Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     18 Ottobre 2019 - 19 Tishri 5780
Israele, il ritiro Usa e la lezione dei curdi
"Possiamo contare solo su noi stessi"

Dopo aver raggiunto l’intesa con il presidente turco Recep Erdogan per una tregua di cinque giorni nel nord della Siria, il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo si è recato a Gerusalemme per un incontro con il Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Israele, come raccontano diversi analisti, guarda con preoccupazione agli scenari aperti dalla decisione del presidente Usa Donald Trump di ritirare le truppe americane dal paese governato dal dittatore Assad. Il primo effetto immediato di questa scelta è stata l’invasione turca del nord della Siria ai danni dei curdi. Un’azione condannata fermamente da Netanyahu così come da diverse voci ebraiche internazionali (dalle manifestazioni in Israele all’appello all’Italia della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni) che hanno espresso solidarietà al popolo curdo. A Israele si è rivolto un politico curdo di Kamishlié – città a nord della Siria, al confine con la Turchia – per chiedere aiuto: intervistato dalla radio dell’esercito Galei Zahal, l’uomo ha chiesto l’aiuto dello Stato ebraico affinché agisca nell’arena diplomatica per salvare il popolo curdo”. Mentre Israele può fornire assistenza umanitaria ai curdi e anche esercitare pressioni diplomatiche, afferma Yossi Kuperwasser, ex ufficiale dell’intelligence dell’esercito, l’intervento militare è fuori questione. “Se i problemi non saranno risolti, l’intero Medio Oriente ne risentirà negativamente – le parole invece del politico curdo – Come risultato dell’offensiva turca, i terroristi [dello Stato islamico] sono fuggiti dalle prigioni. Se raggiungono i paesi della regione, si trasformeranno in bombe a orologeria”. Dal punto di vista israeliano non è l’Isis a preoccupare ma il venir meno dell’effetto deterrente della presenza americana in Siria per gli appetiti dei nemici d’Israele. “Trump abbandona gli alleati senza batter ciglio e Israele rischia di essere il prossimo”, il titolo di un articolo di Yedioth Ahronoth di questa settimana (e citato dal Wall Street Journal per criticare Trump). “In questa storia bisogna fare un distinguo: Israele è in una situazione totalmente diversa dai curdi. Noi siamo in grado di difenderci da soli e garantire la nostra sicurezza, non abbiamo bisogno dell’aiuto di nessuno – spiega a Pagine Ebraiche Yoram Schweitzer, esperto israeliano di terrorismo internazionale e già consulente dell’ufficio del Primo ministro d’Israele in materia di sicurezza – In più il fatto che Trump abbia deciso di lasciare la Siria non dovrebbe sorprendere. Ha annunciato da tempo le sue intenzioni e l’effetto principale del ritiro americano, tra l’altro sconsigliato a Trump dai suoi stessi consulenti, è la perdita di influenza a livello globale degli Stati Uniti; la loro capacità di deterrenza si sta riducendo e paesi come Russia, Cina, Arabia Saudita ne approfittano”. Il problema, aggiunge Schweitzer, che in Siria ne hanno approfittato anche i nemici diretti di Israele: “anche se gli americani avevano pochi soldati sul terreno nella Siria settentrionale, averli fatti partire è un brutto segno per noi. Permette infatti all’Iran di continuare nel suo piano di costruirsi un corridoio di influenza che passa dall’Iraq e arriva al Mediterraneo”. Il ritiro americano per il momento non ha toccato tutta la Siria, afferma l’analista militare di Haaretz Amos Harel che spiega: “Israele non ha né il desiderio né la capacità di intervenire a favore dei curdi, nonostante le manifestazioni di solidarietà a Gerusalemme. Dal punto di vista di Israele, le implicazioni pratiche dell’abbandono da parte degli Stati Uniti dei curdi sono trascurabili. La questione critica per Gerusalemme è la continua presenza di truppe americane nella base di Al-Tanf (confine tra siro-iracheno), che ha un certo impatto sul corridoio via terra che collega l’Iran e l’Iraq alla Siria e al Libano. Finora, i rapporti indicano che le truppe rimarranno. L’evacuazione di quella base preoccuperebbe molto Israele”.
Nel paese intanto si sta registrando un certo cambiamento di giudizio rispetto a Trump, la cui imprevedibilità in politica estera comincia ad incrinare il grande apprezzamento dimostrato nei suoi confronti in passato dalla maggioranza degli israeliani. Se è vero che già sotto il presidente Barack Obama la Casa Bianca aveva diminuito la sua presenza in Medio Oriente, “speravamo di vedere un cambiamento con Trump. – ha dichiarato un ufficiale israeliano al giornalista Ben Caspit – È molto sconcertante perché gli americani hanno deciso che non vogliono più sorvegliare il mondo prima che il mondo stesso decidesse che può fare a meno di una forza di polizia internazionale”. Per Schweitzer le mosse di Trump sono un ulteriore dimostrazione che Israele deve contare in primo luogo su se stessa. “Il nostro è un paese che anche quando dorme tiene un occhio aperto. Siamo sempre sull’attenti e per questo siamo in grado di difenderci”, afferma l’esperto, secondo cui le azioni americane non hanno comunque accelerato un possibile conflitto con i nemici iraniani e i loro alleati Hezbollah, che rimane un pericolo attuale. “Continueremo a colpire come abbiamo fatto in passato i terroristi di Hezbollah per minimizzare le loro capacità balistiche”, aggiunge l’esperto, che auspica che Israele nel frattempo si dia un governo. “Mi pare che la soluzione del governo di unità nazionale tanto discussa sia l’unica soluzione e sarebbe importante anche per garantire maggiore sicurezza ai confini”. Ai politici e diplomatici israeliani si rivolge anche l’opinionista Uri Heitner dalle pagine di Yedioth Ahronoth chiedendo a Gerusalemme di aiutare i curdi e sollevare la questione dell’invasione turca “alle Nazioni Unite e a tutte le altre istituzioni internazionali – e procedere verso sanzioni contro la Turchia. Gli ambasciatori israeliani in tutto il mondo dovrebbero inviare un messaggio ai paesi ospitanti invitandoli a condannare la Turchia. Israele dovrebbe chiedere un’azione diretta, come la rottura dei legami diplomatici con la Turchia. Inoltre, Israele è più che in grado, come paese umanitario, di fornire tutto l’aiuto possibile ai curdi”. Per Heitner, così come per Schweitzer, inoltre “la lezione che Israele dovrebbe trarre dalla situazione dei curdi è che non può fidarsi di nessuno se non di se stessa e non dovrebbe assolutamente scendere a compromessi su nessuna questione legata alla sua sicurezza”.

Daniel Reichel twitter @dreichelmoked

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Verdetto divino
Siamo ormai in dirittura d’arrivo con la conclusione di questo lungo periodo dell’anno in cui cadono le festività autunnali del nostro calendario.
Domenica sarà Hosha’anà Rabbà, chiamato anche Yom ha Chatimà – Giorno della suggellazione in cui, dopo un lungo periodo di preghiere e riflessioni, ci disponiamo ad attendere il verdetto divino.
Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
"Shoah Party"
Non sono mostri, ma usano i mostri della nostra società per parlare agli adulti. Cosa ci vogliono dire i ragazzini (ai quali si discute di concedere diritto di voto) che frequentavano la chat di WhatsApp denominata provocatoriamente “Shoah party”? Ci sembrano fondamentali alcuni elementi: 1) l’antisemitismo continua ad essere un linguaggio diffuso e utilizzato a vari livelli nella nostra società. 2) La violenza verbale (utilizzata anche in ampi settori della politica) connette senza distinzioni i luoghi oscuri della coscienza occidentale, dalla pedopornografia all’islamismo radicale fino all’esaltazione dello sterminio degli ebrei. 3) La Memoria della Shoah è diventata un’attività istituzionale ed è quindi riconosciuta come target da colpire nelle espressioni di contestazione “alternativa”.
Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC
Una precarietà stabile
Sukkot grandi e piccole, sobrie o decorate, private o comunitarie (e anche una di kibbutz). Senza dubbio le differenze tra l’una e l’altra non mancano, eppure quando ripenso a tutte le sukkot che ho visto nella mia vita ho l’impressione che le somiglianze siano decisamente più evidenti e significative. Anche le immagini che si trovano cercando “sukkah” in internet sono per la maggior parte non troppo diverse l’una dall’altra, come se seguissero un modello ben preciso: un’uniformità che mi sembra andare molto al di là dei vincoli posti dall’halakhah e che appare quasi sorprendente per una festività che rappresenta simbolicamente proprio la precarietà.
Anna Segre, insegnante
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Rojava, speranza di futuro
Non si può tacere di fronte all’invasione turca del Rojava solo perché i curdi hanno combattuto contro i tagliagole di Daesh, o perché questi tra le proprie milizie hanno molte ragazze sorridenti. I curdi siriani hanno salvato migliaia di ezidi da un massacro annunciato – come mi hanno confermato molti di loro -, e hanno liberato le donne ezide ancora in prigionia. Essi hanno costruito nella loro area un modello di municipalismo democratico mettendo da parte l’etno-nazionalismo, amministrando tramite assemblee insieme alle altre minoranze della zona, come i cristiani siriaci, gli arabi, i turkmeni, gli armeni e i circassi. Il loro “confederalismo democratico” prende ispirazione dalle idee del pensatore libertario Murray Bookchin, nato a New York in una famiglia ebraica.
Francesco Moises Bassano
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