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1 novembre 2018 - 24 Cheswan 5778
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SOCIETà

Le scuse inutili nel mondo che si nutre di odio

img headerIntorno all’ottantesimo dell’introduzione della legislazione antisemita in Italia, più o meno coincidente con il settantacinquesimo della razzia nel ghetto di Roma, è avviata da tempo una riflessione pubblica che, probabilmente, avrà in autunno il suo momento culminante. Scrivo «legislazione antisemita » e non «legislazione razziale », perché il principio razziale in Italia non inizia con il manifesto della razza del luglio 1938, bensì con la legislazione che distingue italiani da sudditi dell’Impero all’indomani della guerra Italo–etiopica, ovvero a partire dall’estate 1936. Anniversario cui nessuno ha prestato molta attenzione. Segno evidente che con il razzismo in Italia i conti per davvero non si vogliono fare. Probabilmente intorno alla data del 15 novembre (ovvero la vera data dell’entrata in vigore della legislazione razziale con il Regio Decreto n.1779) il senso comune sarà quello di fare i conti con un passato. Io penso, invece, che quello che lì si aprirà sarà una nuova stagione generativa di un diverso futuro, a partire da un inquieto presente. Proprio per questo il principio che sta segnando, mi sembra, il complesso di questo anniversario nel linguaggio pubblico che è quello delle scuse pubbliche (a cominciare dalla giornata del 5 settembre scorso a San Rossore dove i rettori hanno chiesto scusa per le espulsioni e del proprio personale di ebrei), non esprime a mio avviso un percorso autentico di riflessione. Quello che abbiamo di fronte nel linguaggio corrente – ovvero nel linguaggio che corre nei media, nei canali sociali, nell’immaginario pubblico, non è il tempo delle scuse, ma quello della rivendicazione di una nuova propensione all’esclusione perché il senso comune dice che è «stato già dato troppo» e il tempo della disponibilità è terminato.

David Bidussa, Pagine Ebraiche, ottobre 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

La percezione della giustizia  

img headerScriveva Levinas, a margine della sua esperienza in un campo di detenzione (non di concentramento) tedesco – dove era recluso in quanto prigioniero di guerra– che “Bobby”, il cane che accoglieva gli internati al ritorno dal lavoro ‘come se fossero’ umani, era “[l’]ultimo kantiano della Germania nazista” (Difficile Liberté, pp. 231-235). Bobby, privo di quella spessa corazza fatta di parole e propaganda, riconosceva nei profili dei detenuti dei tratti umani, ovverosia animali – di esseri sotto certi rispetti a sé simili. Certo, non basta essere privi della parola umana per essere impermeabili all’addestramento: i cani resi longa manus dei soldati in uniforme nazista ne sono, come riportano le testimonianze, dimostrazione. Tuttavia è l’icastico titolo dell’articolo in cui appare questo passaggio – Nom d’un chien ou le droit naturel – a indicare la direzione di una possibile riflessione, ad un tempo sulla giustizia e sulla percezione. È forse quest’ultima – nel suo elemento più grezzo e primario, quello corporeo, trasversale a più specie – ad essere condizione di possibilità della prima? Del resto non è a una legge naturale che si fa riferimento, in mare, in un luogo fisicamente e simbolicamente distante dalle leggi statali, quando si accoglie chi è alla deriva?

Cosimo Nicolini Coen 

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protagonisti        

Lo scrittore-libraio
che 'catturò' Hemingway 

Per cercare un'immagine di Alberto Vigevani, che non ho mai incontrato, diversa da quelle della maturità, ho digitato su Google I ragazzi di via Pal (non con la preposizione articolata di un altro film). In una foto di scena lo si vede in primo piano (era il capo della banda): ha sedici anni, ma ha già lo charme di un divo. Il film, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1935, è prodotto da una cooperativa di amici: registi e sceneggiatori due cugini ventenni, Alberto Mondadori e Mario Monicelli; produttore e direttore della fotografia Cesare Civita trentenne. Un indizio precoce, credo, della attitudine di Vigevani alle buone compagnie, nutrite quasi sempre di amici più grandi di lui. I suoi vent'anni coincidono con la promulgazione delle leggi razziali. Da semiclandestino partecipa alla fondazione di Corrente in casa di Raffaele e del figlio Raffaellino De Grada, presenti l'amico Vittorio Sereni, Renato Guttuso, Giacomo Manzù, Salvatore Quasimodo, Alberto Lattuada, Saul Steinberg.

Mario Andreose, Il Sole 24 Ore Domenica, 2
8 ottobre 2018 


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società 

La rete è meno libera

Otto anni fa «Wired Italia» suggeriva di candidare Internet al premio Nobel per la pace. Oggi l'organizzazione Freedom House intitola il suo ultimo rapporto sulla libertà di Internet «Ascesa dell'autoritarismo digitale». La conclusione, basata sull'analisi di 6 Paesi diversi (l'87% degli utenti globali), è che Internet è sempre meno libero in tutto il mondo e che la stessa democrazia è danneggiata dal modo in cui viene usato. Mentre la propaganda e la disinformazione avvelenano la sfera digitale, molti governi utilizzano le stesse fake news come scusa per reprimere il dissenso. Mentre i «leak» di dati personali pongono il problema di proteggere le informazioni e la privacy degli utenti, le dittature ma anche le democrazie prendono misure in nome della sicurezza che mettono a rischio la libertà e la privacy. La Cina in particolare sta esportando in 36 Paesi il suo modello di censura tenendo seminari sui new media e fornendo strumenti di controllo.


Viviana Mazza, Corriere della Sera,
1 novembre 2018  


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Amare il deserto

img headerQuando Ben Gurion nel lontano 1952 decise di stabilirsi nel deserto fu dopo una visita a un accampamento militare i cui soldati erano coinvolti in manovre nelle distese del Negev, libere da insediamenti civili. All’improvviso vide un gruppetto di giovani, una capanna e qualche tenda. Chiese all’autista di fermarsi e scese per chiacchierare con i ragazzi. “Siamo venuti per insediarci”, dichiararono, “il nostro sogno è diventare bokrim”, ovvero Cowboy. Ben Gurion ne fu entusiasta e quando lasciò il governo nel 1953 e poi di nuovo nel 1963 si trasferì, con la moglie Pola, a Sde Boker. Oggi il piccolo insediamento è un magnifico kibbutz verdeggiante in cui si può visitare la mitologica capanna diventata sede di una ricca biblioteca della storia di Israele e del mondo ebraico. E tornando al deserto che confina con il kibbutz, a pochi passi dalla casa museo, si trova l’ultima dimora della coppia Ben Gurion.

Amare il deserto (di Haim Guri)

Ci sono persone che non possono stare in questo luogo,
troppo giallo per loro,
un silenzio da fare impazzire.
 
Ci sono persone cui Dio è sovra misura
in questo deserto.
La gente si spaventa quando di notte sente le stelle.
 
Ma vi è chi si attacca a questo silenzio.
Non riesce a staccarsene.
Quelli rimarranno qui.

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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