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27 novembre 2018 -  18 Kislev 5779
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Storia

Ecuador, sconosciuta terra di rifugiati    

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img headerDaniel Kersffeld / LA MIGRACIÓN JUDÍA EN ECUADOR. CIENCIA, CULTURA Y EXILIO. 1933-1945

Quando si pensa all’emigrazione italiana, ebraica e non, in America Latina, i primi paesi che vengono in mente sono l’Argentina, il Brasile e, a volte, persino il Cile. Eppure, tra gli Stati che accolsero rifugiati ebrei italiani durante gli anni delle Leggi razziste e del Secondo conflitto mondiale, vi fu anche un piccolo paese andino, che all’epoca dei fatti contava appena 3 milioni di abitanti: l’Ecuador. La storia di questa particolare migrazione, esigua nei numeri ma imponente per il contributo civile ed intellettuale che gli ebrei italiani svolsero nel paese d’accoglienza, non è mai stata prima d’ora affrontata dalla storiografia, tanto italiana quanto ecuadoriana. Tuttavia, quest’estate la lacuna è stata colmata da un’importante monografia dal titolo: “La migrazione ebraica in Ecuador. Scienza, cultura ed esilio 1933-1945”, dello storico argentino Daniel Kersffeld, edito dall’Accademia Nazionale di Storia Ecuadoriana. L’obiettivo del libro è quello di ripercorrere la storia dell’emigrazione intellettuale ebraica in Ecuador dall’ascesa del Terzo Reich fino al termine della Seconda guerra mondiale, affrontando ogni aspetto legato al fenomeno, dalle politiche migratorie in vigore in quegli anni, al dibattito politico che l’immigrazione ebraica suscitò nella società ecuadoriana, fino ad arrivare ad un’analisi dettagliata dell’apporto che la neonata comunità ebraica, formata da rifugiati d’origine europea, diede all’innovazione ed allo sviluppo dello stato. Secondo le stime ufficiali, tra il 1933 ed il 1945, i rifugiati ebrei arrivati in Ecuador dall’Europa furono 3.200, perlopiù provenienti da Germania, Austria, Cecoslovacchia e Italia, mentre nel dopoguerra il numero crebbe fino a raggiungere un massimo di 4.000 persone nel 1950. Se in termini assoluti la cifra può sembrare ridotta, vista in chiave comparativa non può che denotare una politica migratoria aperturista da parte della classe dirigente ecuadoriana. Infatti, negli stessi anni i rifugiati ebrei giunti in paesi ben più popolosi ed economicamente più sviluppati come Colombia e Messico, furono rispettivamente appena 3.971 e 1.850.

Michele Migliori, Pagine Ebraiche, novembre 2018 

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musica

Venezia ebraica, tradizioni in canto

img headerPiergabriele Mancuso (A cura di ) / MUSICHE DELLA TRADIZIONE EBRAICA A VENEZIA. LE REGISTRAZIONI DI LEO LEVI (1954-1959) / Squilibri

“Musiche della tradizione ebraica a Venezia. Le registrazioni di Leo Levi (1954-1959)” è un bel volume con due Cd allegati curato da Piergabriele Mancuso, già direttore del “Eugene Grant Research Program on Jewish History and Culture in Early Modern Europe” al Medici Archive Project a Firenze.
Pubblicato dalla casa editrice Squilibri, d’intesa con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e in collaborazione con la Comunità Ebraica di Venezia, la pubblicazione documenta parte del rito sinagogale veneziano, già all’epoca ridotto per lo più alla sola componente sefardita, sia ponentina che levantina, e una parte non irrilevante dell’antico rito ashkenazita, oggi completamente sparito.
Le registrazioni, circa novanta minuti complessivi, finora del tutto inedite, risalgono all’imponente lavoro di ricerca sul campo avviato da Leo Levi dopo il suo incontro con Giorgio Nataletti, direttore dell’allora CNSMP-Centro Nazionale Studi Musica Popolare, grazie al quale poté dare seguito al suo ambizioso progetto di una raccolta sistematica di testimonianze sulle tradizioni musicali delle comunità ebraiche italiane, nella convinzione che conservassero un patrimonio ricchissimo e composito di melodie, a torto trascurato fino ad allora negli studi oltre che nelle spedizioni degli etnomusicologi.

mdp 

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società

Democrazia malata
 

biografie

Ma gli errori di uno storico non sono perdonabili

Mark A. Graber, Sanford Levinson, Mark Tushnet / CONSTITUTIONAL DEMOCRACY IN CRISIS? / Oxford University Press

Chi vuole sapere quale sia lo stato presente della democrazia nel mondo deve leggere questo libro. Esso raccoglie scritti dei maggiori costituzionalisti di molti Paesi e analizza le condizioni degli assetti democratici in tredici Paesi e in aree regionali (Asia, Africa, Sud America) cercando di rispondere alle domande ricorrenti relative alla loro crisi. L'Italia è assente. Gli autori indagano la nozione di crisi, i suoi segni, i suoi fattori. Osservano che si riscontrano erosione, retrogressione, recessione, destabilizzazione, declino, decomposizione, collasso, a seconda dei Paesi. La democrazia è dovunque in cattiva salute, ma la malattia ha un grado diverso di sviluppo. La crisi della democrazia non matura alla stessa velocità in ogni Paese. I segni e i fattori di crisi sono molti: un minor numero di Stati adotta regimi democratici, mentre altri regrediscono verso sistemi autoritari; le basi tradizionali e i modelli classici di democrazia si indeboliscono; aumentano le minacce esterne (terrorismo, fondamentalismo religioso, emigrazioni, populismo, etnocentrismo, razzismo) e gli errori interni dei politici democratici; si affacciano emergenze, che inducono ad adottare stati di eccezione; diventano evanescenti i partiti; emergono nuove divisioni, come quella tra nazionalisti e sostenitori del cosmopolitismo; aumentano le diseguaglianze e le conseguenti rabbie e paure; decadono le élite; diminuisce la fiducia nei governi; aumenta la polarizzazione, e quindi le azioni politiche sono meno consensuali.

Sabino Cassese,
Il Sole 24 Ore Domenica, 25 novembre 2018


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Hans Woller / MUSSOLINI / Carocci




Se un romanzo storico contiene strafalcioni che stravolgono la storia, l'autore può invocare a difesa la licenza dell'immaginazione. Ma non può invocarla lo storico, specialmente se asserisce di aver compiuto il suo lavoro con «pregnanza e accuratezza storica», come afferma Hans Woller nella introduzione a Mussolini, il primo fascista. Purtroppo, in questa ennesima biografia mussoliniana, l'accuratezza è scarsa. Per esempio, vi si legge che Mussolini ebbe il «ruolo di caporedattore» dell'«Avanti», mentre ne fu il direttore; che nel 1921 Mussolini, leader del partito fascista, era «editore e caporedattore del suo organo ufficiale», mentre dirigeva «Il Popolo d'Italia» che mai fu organo del partito; che all'inizio «il Gran consiglio non fu un organo del partito, né dello Stato», mentre nacque come organo supremo del fascismo. Alla scarsa accuratezza si accompagnano giudizi estemporanei, espressi spesso con certa sciatteria colloquiale, e talvolta enigmatici, come: «II 25 luglio 1943 la rivoluzione fascista non fu liquidata, né il duce si vide declassato per sempre a ex». AItri esempi potrebbero essere citati. Il più eclatante è nel finale, dove il biografo tedesco accusa di apologia mussoliniana Renzo De Felice, per averlo presentato «come un dittatore dal guanto di velluto e aggressore suo malgrado, estraneo al razzismo e costretto all'antisemitismo da Hitler». .

Emilio Gentile,
Il Sole 24 Ore Domenica, 25 novembre 2018



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