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26 luglio 2018 - 14 av 5778
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intervista

"La cultura deve rompere gli schemi"  

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Rompere gli schemi. Se c'è una definizione che può riassumere il modo di vivere di Andreé Ruth Shammah forse questo è il migliore. Se si prova ad accostarla a una categoria specifica, che si tratti del suo lavoro, del suo ruolo di donna, della sua identità ebraica, la risposta è secca: “Non mi piacciono molto le etichette. Artista, imprenditrice, donna di sinistra, sono gli altri che cercano di definirmi, di certo mi piace giocare fuori dagli schemi. E romperli a volte”, spiega a Pagine Ebraiche e “soprattutto mi piace il mio lavoro”. Quello di agitratrice culturale, di regista, di direttore di un teatro, il Franco Parenti, che sotto la sua guida è diventato un punto di riferimento per Milano. Al suo lavoro si è dedicata intensamente - “forse troppo, a volte mi sembra di essere stata un soldatino” - e in questo 2018 ha potuto festeggiare diversi anniversari: i 70 anni di vita, i 50 di teatro, i 30 alla guida del Salone Pierlombardo. Il 25 giugno ha chiamato famiglia, amici, colleghi per festeggiare insieme a loro – nel giorno del suo compleanno – i traguardi di una vita. Sul sito del Parenti, si legge che “ha firmato oltre cento regie. Tra le altre Io, l’erede di Eduardo De Filippo, Eracle di Euripide con Franco Branciaroli, L’amante di Pinter con Luca De Filippo e Anna Galiena, Sior Todero brontolon di Goldoni e Hotel dei due mondi di Eric-Emmanuel Schmitt, Cesare e Silla, atto unico di Indro Montanelli, La terza moglie di Mayer di Dacia Maraini, La locandiera di Carlo Goldoni”. Una vita a dirigere le scene che quest'anno la vedranno in una veste diversa: “Per i 70 anni mi faccio un regalo, debutterò come attrice nella nuova edizione dei Promessi sposi di Testori. Nessun personaggio, sarò io, un po' di lato ma sempre in scena”, ha raccontato, spiegando che sperimentare è forse una delle cose che manca un po' al teatro italiano. “In Israele ad esempio la scena è molto più frizzante”. Paese con cui Shammah condivide il numero di anni così come una profonda propensione a guardare con fiducia al futuro. Di cui parla a Pagine Ebraiche così come del suo passato.

Da dove inizia la storia di Andreé Ruth Shammah?

Inizia sui tetti di Aleppo, con i miei genitori in fuga dai pogrom dei siriani contro gli ebrei. È una storia che mia sorella Colette ha raccontato benissimo in un libro appena uscito (In compagnia della tua assenza). Degli amici arabi li aiutarono a fuggire ma è una storia di cui si è sempre parlato poco in famiglia così come della nostra identità ebraica. Mia madre arrivo a Milano incinta di me e i miei scelsero di rimanere e non partire per il Giappone come avevano pensato. Giappone? Si, mio padre era un commerciante e aveva viaggiato in tutto il mondo. Come tutti gli aleppini, aveva il pallino degli affari e aveva visto nel Giappone delle opportunità lavorative. Ma poi i miei rimasero a Milano e così io mi sono legata a questa città. Io qui ho messo le radici, a differenza loro che sembravano sempre pronti a ripartire, con la valigia in mano.

Daniel Reichel, Pagine Ebraiche, luglio 2018


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MACHSHEVET ISRAEL

'Noi profughi'. 1943, firmato: Hannah Arendt  

img header“Noi profughi” è il titolo di un saggio, scritto in inglese nel gennaio del 1943 da Hannah Arendt, una delle più acute analiste della condizione umana nel XX secolo. Ancora mi rammarico dell’errore di non averla inserita per esteso nel manuale di pensiero ebraico che pubblicai quindici anni fa (errore di ignoranza, anzitutto, e dovuto a un certo pregiudizio nato dalla sottile controversia che la filosofia ebbe con Scholem... ma errore sempre resta). I profughi di cui parla quel saggio sono gli ebrei in fuga dall’Europa nazificata e immigrati negli States: fuggivano da una persecuzione legalizzata dal ‘diritto’ di uno stato totalitario, ma anche dal rischio della miseria, come altri ebrei, soprattutto est-europei, avevano fatto dal 1881 sino alla fine del primo conflitto mondiale; come nella seconda metà del XIX secolo avevano fatto molti neo-italiani piemontesi, veneti, lombardi e poi abruzzesi, campani, siciliani ecc. In quel saggio Arendt spiega la condizione di pariah di chi è “senza stato, senza diritti e senza patria”. Fino agli anni Trenta molti di quegli ebrei-profughi avevano cittadinanza, diritti e una patria cioè: una casa, una lingua e una cultura di appartenenza. Poi nel giro di pochi anni tutto ciò fu loro negato; da tedeschi o francesi o italiani si ritrovarono ad essere solo e semplicemente ebrei... Solo dal 1948 il sionismo avrebbe ridato loro la chance di una nuova patria, uno stato e dei diritti ebraici.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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società      

Un richiamo necessario per un Paese smemorato  

Sono parole molto forti quelle che vengono dal Presidente della Repubblica, una delle poche autorità morali ancora riconosciute dalla stragrande maggioranza della società italiana. E forse era ora. Non esiste nessun mito più radicato nella nostra opinione pubblica di quello degli «italiani brava gente»; sebbene sia stato sfatato dagli storici, il concetto che gli italiani siano stati, anche durante il fascismo, fondamentalmente «buoni» è duro a morire. Se anche si dice che il fascismo «sbagliò» nell'emanare le leggi antiebraiche, è opinione comune che queste furono applicate «all'acqua di rose», e che in fondo gli ebrei «non se la passavano tanto male». Nulla di più falso. La persecuzione fu durissima, e colpì ogni aspetto della vita degli ebrei italiani, rendendo loro impossibile lavorare, avere amici non ebrei, accedere a una istruzione superiore. La persecuzione, anche se non sfociò in un massacro operato direttamente dagli italiani, fu estremamente dura, e dopo l'occupazione tedesca fu la necessaria premessa al collaborazionismo fascista, e alla deportazione e allo sterminio di oltre 7000 cittadini italiani di fede ebraica.

Amedeo Osti Guerrazzi, La Stampa,
26 luglio 2018


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melamed 

Una scuola ebraica
per musulmani

Alle otto del mattino, quando la grande città indiana si è ormai svegliata da un pezzo e il traffico comincia a diventare insopportabile, anche la piccola strada laterale di Royd Street inizia la sua quotidiana e trafficata vita urbana in uno dei quartieri musulmani di Calcutta. Royd Street e Park Street hanno una particolarità che le rende speciali. Non sono i ristoranti e i grandi alberghi affacciati sulle arterie laterali, né le luci delle vie dello shopping e nemmeno una vecchia Guest House rifugio di viaggiatori sacco-in-spalla. In questo quartiere abitato da famiglie musulmane c’è infatti una scuola ebraica.
Il cartello, al numero 65 di Park Street o nella parallela Royd Street – vie che racchiudono un vasto edificio – è inequivocabile: Jewish Girls’ School. La curiosità inizia però a diventare stupore quando arrivano le prime ragazze: scendono dai risciò, dalle biciclette o dai motorini accompagnate da padri e fratelli ma assai più spesso dalle madri, tutte rigorosamente velate. Alcune addirittura col niqab, il velo islamico che copre tutto il corpo.



Emanuele Giordana, Il Tascabile,
18 luglio 2018 


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Shir shishi - una poesia per erev shabbat

Isabella addormentata tra i cani

img headerTahel Frosh è una giovane poetessa che appartiene all'ultima generazione di artisti capaci di sconvolgere la platea radical chic e culturalmente tradizionalista di Israele. Nata a Hertzelia nel 1977 ha studiato in un liceo tecnico di Tel Aviv, si è laureata in giurisprudenza e infine è passata agli studi di Psicologia Clinica. Giornalista del quotidiano HaAretz, particolarmente attenta alle questioni sociali ed economiche che affliggono gran parte della società israeliana, lontana dalla Upper Class benestante, tocca il potere onnipotente delle banche e l'inferiorità delle donne nel campo lavorativo. La prima raccolta di liriche intitolata “Betza” (Avidità), è uscita nel 2014; si tratta di versi duri, forti e a volte sconvolgenti, che colpiscono il lettore come un pugno allo stomaco. Il libro ha avuto difensori e critici e sarebbe molto interessante leggere altri lavori poetici di Tahel. Di sicuro i suoi racconti-poemi hanno dato una bella scossa all'ambiente sonnecchiante del post ArsPoetica, la corrente sefardita, e hanno un forte legame con la poetessa oramai divenuta mitica, Yona Walach.

Isabella chiese dove fossero i cani
dormì tra i cani sognò cani
nel turbine della bufera
in casa nostra non ce n’erano e nemmeno nelle altre
ma Isabella cercava i cani.

E no, quella non era casa nostra
ma una stanza dove la casa era possibile
e dove l’amore era possibile,
ma a ogni pioggia che cadeva
ci aggiravamo per la stanza scagliando pietre.

Dormiva Isabella tra i cani
seminando un osso per il vagabondare
come lei andammo
da una casa all’altra
e a ogni pioggia che cadeva scoprivamo solo rami.

Riposano assopiti su Isabella
cani neri intrichi
sui suoi seni di lana
ne fu morsa la sua carne, tutti sanno

Sedevo per la strada e vidi noi due
o forse non vidi altro che la fuga
bussai ai rami e bussai con forza
e a ogni porta non c’era casa
le bufere calarono svanirono e nel cielo un azzurro squarciò.

(Traduzione: Sara Ferrari)

Sarah Kaminski, Università di Torino

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