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25 ottobre 2018 - 16 Cheswan 5778
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SOCIETà

L’Europa, l’Ungheria e lo Stato di diritto

img headerIl recente pronunciamento del Parlamento Europeo nei confronti del governo di Viktor Orbán, leader dell’Ungheria dal 2010, è stato in genere considerato quasi esclusivamente in relazione alla questione delle immigrazioni. In questo senso, ad esempio, anche Andras Veres, vescovo di Győr e presidente della Conferenza episcopale ungherese, ha dichiarato che il governo ungherese «ha solo cercato di difendere l’Europa». Ancora più riduttivamente, molti degli interventi si sono soffermati sulla nota prossimità di vedute fra Orban stesso e Salvini su questo problema, e sulle possibili conseguenze che alla politica italiana in tema di immigrazione potrebbero derivarne, quando non sulle incerte alleanze all’interno del centro-destra di casa nostra. Questa lettura parziale è una vera occasione perduta, perché il documento che la deputata olandese Judith Sargentini ha presentato al Parlamento europeo ottenendone l’approvazione – con una maggioranza superiore alla quota dei due terzi prevista per avviare le sanzioni – riveste un carattere assai più ampio, generale e strategico rispetto al problema pur grave delle migrazioni. Nel denunciare il rischio di una «seria frattura» rispetto ai valori portanti dell’Unione Europea, la mozione illustra infatti, con chiarezza, un processo involutivo di carattere generale e dalle implicazioni politiche di radicale importanza. I rilievi presentati nel report riguardano in realtà ben dodici nodi fondamentali per la vita democratica dell’Ungheria – come per la verità di ogni paese - che è necessario almeno elencare con precisione.

Enzo Campelli, sociologo
Pagine Ebraiche, ottobre 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

Filone e il culto divino fine a se stesso   

img headerDa qualche anno si è tornati a leggere Filone Alessandrino, grazie anche a dei convegni internazionali si che focalizzano di volta in volta su opere filoniane diverse. L’anno scorso il De Vita Mosis (curioso che i suoi titoli siano citati in latino, ma tra gli studiosi così si usa) venne pubblicato dall’editore Guaraldi in tre lingue: nell’originale greco, in italiano e in ebraico. Il progetto di tradurre tutto Filone in ebraico risale a Ben Gurion, che riteneva dovesse far parte dei classici della cultura dello Stato di Israele, ed è ancora in corso. Filone detto “l’ebreo” visse a cavaliere tra l’èra delle zugot e quella dei tannaim, nella città in cui per un certo periodo aveva insegnato anche Avtalion, quell’Alessandria d’Egitto che fu culla di una combattiva comunità ebraica profondamente ellenizzata e luogo di nascita della prima traduzione in greco della Torà, conosciuta come la Settanta, che secondo la Lettera di Aristea gli ebrei dell’epoca consideravano divinamente ispirata. Il testo studiato quest’anno è il De Abrahamo, la vita di Avraham avinu (pubblicata sempre da Guaraldi in greco, italiano e inglese). Filone ha scritto commenti anche alle vite di Isacco e Giacobbe, ma sono andati perduti. Il suo approccio è questo: prima dà la spiegazione letterale e poi ne offre una allegorica. Come filosofo, riteneva che l’interpretazione più significativa fosse la seconda.
Obiezione: Filone non è mai citato dalla pur lunga e variegata tradizione rabbinica e il primo a ricordarsi di lui fu il rinascimentale Azaria de’ Rossi, a sua volta in odore di eresia. In altre parole, sembra un autore al bando, fuori appunto dal giudaismo rabbinico. Come si spiega? Con almeno due ragioni: prima, Filone cita e lavora sulla Torà in greco (la Settanta) e non sul testo ebraico; seconda ragione, il suo allegorismo – che mirava a quel senso universale assai amato dal pensiero greco – fu sfruttato dai Padri della chiesa, dal II al V secolo dell’èra volgare, per costruire l’impianto teologico del cristianesimo.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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Orizzonti        

Despoti e violenza tribale
 

L’uccisione di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul sottolinea come il regno wahabita mantenga una natura tribale, e dunque spietata, ma evidenzia anche un fenomeno assai più esteso: l'aggressività crescente contro ogni tipo di oppositori o personaggi scomodi da parte dei leader di nazioni autocratiche o illiberali. La natura tribale del regno wahabita è connaturata alle stesse origini nel deserto dell'Arabia contemporanea e coesiste con le recenti aperture all'Occidente ed alla modernità - dagli investimenti stranieri alla possibilità per le donne di guidare, dai progetti turistici all'industria dell'intrattenimento - perché si basa sull'idea del potere assoluto del monarca e della sua famiglia ristretta nei confronti di ogni suddito. Mohammed bin Salman, principe ereditario, sta dimostrando di voler difendere tale potere assoluto in maniera aggressiva: detenere oltre 400 dignitari politici e uomini di affari in un albergo di lusso accusandoli di «corruzione» per obbligarli a versare le tasse, arrestare dozzine di attivisti dei diritti delle donne perché «traditori» e interrompere ogni rapporto con il Canada - incluso il ritorno degli studenti dagli atenei e dei malati dagli ospedali - a seguito di un tweet non gradito sulla repressione del dissenso, lascia intendere la volontà di non concedere spazi di contestazione, neanche i più esigui.


Maurizio Molinari, La Stampa,
21 ottobre 2018 


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protagonisti 

Franco Modigliani,
italiano d’America

È il momento storico in cui la sinistra italiana diventa "responsabile", con diramazioni e conseguenze fino ad oggi. Per salvare l'economia italiana da una crisi spaventosa si fa carico delle "compatibilità", oggi diremmo del vincolo esterno. Chiede sacrifici ai lavoratori. S'impegna a una dura disciplina, anche per ricostruire la fiducia degli investitori. L'epoca è l'inizio degli anni Ottanta. Iperinflazione e terrorismo. Svalutazioni e fughe di capitali. Debito pubblico impazzito, tassi alle stelle, la liretta che affonda. È in quel frangente drammatico che l'economista Franco Modigliani dall'America spende tutto il suo capitale di prestigio e credibilità, per spingere alla svolta virtuosa. La sua influenza è enorme per tante ragioni. Ebreo emigrato dall'Italia mussoliniana nel 1939, è uno degli intellettuali antifascisti di punta, nella cerchia che si riunisce intorno a Gaetano Salvemini, a Boston. Unico italiano ad aver vinto il premio Nobel dell'economia, al Massachusetts Institute of Technology (Mit) è diventato il maestro di generazioni di economisti, tra cui molti dirigenti della Banca d'Italia, come Mario Draghi. Modigliani dagli Stati Uniti anima un dibattito sull'iper-indicizzazione dell'economia italiana: contesta il punto unico della scala mobile, concordato nel 1975 dal presidente della Confindustria Gianni Agnelli col segretario della Cgil Luciano Lama.

Federico Rampini, La Repubblica,
24 ottobre 2018  


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Un ponte molto stretto

img headerGenova è stata capofila della Giornata europea della cultura ebraica e ho avuto l’onore di partecipare a un evento ricco di significati, insiti nella cultura antica e moderna. Passeggiando per le strade di Genova ho pensato alla tragedia che ha toccato recentemente questa bellissima città e mi è venuta in mente la famosa frase di Rabbi Nachman sulla metafora del mondo come ponte, che qualche anno fa l’israeliano, Rabbi Baruch Chayat ha reso in poesia.
Rabbi Chayat ha studiato presso la yeshiva Hafetz Hayim e attualmente è direttore della yeshiva Ma’arava Machon Rubin. È stato lui ha comporre la melodia sul motto di rabbi Nachman nel 1974, un anno dopo la Guerra di Kippur, quando girava tra i soldati israeliani collocati nelle diverse basi lungo le linee confinanti con l’Egitto. Il suo compito era parlare con loro e rendere piacevoli le ore lontane da casa. Il canto, già noto in yiddish ma con un’altra melodia, si diffuse tra i soldati e oggi è considerato proprietà comune, tanto che molti sono convinti che si tratti di un antico canto popolare nato in Est Europa. In realtà Rav Chayat ha seguito le orme di Rabbi Shlomo Carlebach, il “rabbino danzante” e di Ben Zion Shenkar, entrambi pionieri nel campo della musica moderna che attinge alla Torah, ai Salmi e ai detti dei predicatori hassidici. Oggi questo genere di espressione musicale è accolto da molti, dai cori professionisti fino ai gruppi hip hop, ma sono poche le frasi così espressive e veritiere come quella sul ponte stretto e la paura di affrontare il cammino.
Il mondo, dice il canto, non è altro che una prova a cui siamo tutti sottoposti e solo superando la paura di attraversare, possiamo percorrere, con responsabilità e consapevolezza le vie del mondo.

Tutto il mondo intero è un ponte molto stretto,
un ponte molto stretto.
E la cosa essenziale, la più essenziale
è di non avere nessun timore,
proprio nessun timore

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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