DOPO L'ATTACCO NEONAZISTA IN GERMANIA
Gli eroi di Halle e il Kippur per la democrazia
Il 9 ottobre per l’Europa non può essere un giorno come un altro. In una data mai consacrata dal riconoscimento di giorno festivo, ma ben presente nel cuore di milioni di europei, incancellabile nella memoria dei tedeschi, trent’anni fa a Lipsia una immensa, pacifica marcia avviava la corsa inarrestabile della Germania tenuta in gabbia oltre al muro eretto dalla dittatura. In una manciata di settimane sconvolgenti la gente avrebbe piegato la più temibile e la più spietata delle dittature europee.
Questo 9 ottobre doveva essere un giorno di trionfo per la democrazia. Ma quando il Presidente Frank-Walter Steinmeier, che è stato di recente accolto dagli ebrei napoletani nella loro sinagoga, ha preso la parola nella mitica sala della Gewandhaus, a una manciata appena di chilometri di distanza, nella vicina città di Halle, si consumava un dramma straziante.
Assediati in sinagoga nel pieno del giorno di Kippur un centinaio di ebrei, che avrebbero solo voluto pregare in pace nel tempio di una comunità marginale ma viva come quella di Halle, ha assistito con orrore all’attacco di un neonazista in assetto di guerra che con armi letali e granate tentava con ogni mezzo di penetrare nella sala di preghiera per compiere una strage.
Accecato dalla resistenza della barriera di sicurezza, che non ha ceduto nemmeno all’attacco condotto con armi pesanti, l’uomo è poi tornato in strada assassinando due cittadini, ferendone degli altri, esplodendo altre granate verso l’antico cimitero ebraico della città.
All’interno della sinagoga una decina di uomini decisi a resistere e a difendersi ad ogni costo ha affiancato gli addetti alla sicurezza per improvvisare una barricata.
È cominciata così, a metà giornata, l’odissea degli ebrei di Halle, costretti a rimanere segregati nell’edificio fino a sera in una città che veniva immediatamente sigillata dal massiccio intervento delle forza dell’ordine.
Mentre le strade si svuotavano per obbedire all’ordine della polizia di rientrare immediatamente nelle abitazioni, il grande nodo ferroviario che scandisce il passaggio dei treni veloci fra i poli settentrionali di Amburgo e Berlino e quello meridionale della Baviera veniva immediatamente escluso dalla circolazione e Halle piombava nel vuoto spettrale di una colossale caccia all’uomo, solo due voci si rincorrevano per rompere il silenzio: quella degli elicotteri accorsi per mettere in sicurezza la regione e quella del Chazan che dall’interno della sinagoga aveva ripreso imperterrito il corso della preghiera.
Eroi loro malgrado, senza perdere la calma ma senza poter avere alcuna certezza del loro destino, gli ebrei di Halle hanno ricacciato indietro la paura, protetto come possibile i bambini che avevano portato con loro, proseguito per attraversare il digiuno nella giornata più dura del calendario ebraico. Mentre l’allarme si spargeva come un fuoco di paglia decine di migliaia di ebrei tedeschi hanno dovuto domandarsi se restare nelle sinagoghe, se raggiungere la sinagoga più vicina, o se lasciarsi vincere dalla prudenza e chiudersi in casa.
La risposta non ha tardato e tutte le sinagoghe tedesche, che già la sera precedente erano straripanti di gente a segnare tangibilmente la dimensione di una realtà ebraica in forte crescita che in pochi anni è passata da poche migliaia di superstiti decimati a circa 120 mila persone, con l’aggiunta di un numero considerevole di giovani israeliani, hanno subito letteralmente il pacifico assalto di quelli che non volevano mancare in alcun modo. Se non poteva esserci posto per tutti sui banchi si è trovato ricovero per i corridoi, nei giardini, al di là delle cancellate, nei cuori. E per una volta l’espressione “Ebrei di Kippur” che descrive quelli che vanno raramente in sinagoga ha assunto una maestosa, impressionante dimensione, si è avvicinata a dire non tanto quello che siamo ogni giorno, ma quello che possiamo essere se solo lo vogliamo.
Mentre le forze dell’ordine compivano un dispiegamento impressionante e la Procura generale dello Stato, la massima autorità inquirente in Germania, avocava a sé ogni indagine come deve avvenire nei momenti del massimo allarme nazionale, tutta la Germania tratteneva il respiro e molti tedeschi comprendevano che se la porta della sinagoga di Halle avesse ceduto un’intera società, un’intera civiltà faticosamente ricostruita, sarebbe stata irrimediabilmente minacciata.
Certamente una tragedia immensa è stata evitata. Eppure, confermando un rapporto sempre franco e mai servile nei confronti del potere politico, le autorità ebraiche non hanno risparmiato un giudizio severo nei confronti delle Forze dell’ordine e del mondo politico. Il presidente della Comunità di Halle Max Pirozki ha denunciato ritardi e carenze negli interventi. Mentre veniva sommerso da una valanga di messaggi di solidarietà da tutto il mondo, fra i primi quello della presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, il presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania Josef Schuster esigeva interventi durissimi e forti progressi negli investimenti sulla sicurezza e la protezione dei cittadini.
La risposta non si è fatta attendere. Quando a sera il pubblico ha cominciato a defluire dalla grande sinagoga centrale di Berlino sulla Oranienburger Strasse ha trovato ad attenderlo la cancelliera federale Angela Merkel accompagnata da molti componenti del Senato della capitale.
Se mai fosse stato necessario un modo ancora per ripetersi commossi ma decisi che gli ebrei tedeschi e gli innumerevoli cittadini che la Germania ha accolto con generosità in questi anni non hanno alcuna intenzione di cedere il passo alla barbarie. Questo 9 ottobre non può essere una festa. Due innocenti hanno perso la vita. Ma ha conservato in ogni caso il suo significato di appuntamento inesorabile con la democrazia e con il futuro dell’Europa.
Tornati all’aria aperta gli ebrei di Halle potevano costatare che la struttura della Sukka era stata danneggiata leggermente dall’esplosione di una granata, ma teneva saldamente. Era quello il momento giusto per lanciare sul tetto scoperto, con il tradizionale gesto che serve a riporre all’uscita di Kippur la nostra fiducia in Hashem, il primo ramo della fragile copertura sotto la quale siamo chiamati a riunirci in questa stagione di dolore e di speranza.
gv
(Nelle immagini in alto, la cancelliera Merkel alla sinagoga della Oranienburger Strasse a Berlino;
il Presidente tedesco Steinmeier alla sinagoga di Halle)
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DOPO L'ATTACCO NEONAZISTA IN GERMANIA, LA MOBILITAZIONE
“Convivenza messa in pericolo, azione forte
e comune contro l’odio”
“Una giornata drammatica per gli ebrei di Germania, per il popolo tedesco, per tutti coloro che credono in un’Europa di pace, speranza, convivenza tra identità e religioni diverse”. Così la Presidente UCEI Noemi Di Segni ha ieri commentato, al termine dello Yom Kippur, i drammatici fatti di Halle in Germania. Parole in evidenza sui media (qui la segnalazione sul Corriere), dove forte è la voce UCEI e il richiamo a intervenire con forza per arginare questa minaccia. Un investimento che andrà fatto anche sul piano culturale, come ha ricordato in una intervista concessa stamane a Radio 24.
“I fatti di Halle, nella loro tragica dinamica – ha scritto Di Segni in un messaggio inviato in serata all’ambasciatore tedesco Viktor Elbling – ci riportano a un altro 9 ottobre, di 37 anni fa, quando ad essere colpito fu il Tempio Maggiore di Roma e a perdere la vita un bambino di appena due anni, Stefano Gaj Taché. Oggi era Yom Kippur, il solenne digiuno che costituisce il momento più sacro dell’anno ebraico. Allora era Shemini Atzeret, la conclusione di Sukkot, la Festa delle Capanne, un altro momento dalla forte valenza simbolica. Non abbiamo dimenticato e mai dimenticheremo”.
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DOPO L'ATTACCO NEONAZISTA IN GERMANIA, LA VOCE DI CHI ERA PRESENTE
Halle e la porta che ha resistito all'odio
“È finito Yom Kippur ad Halle in Germania. Siamo sopravvissuti, in salute e con incredibile forza d'animo – grazie a D-o – nonostante qui oggi ci sia stato un attacco terroristico su larga scala. Il terrorista ha iniziato la sua giornata proprio fuori dalle mura della sinagoga in cui stavamo pregando”. È il racconto di Rebecca Blady, ebrea americana, ospite assieme al marito della comunità della cittadina tedesca di Halle per celebrare Kippur e quindi tra i testimoni diretti del drammatico attacco neonazista in cui sono state uccise due persone. In un post sui social network, Blady ha raccontato quegli attimi di paura con l'attentatore respinto all'ingresso della sinagoga. “Non avevamo quasi nessuna informazione su quello che stava succedendo, ma ci siamo chiusi al piano di sopra e nelle camere blindate. Alla fine abbiamo saputo che un uomo con un fucile aveva cercato di entrare nella sinagoga. Ha lottato con un passante. Il passante è stato ucciso. L'uomo armato era stato fermato o comunque gli era stato proibito di entrare nella sinagoga”. Le decine persone riunite nel tempio della piccola cittadina tedesca si sono così salvate ma ancora tanti sono gli interrogativi aperti sulla vicenda. “Siamo venuti qui per legare con una piccola comunità ebraica, per sentire l'energia divina dello Yom Kippur – le parole di Blady - Siamo ancora qui, cercando di dare un senso a quello che è successo e a quello che sta succedendo”. Un attacco che ha portato un “immenso dolore e paura” nell'ebraismo tedesco, afferma in un comunicato il Consiglio degli ebrei di Germania. “Non conosciamo ancora tutti gli aspetti di questo attacco. La sua brutalità va al di là di quanto abbiamo visto in Germania negli ultimi anni ed è assolutamente sconvolgente per ogni ebreo di questo paese. Troviamo scandaloso che la sinagoga non sia stata sorvegliata dalla polizia, soprattutto in un giorno come lo Yom Kippur. Questa negligenza si è ora ritorta contro di noi. In realtà è un miracolo che non ci siano state altre vittime a seguito di questo attacco".
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YOM KIPPUR 5780
“Ebraismo, un vestito che non passa mai di moda”
Il rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni ha pronunciato nell’ora di Nei’là di questo Kippur 5780, nel Tempio maggiore della Capitale, le seguenti parole:
Alla fine di quaranta anni di deserto, in uno dei discorsi rivolti al popolo di Israele al termine del suo mandato, Moshè ricordò un evento miracoloso, piccolo, a confronto con tutti gli altri che erano avvenuti, ma non meno significativo. Nel deserto non c’era disponibilità di vestiti, e quelli che la gente indossava all’uscita dall’Egitto non si consumarono fino alla fine, per quaranta anni. Qui non si tratta solo di vestito materiale, c’è qualcosa di più profondo. Proviamo a capirlo in questo modo. Che cosa ci facciamo con un vestito consumato e passato di moda? Possiamo semplicemente buttarlo, oppure regalarlo (“ai poveri”, si diceva un tempo nelle famiglie un po’ benestanti), oppure usarlo soltanto dentro casa, perché fuori non è proprio il caso, oppure ce lo teniamo ancora nell’armadio anche se ingombra un po’, perché ci ricorda qualche bella occasione in cui l’abbiamo indossato, oppure lo conserviamo magari per una festa in costume a tema, tra qualche anno.
Il nostro rapporto con l’ebraismo qualche volta sembra essere quello con un vestito passato di moda. Ce ne liberiamo perché pensiamo che non serva più a niente, oppure lo affidiamo a qualche poveretto, che magari ci crede ancora, mentre noi liberi e illuminati non ne abbiamo bisogno, oppure lo conserviamo con un po’ di oggettistica ebraica che ricorda qualcosa di esotico e chic, le nostre origini ma non molto di più, oppure lo riserviamo per “feste mascherate”, esibizioni divertenti sul tema dell’identità. Ma se siamo qua questa sera, e per qualcuno forse questa è una delle poche occasioni all’anno in cui si affaccia in un Beth hakenèset, è proprio per ribadire, anche se non ce ne rendiamo conto, che il nostro ebraismo non è un vestito, usa e getta, un travestimento temporaneo, ma è parte della nostra essenza. E anche se fosse solo un vestito, quello che ci dice Moshè è che questo vestito non si logora, non passa mai di moda. Passa di moda il resto e noi siamo sempre qui: continuamente esposti, usati ed abusati, e sedotti da illusioni e tentazioni; da ideologie estranee, in passato; e oggi che non ci sono tante ideologie e tanti “-ismi”, semplicemente trascinati fuori appresso a qualcosa di altro che luccica. Come i carboni ardenti e attraenti, raccontati in un midràsh, che Moshè bambino e ignaro, messo alla prova dal Faraone, si portò alla bocca e lo resero balbuziente per tutta la vita. Ogni volta che parlava, e Moshè ha parlato tanto, si doveva ricordare e ricordare agli altri che era stato vittima di qualcosa che l’aveva attratto e bruciato. Questa sera siamo qui per riscoprire la nostra natura più autentica, per riallacciare e rinforzare un legame, per capire che questo è il centro e il resto è periferia, questo è il cuore che batte per farci vivere e senza il quale saremmo perduti.
Riccardo Shemuel Di Segni, rabbino capo di Roma
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QUI MILANO - LA CERIMONIA AL MEMORIALE DELLA SHOAH
Il coraggio di chi disse di no al nazifascismo
“Ringrazio i nostri imi - militari italiani internati e deportati dopo l'armistizio del 1943 - che hanno fatto una scelta coraggiosa, pagando con conseguenze difficili. I 600mila che sono andati nei campi di concentramento ci hanno restituito l'onore, accettando la prigionia per affermare la loro libertà. Accettare la prigionia come affermazione di dignità. Noi oggi rendiamo onore a chi ci ha restituito l'onore, anche se in ritardo, ma con profondità e sincerità”. Così il prefetto di Milano Renato Saccone in occasione della consegna, al Memoriale della Shoah, delle medaglie d'onore concesse con decreto del Presidente della Repubblica ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti e ai familiari dei deceduti. All'incontro hanno partecipato la senatrice a vita Liliana Segre e il presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano Roberto Jarach, il vicepresidente UCEI Giorgio Mortara, oltre a rappresentati delle autorità cittadine e regionali.
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Rassegna stampa
Halle, giorno drammatico
per chi crede in pace
e convivenza”
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Setirot - Casher e halal style
Periodicamente accadono episodi – per lo più, in sé, abbastanza marginali – che ci mettono di fronte a ragionamenti e reazioni complessi, spesso divisivi. Come cittadini e come ebrei. Tutto ciò, a mio modesto avviso, poiché l’ideologia diciamo così politica in molti, purtroppo, fagocita il rispetto per la democrazia dei diritti e pure alcuni concetti sacri dell’ebraismo. Per dire, i giornali raccontano di una famiglia bengalese che chiede una mensa con carne halal e niente maiale per i loro figli in una scuola veneta ad altissima densità musulmana. Il finimondo. Sui social e sui media ri-soffia il vento delle false certezze, dell’arroganza, di qualcosa che si avvicina all’odio. Non è la prima volta, non sarà l’ultima.
Stefano Jesurum, giornalista
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Vangeli, documenti ebraici
È certamente vero che ogni documento è la somma di tutte le letture, le interpretazioni, le strumentalizzazioni, gli usi che ne sono stati e ne sono fatti. Ma è altrettanto vero che un documento è legato strettamente al contesto di tempo e di luogo in cui viene prodotto.
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Roma nei sogni di Freud
Il 23 settembre del 1939, Freud muore esule a Londra. Per il calendario ebraico era sabato e Kippur, il giorno il cui cielo e la terra s’incontrano. Freud visitò in lungo e in largo l’Italia: ben 15 visite. Con Roma che visitò sette volte, il rapporto fu più complicato, carico di attese e di ambivalenze irrisolte, che solo nel 1901, riuscì a superare. «Avevo dieci o dodici anni – scrive in una pagina dell’Interpretazione dei sogni – quando mio padre incominciò a portarmi con sé nelle sue passeggiate e a rivelarmi nelle conversazioni le sue opinioni sulle cose di questo mondo. Così, una volta mi fece questo racconto per dimostrarmi quanto migliore del suo fosse il tempo in cui ero venuto al mondo io.
David Meghnagi, assessore alla Cultura UCEI
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Verso che deserto andare
Nel suo Devar Torah durante Shachrit di Kippur in Tempio a Firenze, prima del Sefer, rav Gadi Piperno ha ricordato il rito dei due capri e la scelta tra essi (uno da sacrificare al Signore ed uno inviato verso il deserto, simbolicamente carico dei peccati di tutto Israele), ed in parallelo alcune tra le tante scelte, spesso sofferte, di cui è intessuto tutto il libro di Bereshit.
Sara Valentina Di Palma
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Gli irriducibili: giovani ribelli che sfidarono Mussolini
Alcuni anni fa Mirella Serri pubblicò I redenti ( I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte – 1938-1948, Corbaccio, Milano, 2005), una galleria di personaggi che erano appartenuti, in gran parte, al cosiddetto “fascismo di sinistra” e che nel dopoguerra avevano ottenuto la “redenzione” per mezzo del lasciapassare fornito dal Partito comunista italiano che, d’altra parte, fin dalla metà degli anni ’30 si era rivolto ai “fratelli in camicia nera”. Questi personaggi avevano così finito per costituire una parte non irrilevante dell’élite politica e culturale del dopoguerra. Si trattava di un lavoro serio, opera di una studiosa che non concedeva niente al carattere scandalistico che hanno avuto altre opere sullo stesso argomento.
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Sostanzialmente Sukkot conclude il periodo delle festività autunnali. Ed è una festa veramente particolare che si differenzia da tutte le altre che si celebrano durante l’anno, in casa ed al Beith Hakneseth. L’apice della celebrazione avviene in una struttura primitiva e provvisoria: una capanna di rami e fronde. Questo per ricordarci da dove veniamo: oggi possiamo essere all’apice del successo, ma la Torà ci impone di non montarci la testa. Siamo sempre profughi che fuggivano da una dura schiavitù, o al massimo figli dei fuggitivi.
Roberto Jona, agronomo
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