Yom
kippur 5779
"Siamo tutti comunità, siamo tutti ‘am Israel condividiamo la gioia di questa appartenenza"
Il rabbino
capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell'ora di Nei'là di
questo Kippur 5779, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti
parole:
Ci
stiamo avvicinando al momento più sacro e intenso del nuovo anno,
quello in cui le porte del cielo si chiudono, dopo ore di preghiere. È
il momento in cui, secondo l’insegnamento dei nostri Maestri, la
sentenza per ognuno di noi viene firmata. Questo è uno dei momenti
dell’anno in cui le Sinagoghe sono più affollate. L’altro momento è
stato dieci giorni fa, il primo giorno di Rosh haShanà nella tarda
mattinata, per ascoltare lo shofàr e per ricevere e condividere la
benedizione del kohèn. Rosh haShanà, come tutti sanno dura due giorni,
e le regole del secondo giorno sono le stesse del primo; ma succede
sempre che il secondo giorno sia molto meno affollato del primo. Con
una stima approssimativa, e molto variabile, il secondo giorno viene un
quinto dei presenti il giorno prima. Abbiamo quindi una comunità
a diverse velocità e intensità. Rispetto ai presenti, c’è quella
dell’80% che si affaccia e poi scompare e poi riappare questa sera, c’è
quella del 20% che c’è quasi sempre, ma poi c’è quell’altra, chissà
quanto grande, ma certo non piccola, che è assente anche in questi
momenti. Ma siamo tutti comunità, siamo tutti ‘am Israèl. Tutti legati
con un filo storico verticale alle origini di una chiamata sacra, tutti
legati tra di noi al presente con un filo orizzontale, che per qualcuno
è ben visibile, per altri è trasparente, o negato, o tagliato. Tutti
con una responsabilità reciproca alla ricezione, al mantenimento e
soprattutto alla trasmissione di un insegnamento e di una missione. Se
qua dentro ci veniamo per un’ora o due all’anno o tutti giorni o per
niente, siamo comunque collegati e corresponsabili; non mi piace usare
la parola orgoglio, che ora va tanto di moda e non sarebbe neppure
permessa, e preferisco la parola gioia; condividiamo la gioia di questa
appartenenza comune fatta di tante differenze.
Questo anno, che in data civile finisce ancora per pochi mesi con un 8,
mentre per noi è già il 9, è un anno di anniversari in cifra tonda che
stiamo ricordando, perché la storia è parte della nostra identità. Tra
poco saranno cento anni della vittoria alleata della prima guerra
mondiale. I nomi dei non pochi caduti ebrei sono incisi nella lapide
qua fuori e negli altri tempi italiani; sulla nostra tevà troneggia
ancora il leggìo di argento che venne dedicato in occasione della
vittoria, della pace conquistata e della libertà dei popoli; così
scrivevano allora, ma la pace fu precaria, la libertà dei popoli un
sogno e il prezzo pagato, in una lotta fratricida, fu enorme e non
riconosciuto. E in questi giorni si moltiplicano le iniziative per
ricordare gli 80 anni delle leggi razziali. E già ci siamo dimenticati,
in questa moltiplicazione di eventi, il più importante anniversario,
quello dei 70 anni dello Stato d’Israele. Anche se è fondamentale
mantenere la memoria delle persecuzioni e trarne un monito per tutta la
società, rischiamo di rimanere invischiati nella seduzione del
negativo, nel tormentoso ricordo della sofferenza subita. Dovremmo
piuttosto usare queste memorie per capire dove abbiamo sbagliato e dove
potremmo ancora sbagliare come ebrei. Nell’avere dimenticato chi
dobbiamo essere e non essere preparati a quello che potrebbe avvenire.
Nella prospettiva della continuità generazionale non ci salverà il
lamento, ma una coscienza forte, una cultura forte, un comportamento
coerente.
Quando uscirono dai ghetti, molti dei nostri antenati fecero di tutto
per dichiararsi ebrei dentro casa e cittadini fuori casa. C’era un
desiderio di integrazione, ma anche una vergogna per la propria
condizione. Oggi molti sbandierano il proprio ebraismo fuori casa e
chissà cosa è il loro ebraismo dentro casa. E quello fuori casa rischia
di essere solo una medaglietta chic. Almeno fino a quando non sarà
pericoloso esibirla. Sono anni che viviamo in situazioni politiche
fluide, ogni volta con un problema più evidente, come la situazione
economica, il terrorismo, oggi l’immigrazione. Ognuno di noi ha diritto
di schierarsi e scegliere come meglio crede, possibilmente guidato
dall’esperienza e dai valori ebraici. Ma a livello collettivo
l’ebraismo non può essere utilizzato strumentalmente, a sostegno di un
partito o di una coalizione o di una ideologia, come spesso avvenuto in
modo disastroso in passato; deve piuttosto essere evocato con saggezza
e fermezza solo per la difesa dei valori fondamentali. La
saggezza è quella che si esercita anche sapendo ben distinguere tra le
polemiche di potere, che non ci riguardano, e i valori essenziali. La
fermezza è una modalità che si accompagna alla autorevolezza che
discende dalla tradizione e dalla storia ma che non può fare al meno
della coerenza. Già, la coerenza. Difficile mantenerla, ma è il
prezzo da pagare nell’affermazione dei valori e nell’educazione. Un
modello incoerente di maestro o di genitore, che è il primo maestro,
porta a far disprezzare quello che si vorrebbe goffamente trasmettere.
Ebrei bisogna esserlo in casa e fuori casa, senza compromessi o
camuffamenti. Non saremo rispettati per quello che abbiamo buttato via
o nascosto o per quello che ostentiamo ma non rispettiamo.
Tra poco ascolteremo la voce antichissima del sacro che ci parla
direttamente, senza mediazioni di spiegazioni o interpretazioni: la
berakhà del kohèn e il suono dello shofàr. Queste voci dovrebbero far
vibrare le corde di ogni persona e la vibrazione non dovrebbe passare
senza promuovere un desiderio di miglioramento. Vi sono veramente tante
cose che ognuno di noi può scegliere e impegnarsi a fare: educarsi
nella gratitudine, nel rispetto reciproco, nel controllo delle parole e
degli scritti, oggi soprattutto nei social, nel volontariato,
nell’impegno allo studio, nella trasmissione di valori spirituali a chi
ci circonda e soprattutto ai figli, nella riscoperta della grandezza
delle nostre tradizioni a cominciare dallo Shabbàt.
Ogni parola della tefillà contiene un messaggio importante e pieno di significati. Tra poco leggeremo questa frase:
חמול על מעשיך ותשמח במעשיך
Abbi pietà delle Tue opere, e gioisci delle Tue opere
Affrontiamo il giudizio di queste ore confidando nella misericordia, ma
anche con la responsabilità di chi può far gioire il Creatore per come
ci ha creato e come ci comportiamo.
חתימה טובה, תזכו לשנים רבות.
Riccardo Di Segni, rabbino
capo di Roma
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