulano continuamente nuovi significati senza perdere quelli più antichi. Quando i contadini sionisti erano alla ricerca di una terminologia per i loro lavori agricoli la Mishnah, ancorché redatta 1700 anni prima, era pronta a fornirla. Weahavtà (“e amerai”) allude all’Amore di D. comandato nello Shemà’, ma anche all’esperienza psicologica dell’amore terreno. “Se tu cerchi bittachòn hai bisogno di bittòchen”, mi dicevano negli Stati Uniti: la pronuncia sefardita moderna si applica per indicare la sicurezza militare, mentre quella askenazita ci rimanda alla fiducia in D. Ma la parola è la stessa. In senso sincronico, la lingua ebraica ha la capacità prodigiosa di creare un ponte fra settori diversi del nostro popolo: non solo fra sefarditi e ashkenaziti, ma anche fra osservanti e laici e fra lo Stato d’Israele e la Diaspora.

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche, aprile 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

Il diritto naturale e la Torah

img headerAll’inizio di aprile si è tenuta all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, a Roma, una due giorni di conferenze e workshop dal titolo Natural Law in Medieval Philosophy: Traditions, Convergences and Divergences. Ancorché la sede implicasse una forte connotazione, gli organizzatori hanno garantito la presenza di autorevoli voci nell’ambito del pensiero ebraico e mussulmano, rispettivamente invitando come relatori i professori Jonathan Jacobs, del John Jay College CUNY, e Anver M. Emon, dell’università di Toronto. In tale contesto, nel secondo giorno, la professoressa Lucia Corso – che, da filosofa del diritto, si è occupata a più riprese degli elementi di intersezione tra ambito normativo e religioso – ha tenuto un intervento inerente la possibilità, o meno, di utilizzare un concetto quale quello di ‘legge naturale’ nell’ambito del pensiero maimonideo e – più strutturalmente – nell’ambito del pensiero ebraico. Qual è la concezione di legge che presuppone la possibilità di qualcosa come il diritto naturale? Ed è, tale concezione, sovrapponibile a quella che l’ebraismo restituisce della Torah o viceversa l’idea ebraica di legge (ovvero, diremo secondo una traduzione maggiormente perspicua, di Insegnamento) non trova momenti di corrispondenza con ciò che il pensiero occidentale ha chiamato giusnaturalismo?

Cosimo Nicolini Coen

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società  

Ora l'odio costringe
gli ebrei a nascondersi

In Germania il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, sconsiglia per prudenza agli ebrei di indossare la kippah: troppo pericoloso, troppa ostilità antiebraica. I «mai più» delle ricorrenze ufficiali e dei giorni della memoria svaniscono. In Francia un mese fa Mireille Knoll, un'anziana ebrea sopravvissuta alla Shoah, è stata bruciata nel suo appartamento per il fatto stesso di essere ebrea. Gli ebrei francesi se ne vanno, insicuri, bersaglio di un odio antisemita che ha preso virulenza nelle banlieue musulmane in cui il verbo antisionista è diventato, nell'indifferenza generale, volontà persecutoria nei confronti dei singoli ebrei, delle loro sinagoghe da terrorizzare, dei simboli da linciare, dei sopravvissuti da sbeffeggiare come negli spettacoli di un feroce antisemita come Dieudonné. Qualche giorno fa un ragazzo con la kippah è stato aggredito da un giovane siriano che gli gridava «ebreo» come un forsennato. Dopo oltre settant'anni essere ebreo diventa ancora motivo di paura in Germania.

Pierluigi Battista, Corriere della Sera,
25 aprile 2018


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società 

Quell'odio nei fischi
agli ex internati nei lager     

Da molti anni le celebrazioni del 25 Aprile - festa nazionale che ricorda la liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista - sono disturbate da sparuti ma rumorosi manipoli di contestatori. Militanti dei centri sociali alla ricerca di spazi di visibilità, neofascisti e neonazisti più o meno dissimulati, gruppi filo-palestinesi presenti nelle celebrazioni non si sa bene a che titolo, grazie a una discutibile copertura offerta dall'Anpi, la maggiore associazione partigiana italiana. A questa presenza - e agli episodi incresciosi ad essa collegati - già non si riesce a far l'abitudine. Quest'anno  alle consuete manifestazioni di inciviltà si sono aggiunti alcuni fatti che fanno pensare e spaventano. A Milano, dove già negli anni scorsi erano stati contestati i pochi e anziani superstiti della Brigata ebraica, la mattina del 25 aprile sono state accolte da fischi persino le rappresentanze delle associazioni fra i reduci dai campi di concentramento nazisti.





Giovanni Sabbatucci, La Stampa,
26 aprile 2018


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