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20 dicembre 2018 - 13 tevet 5779
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mostre

Avanguardia, scuola e vita

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Nel 1918 Marc Chagall veniva nominato Commissario di Belle Arti di Vitebsk, dove aveva visto la luce come Moishe Segal, anche se il suo nome russo era Mark Zacharovič Šagal. Vitebsk, ora in Bielorussia, era allora un grande Shtetl, posizionato sulla "Linea di demarcazione per l'insediamento ebraico", ossia al limitare di quella zona della Russia occidentale in cui era permesso l'insediamento permanente degli ebrei, e all'inizio del Novecento circa metà della popolazione era composta da ebrei ortodossi. Poco tempo dopo vi venne aperta la Scuola d'arte popolare, a segnare inizi di un periodo che avrebbe fatto del luogo un centro febbrile di attività artistica. A cento anni di distanza una grande mostra presentata qualche mese fa a Parigi al Centre Pompidou e ora visitabile al Jewish Museum di New York fino a inizio gennaio celebra il lavoro di tre figure iconiche: Chagall, Lissitzky e Malevich. Ma racconta anche il lavoro di insegnanti e studenti della scuola, artisti del calibro di Vera Ermolaeva, Nicolaï Souietine, Ilia Tchachnik o Lazar Khidekel e David Yakerson. La mostra è intitolata a El Lissitzky e Kasimir Malevich, il fondatore del suprematismo, invitati entrambi da Chagall a insegnare a Vitebsk, e tra i maggiori rappresentanti delle avanguardie russe.

Ada Treves, Pagine Ebraiche, dicembre 2018

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MACHSHEVET ISRAEL

Viaggiare a occhi chiusi 

img headerVi sono due modi per viaggiare a occhi chiusi. O standosene fermi in casa e immaginando cose che non si sono mai vedute; oppure viaggiando realmente ma tenendo chiusi gli occhi sì da non vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti gli altri, che tengono gli occhi aperti (seppur vedere non equivalga sempre a capire). È questa la curiosa ma acutissima chiave di lettura offerta da uno storico-letterato come Alberto Cavaglion nel libro “Verso la Terra Promessa. Scrittori italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini” (Carocci, 2016). L’ho appena letto, con quasi tre anni di ritardo. Non perché non l’avessi notato prima; anzi, l’avevo accantonato apposta: intuivo che queste pagine avrei dovuto leggerle con attenzione per assaporarle. Cavaglion ha una scrittura incalzante, piena di ‘fatti’, dove non v’è un aggettivo fuori posto o che non sia ponderato; soprattutto, lascia al lettore lo spazio per proprie conclusioni (è lo stile di Primo Levi, che qui rivive al meglio, con la giusta mistura di erudizione e di captatio cordis). Qui lo storico si rivela un narratore di narratori, e il letterato indaga da storico, la cui ebraicità piemontese – schiva e ironica, dolce e determinata, tagliente e alla mano – mi ricorda anche il meglio, umano e intellettuale, di Paolo De Benedetti. Il filo rosso di questi capitoli è appunto ‘il racconto di viaggio’, nel XIX e XX secolo, verso la terra che quasi tutti chiamano ‘santa’ o ‘promessa’, seppur per ragioni diverse e in divergenti prospettive. Ma su questo filo della ri-narrazione, il vero focus sono i viaggiatori – uomini e donne, ebrei e cristiani, religiosi e laici – con i loro pensieri e le loro scelte ideologiche, dei quali Cavaglion ci offre brevi ma intensi medaglioni proprio nell’istantanea che li coglie ‘in viaggio’, reale o immaginario che sia.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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società        

Gangster jihadisti
in Europa

La strage di Strasburgo dimostra che il terrorismo islamico resta una minaccia per l'Europa a dispetto della disintegrazione territoriale del Califfato jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi. I motivi hanno a che vedere con la natura di questo avversario - non è un'organizzazione ma un'ideologia - che gli permette di sopravvivere a smacchi, adattarsi alle sconfitte militari trasformandosi in continuazione per poter tornare a colpire. Se la caduta di Raqqa, nell'ottobre dello scorso anno, ha portato alla riduzione del Califfato a poche enclaves nel deserto siriano-iracheno ma non alla sua definitiva sconfitta è perché l'idea di fondo che ispira al Baghdadi è viva e vegeta. Si tratta del rifiuto viscerale della modernità che il teologo egiziano Hassan El Banna espresse nel 1928 e che, da allora, ha ispirato incarnazioni diverse dell'estremismo islamico fino a portare la Jihad islamica egiziana di Ayman al-Zawahiri a firmare nel 1998 l’accordo con Osama Bin Laden da cui nacque Al Qaeda, ovvero la fonte da cui discendono la galassia di gruppi sanguinari arrivati fino a noi, incluso l’Isis che ha definito un proprio «soldato» Cherif Chekatt, autore della strage di Place Kiéber. Se a oltre 17 anni dall'attacco dell'11 settembre a New York e Washington il jihadismo ha mietuto in un mercatino di Natale alsaziano altre vittime - incluso Antonio Megalizzi - è perché non ha bisogno di piani, armi e basi per colpire disponendo di un'idea tanto feroce quanto contagiosa.

Maurizio Molinari, La Stampa,
16 dicembre 2018 


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traduzioni 

«E luce fu» annunciato
in un buon inglese

“When God began to create heaven and earth, and the earth was then welter and waste and darkness over the deep, and God's breath hovering over the waters, God said, "Let there be light. And there was light»: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra, e la terra allora era informe e inane e la tenebra sull'abisso e il fiato di Dio aleggiava sulle acque, Dio disse, "Sia la luce". E la luce fu». Cominciava così, nel 1996, la Genesi tradotta e commentata da Robert Alter. L'inglese usava l'allitterazione welter and waste (informe e inane) per tradurre l'originale tohuwabohu, e un'altra allitterazione, darkness and deep, per l'oscurità (la tenebra) e l'abisso. E chiosava «fiato» («breath», ruach) attaccandogli «vento» e «spirito», e dichiarando che il suo aleggiare (hovering) descrive altrove un'aquila fluttering sui suoi piccoli «e potrebbe perciò avere la connotazione di parto o nutrizione oltre a quella di rapido movimento avanti e indietro». Un alito d'aria fresca spirava da Berkeley sul Principio della Bibbia, fondendo traduzione e commento sulla stessa pagina in modo che il lettore normale, non biblista, avesse almeno un'idea della complessità delle espressioni, delle immagini e dei concetti dell'originale ebraico, e nello stesso tempo apprezzasse il ritmo dell'inglese e cominciasse a comprendere, per esempio, la soluzione del problematico «In principio Dio creò» (quale principio? in principio di cosa?) nella proposizione temporale «Quando Dio cominciò a creare».

Piero Boitani, Il Sole 24 Ore Domenica,
16 dicembre 2018  


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Beati coloro che seminano

img headerBibbia e modernità, Talmud e canto alla natura, poesia in rima e poesia libera, dualità già vissuta nella letteratura di Sholem Alechem, Israel Singer e S. Anskji che nelle poesie di Abraham Sonne rappresenta “un binomio tutt’altro che casuale… in un momento denso di cambiamenti culturali e politici per l’ebraismo europeo”. Così Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen scrivono di Avraham Sonne Ben Yitzhak, nato in Galizia Austria, nel 1883 e morto in Israele nel 1950. Amato e ammirato da intellettuali e poeti del suo tempo in Israele e in Europa per le sue poche - non più di undici - liriche, fu portato in palmo di mano perfino dal poeta nazionale israeliano Hayim Nachman Bialik. Sonne, amico di Elias Canetti, è considerato con David Vogel il più grande rivoluzionario della poesia ebraica moderna, commentatore della natura senza un filo di eccesso o linguaggi aulici.
Per quali ragioni, chiedono i traduttori e curatori del libro Poesie di A. B. Yitzhak, pur essendo l’autore in termini meramente quantitativi così modesto, è stato giudicato così importante dal maggior poeta di lingua ebraica del Novecento? La ragione, forse, è da rintracciarsi proprio nelle parole di un’altra grande poetessa, Lea Goldberg, che scrisse: La letteratura non lo interessava, lo interessava la poesia, come fondamento della realtà, come fondamento del mondo.”

BEATI COLORO CHE SEMINANO E NON MIETONO

Beati coloro che seminano e non mietono                                                                                                poiché vagheranno più lontano.

Beati i generosi la cui splendida giovinezza                                                                                  
aumentò la luce dei giorni e la loro prodigalità                                                                                      
e si spogliarono dei propri ornamenti - sui crocevia.

Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini della loro anima                                                               
e diventò come l’umiltà del biancore                                                                                                        dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole.  
                                                                        
Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà dal deserto                                                                  
e sulle loro labbra fiorirà il silenzio.

Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del mondo                                                                 
coperti dal manto dell’oblio                                                                                                                       
e la parte loro riservata sarà il tamid senza parole.

*Il tamid – termine che definisce il sacrificio quotidiano al Tempio di Gerusalemme (NdT)

(Avraham Ben Yitzhak, Poesie, con un saggio di Lea Goldberg, traduzione e cura di Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen, Portatori d’acqua, Pesaro, 2018)

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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