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22 novembre 2018 - 15 Kislev 5778
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SOCIETà

Mettere in guardia, mentre il disastro incombe

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“Mi comprerò un binocolo molto potente. Al riparo da occhi indiscreti scandaglierò l’orizzonte del mare. Sarò sempre di guardia. Fintanto che tutto questo durerà, ci sarò pure io. Proprio come tutti gli altri. Ma quando un giorno scoprirò delle lunghe navi grigie laggiù, in fondo all’orizzonte, sarò il primo a dare l’allarme”. Sono le righe di chiusura di Amore tardivo, racconto di Amos Oz che costituisce la prima parte di Finché morte non sopraggiunga (uscito in queste settimane in Italia per Feltrinelli per la traduzione di Elena Loewenthal). Scritto nel 1970, quando Oz era poco più che trentenne, Amore tardivo ha un doppio registro: è la scrittura di un giovane trentenne, che si trova a dover fare i conti con un cambio d’epoca (significativamente lo pubblicherà nel 1983, quando la realtà politica, sociale e politica intorno gli sembra subire un’accelerazione tanto da sentire di vivere in un paese in cui le varie parti sociali, politiche, culturali non si parlano più tra loro) che trasporta questa condizione nella mente di un settantenne che racconta se stesso come sopravvissuto, alle soglie di una condizione ultima di vita per la quale il problema è come trovare una funzione per sé in una realtà sociale e culturale che avverte profondamente cambiata rispetto a quella della sua prima e seconda vita.

David Bidussa, Pagine Ebraiche, novembre 2018 

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MACHSHEVET ISRAEL

Maimonide e la definizione di blasfemia  

img headerUn recente seminario tenutosi alla Sapienza, promosso dallo storico del pensiero religioso Gaetano Lettieri, ha riproposto la spinosa questione della blasfemia, di dolente attualità da quando il terrorismo di matrice islamica compie le sue gesta criminali asserendo di fare giustizia contro i blasfemi (ma anche contro eretici e infedeli). La società israeliana conosce da lungo tempo il fenomeno, che solo con le stragi di Parigi del gennaio del 2015, tra cui l’attacco alla redazione della rivista satirica Charlie Hebdo, ha suscitato una riflessione approfondita in Europa. Un dibattito dopo quelle stragi fu promosso anche a Bologna da Alberto Melloni, ora raccolto nel volume “Blasfemia, diritti e libertà” edito da Il Mulino. Ma ovviamente è la Francia, paladina della laicità, ad essere in prima linea nella discussione su questo tema. E una collega francese, intervenuta al seminario romano, mi segnala uno studio sulla blasfemia nel pensiero di Maimonide scritto da Dan Arbib sulla Revue des sciences philosophiques et théologiques (2/2017). Studiandolo ho imparato che anche nel pensiero ebraico la questione è tutt’altro che semplice, perché se Wajqrà/Lv 24,11-16 è esplicito nel comminare la pena più dura (la lapidazione) per la bestemmia/blasfemia, non è affatto chiaro cosa si debba intendere per questa trasgressione e, come afferma il Rambam nel suo Sefer ha-mitzwot, se a monte della pena sia evidente il divieto (cfr. il sessantesimo precetto negativo, dove si ricorda che stando all’halakhà non si può punire qualcuno se questi non va contro qualcosa che è chiaramente comandato).

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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società        

1938, il silenzio dei giuristi
 

Quando ci occupiamo della tragedia delle leggi razziali, gli ingredienti che la segnano sono purtroppo sempre gli stessi: da un lato la strategia della persecuzione, nei suoi presupposti, nelle sue modalità, nei suoi fini. Dall'altro gli effetti e le reazioni che essa provoca, da quelle dei contemporanei a quelle di chi verrà dopo. Pur preceduto da tanti minacciosi segnali nel corso degli anni - non tanto quelli della storia plurisecolare, ma, più da vicino, la virulenza della Civiltà Cattolica di fine Ottocento, gli scritti sulla razza dei primi Anni Trenta e poi, soprattutto, la vicenda coloniale (che aveva introdotto nella legislazione la difesa della razza bianca) - l'arrivo di quelle leggi, preceduto in rapida sequenza dal Manifesto sulla razza, parve a molti ebrei italiani un fulmine inatteso. Il regime aveva definito il loro trattamento nelle discipline post concordatarie, la vita si era assestata su quei binari al punto che tanti di loro erano diventati fascisti o comunque estimatori del fascismo. Fu difficile perciò capire tanta sudditanza alla Germania e il bisogno, in un tempo che per il regime non era ancora amaro, di un capro espiatorio, il solito.

Giuliano Amato, La Stampa,
18 novembre 2018 


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storia 

Anna Maria e Primo Levi, fratelli resistenti  

Il 22 giugno 1941 era una domenica. Fra i quattro ragazzi saliti a Piossasco per una gita in collina ignoriamo l'identità di quello a sinistra ma conosciamo gli altri tre, che vengono tutti da Torino. La ragazza sulla destra si chiama Bianca Guidetti Serra, al centro ci sono i fratelli Anna Maria e Primo Levi, vent'anni lei e ventidue lui, che appena dieci giorni fasi è laureato in Chimica ricevendo un diploma che specifica «di razza ebraica». Nessuno di quei quattro ragazzi sorridenti sa ancora che il Führer ha scelto proprio questa domenica per lanciare l'attacco alla Russia di Stalin che per la Germania nazista sarà il principio della rovina. Se il ragazzo senza nome è equipaggiato con corde da alpinismo, solo poi gli altri tre scopriranno che «andare in montagna» è sinonimo di «fare la Resistenza»: nell'Italia del 1941 il nome e la cosa non esistono. Così mingherlina, Anna Maria è estroversa e coraggiosa La sua storia la si conosce solo per frammenti, cui qui abbiamo provato a dare corpo. Nella Resistenza sarà impegnata soprattutto a Torino, come staffetta e portatrice di stampa clandestina del Partito d'Azione, «Il partigiano alpino» e «L'Italia libera».

Domenico Scarpa, Il Sole 24 Ore Domenica, 18 novembre 2018  

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