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3 maggio 2018 - 19 Iyar 5778
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SOcietà

Libertà, un valore sempre più minacciato

img header«E in virtù d’una Parola/Ricomincio la mia vita/Sono nato per conoscerti/Per chiamarti/Libertà ». Così Paul Eluard nella sua composizione Liberté, scritta nel 1942, durante l’occupazione tedesca di Parigi, mentre il poeta era entrato a far parte della Resistenza. Libertà può essere un auspicio. In questa condizione si presenta come l’invocazione di qualcosa che non c’è. Ma anche, a lungo, la parola libertà è stata associata all’atto di rompere le catene. Forse dovremmo ricordarci che libertà è quella condizione che si fonda su delle regole e che dunque non si riconosce nel momento della rinascita, ma in quello della costruzione di un contesto e di una condizione che forse è anche la scrittura di un limite. Forse questa condizione sarebbe apparsa superflua in un altro tempo. Ho la sensazione che non sia più così. Non solo all’ombra del 25 aprile, ma forse anche di una condizione che ci riguarda anche in vista di Shavuoth (il prossimo 19 maggio). Ci sono delle parole che in alcune lingue hanno una grafia, un suono, ma è difficile pensare che siano mai state parola viva, esperienza vissuta. È libertà in armeno. Difficile dire se in questa lingua sia un parola che abbia avuto un’occasione. Anche una sola. Libertà si può dire e scrivere in molti modi.

David Bidussa, Pagine Ebraiche, maggio 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

L’arte della guerra? Utile, a volte necessaria  

img headerSpiace contraddire un profeta come Isaia e dar contro al bel sogno messianico (che campeggia all’ingresso del Palazzo delle Nazioni Unite) sul giorno in cui “un popolo non alzerà più la spada contro un altro e nessuno si eserciterà più nell’arte della guerra” (Isaiah 2,4; Micà 4,3), Ma già un altro profeta, Joel, aveva immaginato il ‘giorno del Signore’ in modo opposto, gridando: “Con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci; anche il più debole dica: Io sono un guerriero!” (4,10). Guerra e pace, forza e debolezza, oppressione e liberazione sono temi connessi su cui da sempre si interroga il pensiero ebraico. Al di fuori, almeno oggi, vige spesso una visione dualista della realtà, per cui la guerra è sempre ‘male’ e la pace è sempre ‘bene’. Beh, anche molti rabbini, e a lungo, hanno sposato questa posizione, alla luce del fatto che gli scontri armati contro l’impero romano avevano portato solo disgrazie sul popolo ebraico. Viste da vicino, però, le cose sono più sfumate, più concatenate l’una all’altra e solitamente hanno un’andatura evolutiva (anche la storia e non solo la natura non fa salti).
Nell’aprile 2016 l’associazione laica di cultura biblica Biblia ha promosso un convegno dal titolo “Regolare la guerra e intessere la pace” e fu subito criticata perché affermare che la guerra vada ‘regolata’ significa ammettere che la guerra sia moralmente lecita e non vada condannata in sé ma piuttosto solo sottoposta al potere della legge.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI

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Società    

Abbas sfregia la Shoah
     

La scena è la seguente: David Grossman, cinque anni fa, parla all'Università di Cagliari. E un militante palestinese pone allo scrittore israeliano una domanda: lei Grossman è d'accordo sul fatto che Naqba e Shoah si equivalgono? Naqba è l'esodo, spesso forzato, dei 700 mila arabi e la distruzione dei loro villaggi nel corso della guerra del 1948. L'altro giorno, Abu Mazen, ormai 83enne presidente dell'Autorità palestinese, parlando a Ramallah, è tornato a un vecchio cliché: sono stati gli ebrei con il loro comportamento a causare l'Olocausto. Vecchio, perché già nel 1982 scrisse una tesi di dottorato negazionista. Oggi invece, a sostegno del suo discorso antisemita, ha alluso a testi che avrebbe letto nel corso della sua vita e carriera. Fin qui la cronaca. Ma poi, detto senza perifrasi: è ancora aperto il problema della memoria, anzi delle memorie che a 73 anni dall'apertura dei cancelli di Auschwitz e a settanta dalla nascita dello Stato degli ebrei (e tra i due eventi c'è un nesso strettissimo) divergono sempre di più.


Wlodek Goldkorn, Repubblica,
3 maggio 2018


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società 

Le guerre d'attrito
tra Iran e Israele

In Medio Oriente è incominciata una guerra d'attrito fra Iran e Israele che è frutto dei cambiamenti strategici in Siria, vede l'utilizzo di nuovi armamenti e tattiche, riflette gli interessi contrastanti di Mosca e Washington, e pub degenerare in un conflitto regionale di maggiori dimensioni. Le guerre d'attrito sono una delle tipologie dei conflitti mediorientali degli ultimi 70 anni. Subito dopo la nascita di Israele nel 1948, dai porosi confini con Giordania e Siria le incursioni armate arabe furono tali e tante da obbligare l'allora premier Ben Gurion a fronteggiarle creando una nuova unità - la 101 affidata ad Ariel Sharon - incaricata di combattere oltre confine così come fra il 1967 ed il 1970 le schermaglie quotidiane lungo il Canale di Suez furono la continuazione della Guerra dei Sei Giorni e consentirono all'Egitto di porre le basi per l'attacco a sorpresa che nel 1973 diede inizio alla guerra del Kippur. La guerra di attrito si verifica quando due o più Stati si combattono a distanza ravvicinata ma, per le ragioni più diverse, senza dare vita ad un conflitto di tipo tradizionale.

Maurizio Molinari, La Stampa,
29 aprile 2018 


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