mostre
Avanguardia, scuola e vita

Nel 1918 Marc Chagall veniva nominato Commissario di Belle Arti di
Vitebsk, dove aveva visto la luce come Moishe Segal, anche se il suo
nome russo era Mark Zacharovič Šagal. Vitebsk, ora in Bielorussia, era
allora un grande Shtetl, posizionato sulla "Linea di demarcazione per
l'insediamento ebraico", ossia al limitare di quella zona della Russia
occidentale in cui era permesso l'insediamento permanente degli ebrei,
e all'inizio del Novecento circa metà della popolazione era composta da
ebrei ortodossi. Poco tempo dopo vi venne aperta la Scuola d'arte
popolare, a segnare inizi di un periodo che avrebbe fatto del luogo un
centro febbrile di attività artistica. A cento anni di distanza una
grande mostra presentata qualche mese fa a Parigi al Centre Pompidou e
ora visitabile al Jewish Museum di New York fino a inizio gennaio
celebra il lavoro di tre figure iconiche: Chagall, Lissitzky e
Malevich. Ma racconta anche il lavoro di insegnanti e studenti della
scuola, artisti del calibro di Vera Ermolaeva, Nicolaï Souietine, Ilia
Tchachnik o Lazar Khidekel e David Yakerson. La mostra è intitolata a
El Lissitzky e Kasimir Malevich, il fondatore del suprematismo,
invitati entrambi da Chagall a insegnare a Vitebsk, e tra i maggiori
rappresentanti delle avanguardie russe.
Ada Treves, Pagine Ebraiche, dicembre 2018
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MACHSHEVET
ISRAEL
Viaggiare a occhi chiusi
Vi
sono due modi per viaggiare a occhi chiusi. O standosene fermi in casa
e immaginando cose che non si sono mai vedute; oppure viaggiando
realmente ma tenendo chiusi gli occhi sì da non vedere ciò che è sotto
gli occhi di tutti gli altri, che tengono gli occhi aperti (seppur
vedere non equivalga sempre a capire). È questa la curiosa ma
acutissima chiave di lettura offerta da uno storico-letterato come
Alberto Cavaglion nel libro “Verso la Terra Promessa. Scrittori
italiani a Gerusalemme da Matilde Serao a Pier Paolo Pasolini”
(Carocci, 2016). L’ho appena letto, con quasi tre anni di ritardo. Non
perché non l’avessi notato prima; anzi, l’avevo accantonato apposta:
intuivo che queste pagine avrei dovuto leggerle con attenzione per
assaporarle. Cavaglion ha una scrittura incalzante, piena di ‘fatti’,
dove non v’è un aggettivo fuori posto o che non sia ponderato;
soprattutto, lascia al lettore lo spazio per proprie conclusioni (è lo
stile di Primo Levi, che qui rivive al meglio, con la giusta mistura di
erudizione e di captatio cordis). Qui lo storico si rivela un narratore
di narratori, e il letterato indaga da storico, la cui ebraicità
piemontese – schiva e ironica, dolce e determinata, tagliente e alla
mano – mi ricorda anche il meglio, umano e intellettuale, di Paolo De
Benedetti. Il filo rosso di questi capitoli è appunto ‘il racconto di
viaggio’, nel XIX e XX secolo, verso la terra che quasi tutti chiamano
‘santa’ o ‘promessa’, seppur per ragioni diverse e in divergenti
prospettive. Ma su questo filo della ri-narrazione, il vero focus sono
i viaggiatori – uomini e donne, ebrei e cristiani, religiosi e laici –
con i loro pensieri e le loro scelte ideologiche, dei quali Cavaglion
ci offre brevi ma intensi medaglioni proprio nell’istantanea che li
coglie ‘in viaggio’, reale o immaginario che sia.
Massimo Giuliani, docente
al Diploma Studi Ebraici, UCEI
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società
Gangster jihadisti
in Europa
La
strage di Strasburgo dimostra che il terrorismo islamico resta una
minaccia per l'Europa a dispetto della disintegrazione territoriale del
Califfato jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi. I motivi hanno a che
vedere con la natura di questo avversario - non è un'organizzazione ma
un'ideologia - che gli permette di sopravvivere a smacchi, adattarsi
alle sconfitte militari trasformandosi in continuazione per poter
tornare a colpire. Se la caduta di Raqqa, nell'ottobre dello scorso
anno, ha portato alla riduzione del Califfato a poche enclaves nel
deserto siriano-iracheno ma non alla sua definitiva sconfitta è perché
l'idea di fondo che ispira al Baghdadi è viva e vegeta. Si tratta del
rifiuto viscerale della modernità che il teologo egiziano Hassan El
Banna espresse nel 1928 e che, da allora, ha ispirato incarnazioni
diverse dell'estremismo islamico fino a portare la Jihad islamica
egiziana di Ayman al-Zawahiri a firmare nel 1998 l’accordo con Osama
Bin Laden da cui nacque Al Qaeda, ovvero la fonte da cui discendono la
galassia di gruppi sanguinari arrivati fino a noi, incluso l’Isis che
ha definito un proprio «soldato» Cherif Chekatt, autore della strage di
Place Kiéber. Se a oltre 17 anni dall'attacco dell'11 settembre a New
York e Washington il jihadismo ha mietuto in un mercatino di Natale
alsaziano altre vittime - incluso Antonio Megalizzi - è perché non ha
bisogno di piani, armi e basi per colpire disponendo di un'idea tanto
feroce quanto contagiosa.
Maurizio Molinari, La Stampa,
16 dicembre 2018
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traduzioni
«E luce fu» annunciato
in un buon inglese
“When
God began to create heaven and earth, and the earth was then welter and
waste and darkness over the deep, and God's breath hovering over the
waters, God said, "Let there be light. And there was light»: «Quando
Dio cominciò a creare il cielo e la terra, e la terra allora era
informe e inane e la tenebra sull'abisso e il fiato di Dio aleggiava
sulle acque, Dio disse, "Sia la luce". E la luce fu». Cominciava così,
nel 1996, la Genesi tradotta e commentata da Robert Alter. L'inglese
usava l'allitterazione welter and waste (informe e inane) per tradurre
l'originale tohuwabohu, e un'altra allitterazione, darkness and deep,
per l'oscurità (la tenebra) e l'abisso. E chiosava «fiato» («breath»,
ruach) attaccandogli «vento» e «spirito», e dichiarando che il suo
aleggiare (hovering) descrive altrove un'aquila fluttering sui suoi
piccoli «e potrebbe perciò avere la connotazione di parto o nutrizione
oltre a quella di rapido movimento avanti e indietro». Un alito d'aria
fresca spirava da Berkeley sul Principio della Bibbia, fondendo
traduzione e commento sulla stessa pagina in modo che il lettore
normale, non biblista, avesse almeno un'idea della complessità delle
espressioni, delle immagini e dei concetti dell'originale ebraico, e
nello stesso tempo apprezzasse il ritmo dell'inglese e cominciasse a
comprendere, per esempio, la soluzione del problematico «In principio
Dio creò» (quale principio? in principio di cosa?) nella proposizione
temporale «Quando Dio cominciò a creare».
Piero Boitani, Il Sole 24 Ore Domenica,
16 dicembre 2018
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Shir
Shishi - una poesia per erev shabbat
Beati coloro che seminano
Bibbia
e modernità, Talmud e canto alla natura, poesia in rima e poesia
libera, dualità già vissuta nella letteratura di Sholem Alechem, Israel
Singer e S. Anskji che nelle poesie di Abraham Sonne rappresenta “un
binomio tutt’altro che casuale… in un momento denso di cambiamenti
culturali e politici per l’ebraismo europeo”. Così Anna Linda Callow e
Cosimo Nicolini Coen scrivono di Avraham Sonne Ben Yitzhak, nato in
Galizia Austria, nel 1883 e morto in Israele nel 1950. Amato e ammirato
da intellettuali e poeti del suo tempo in Israele e in Europa per le
sue poche - non più di undici - liriche, fu portato in palmo di mano
perfino dal poeta nazionale israeliano Hayim Nachman Bialik. Sonne,
amico di Elias Canetti, è considerato con David Vogel il più grande
rivoluzionario della poesia ebraica moderna, commentatore della natura
senza un filo di eccesso o linguaggi aulici.
Per quali ragioni, chiedono i traduttori e curatori del libro Poesie di
A. B. Yitzhak, pur essendo l’autore in termini meramente quantitativi
così modesto, è stato giudicato così importante dal maggior poeta di
lingua ebraica del Novecento? La ragione, forse, è da rintracciarsi
proprio nelle parole di un’altra grande poetessa, Lea Goldberg, che
scrisse: La letteratura non lo interessava, lo interessava la poesia,
come fondamento della realtà, come fondamento del mondo.”
BEATI COLORO CHE SEMINANO E NON MIETONO
Beati coloro che seminano e non
mietono
poiché vagheranno più lontano.
Beati i generosi la cui splendida
giovinezza
aumentò la luce dei giorni e la loro
prodigalità
e si spogliarono dei propri ornamenti - sui crocevia.
Beati i fieri la cui fierezza oltrepassò i confini della loro
anima
e diventò come l’umiltà del
biancore
dopo il levarsi dell’arcobaleno in mezzo alle nuvole.
Beati quelli che sanno che il loro cuore griderà dal
deserto
e sulle loro labbra fiorirà il silenzio.
Beati loro perché saranno raccolti nel cuore del
mondo
coperti dal manto
dell’oblio
e la parte loro riservata sarà il tamid senza parole.
*Il tamid – termine che definisce il sacrificio quotidiano al Tempio di Gerusalemme (NdT)
(Avraham Ben Yitzhak,
Poesie, con un saggio di Lea Goldberg, traduzione e cura di Anna Linda
Callow e Cosimo Nicolini Coen, Portatori d’acqua, Pesaro, 2018)
Sarah Kaminski, Università
di Torino
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