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17 gennaio 2018 - 11 shevat 5779
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ECONOMIA

Il co-working? Un kibbutz 2.0

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Ha 517 sedi per uffici in quasi cento città e i suoi numeri continuano a crescere: Wework, è oggi una delle (ex) startup dalla valutazione più alta al mondo - attorno ai 42 miliardi di dollari. Fondata nel 2010 a New York con l’obiettivo di offrire a start up o professionisti uffici in diverse modalità, dal gruppo di stanze a una scrivania, oggi Wework è un vero e proprio colosso del coworking ma anche dell’immobiliare. In Italia aprirà nei prossimi mesi: è già stata annunciata una sede a Milano. Mentre nel 2018 è stata lanciata con grande entusiasmo la sede di Gerusalemme – in ottobre, all’apertura hanno tra l’altro costruito una co-working Sukkah con tavoli, due meeting room e molti dei servizi offerti da Wework, da birra e caffè gratis a stampanti e articoli da cancelleria a disposizione. Così sono diventate cinque le città israeliane in cui l’azienda è presente, facendone il terzo paese al mondo per numero di sedi dopo Stati Uniti e Cina. Wework è diventato ben presto molto più che una semplice possibilità di una postazione di lavoro a prezzi convenienti. Ci sono servizi e benefici materiali: società e professionisti non devono preoccuparsi dell’arredamento, delle utenze, delle pulizie, della manutenzione dello spazio cucina, e possono aumentare o ridurre agevolmente gli spazi affittati a seconda della necessità. Ma soprattutto l’idea di fondo è di trasformare la condivisione del luogo fisico in una vera e propria comunità. Tanto che il co-fondatore di Wework Adam Neumann ha definito la sua impresa una sorta di kibbutz 2.0.

Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche, gennaio 2019

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MACHSHEVET ISRAEL

Apocalisse della paura 

img headerUn diffuso settimanale italiano ha messo sulla copertina del primo numero del 2019 un duro monito: “Fermiamo l’apocalisse”. Titolo volutamente apocalittico, gridato per allarmare le coscienze: surriscaldamento globale dovuto a inquinamento atmosferico; biodiversità a rischio per la distruzione di interi habitat naturali; mari e oceani invasi dalla plastica; politica arrogante e cieca... e abbiamo dimenticato gli arsenali pieni di armi atomiche: siamo “sull’orlo dell’abisso”, per citare un volume di inquietanti riflessioni del filosofo Hans Jonas (1903-1993), voce tra le più autorevoli del pensiero del XX secolo. Ebreo tedesco, allievo di Heidegger, scampato alla Shoà emigrando in Palestina ma tornato a combattere il nazifascismo con divisa britannica proprio in Italia, fu infine chiamato dalla Arendt ad insegnare negli States dove elaborò una biologia filosofica in chiave etica ancora oggi attualissima e persuasiva. È curioso che a rilanciare l’apocalittica, in termini di emergenza antropologica (previsioni catastrofiche per il futuro incluse), siano stati nella seconda metà del Novecento proprio due grandi ebrei tedeschi: Jonas, appunto, e prima di lui quel Günther Anders (1902-1992), il cui cognome vero era Stern, che aveva studiato con Husserl, e sua volta era scampato al nazismo emigrando prima a Parigi e poi negli Usa, rientrato infine a Vienna.

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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società        

Derive antisemite
nella sinistra radicale 

Direttore di ricerca emerito al Cnrs, lo storico francese Michel Dreyfus si è occupato del socialismo e del movimento sindacale. Il suo saggio L'antisemitismo a sinistra è uscito in Italia nel 2018 presso l'editore Free Ebrei.

Come mai il suo libro si intitola «L'antisemitismo a sinistra» e non «L'antisemitismo di sinistra»?

«Perché l'antisemitismo specifico della sinistra, nel senso più ampio del termine, è stato un fenomeno decisamente raro. In effetti, nella sua storia, la sinistra ha più spesso ripreso stereotipi sviluppati dalla destra e dall'estrema destra. Ho distinto nel corso degli ultimi due secoli cinque forme di antisemitismo: economico, razzista, complottista, revisionista e negazionista e, infine, antisionista nei confronti dello Stato di Israele».

Alessandra Tarquini, Corriere La Lettura,
13 gennaio 2019  


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orizzonti 

Odio bianco - Due storie

La strage alla sinagoga di Pittsburgh, il 27 ottobre, ha spazzato via anche l’ultima illusione. Undici morti, sei feriti. È stato l’attacco antisemita più grave nella storia degli Stati Uniti, uno dei successi più clamorosi del suprematismo bianco. Eppure, mentre le settimane scorrono, cresce l’amaro del dejà vu. Questo è un film già visto troppe volte. Gli attori cambiano ma non il finale e tanto meno il regista. È già successo, succederà di nuovo.
I segnali d’allarme sono sotto gli occhi di tutti. Lo stesso micidiale impasto d’odio tiene insieme il massacro di Pittsburgh; le violenze neonaziste a Charlottesville, dove un anno fa ha perso la vita la ventiquattrenne Heather Heyer; l’attacco alla chiesa di Charleston dove nel 2015 Dylann Roof ha trucidato nove afroamericani; la furia crescente contro immigrati, ispanici, musulmani, donne, Lgbt, intellettuali e correttezza politica.


Daniela Gross, Doppiozero,
6 gennaio 2019 


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Gelosia

img headerRami Dizni è nato a Tel Aviv nel 1950 e mancato nel 2012. È stato un vero artista delle parole giocose e sfuggevoli nella loro abilità di creare una forte ironia e perfino un senso macabro di sopravvivenza, in un mondo che si sta disgregando. Dizni ha studiato cinema, ingegneria ed è stato anche guida naturalistica. È morto a sessantadue anni dopo una lunga malattia lasciando un bagaglio importante di liriche e due libri di poesia per ragazzi.
Di lui disse il critico Hanan Hever, “Con violenza poetica ha sconvolto la poesia israeliana, trasformando il deplorevole, scioccante e macabro in strumento linguistico eccezionale“.
 
Dal finestrino del pullman alla stazione di Afula ho intravisto due amorosi kibbutznik.

Chiaro, li conoscevo entrambi! Ma non conoscevo la meraviglia del loro amore:

lei ha perso una mano in un attentato e lui è monco, vittima di un attacco smantellato.

Si stavano allontanando passo passo, e io ero geloso di loro perché io sono solo, io,

mentre le pupille dei loro occhi, pupilla nella pupilla

e il cuore di lei in quello di lui e il cuore di lui in quello di lei,

'due moncuorino'.

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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